Giuliano Amato (Magazine – maggio 2008)

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L’ultimo giorno al Viminale di Giuliano Amato è anche il suo ultimo giorno di scuola, che lui preferisce chiamare «l’ultimo giorno in fabbrica»: mai più in Parlamento e mai più un incarico di governo. Amato aveva già annunciato una prima volta il suo ritiro nel 1993, dopo un’esperienza di “lacrime e sangue” a Palazzo Chigi, nel pieno di quella Tangentopoli che aveva fracassato il suo Psi e travolto parecchi dei suoi compagni di partito, primo fra tutti il leader Bettino Craxi. Poi era tornato. Ora, a settant’anni appena compiuti, l’addio è definitivo. Restano gli incarichi in vari centri studi internazionali, associazioni e progetti con nomi esotici. Nonché la presidenza onoraria del leggendario Tennis Club di Orbetello. «Sono come un generale russo, non mi basta il petto per tutte le medaglie». Amato è spiritoso e le spara con quel tono un po’ autocompiaciuto di chi sa che certe battute verranno apprezzate. Lo incontro in uno stanzone gigante illuminato da un lampadario “ad altissimo consumo energetico”. Roberto Maroni, il ministro dell’Interno entrante, è alle porte. I commessi sono dritti e impettiti, ancora gentilissimi. Amato: «Strano eh, di solito appena sanno che sei in uscita cambiano tutti atteggiamento».
Lui, l’uomo che ha collezionato più soprannomi della storia repubblicana (Topolino, Eta Beta, Richelieu, Mazzarino, Nonamato, Dottor Sottile e via dicendo), ex ministro, ex premier, ex vicepresidente della Convenzione europea, ex presidente dell’Antitrust, e soprattutto socialista in una prima Repubblica che aveva alla Camera una decina di gruppi parlamentari, lascia un Palazzo senza socialisti (né comunisti) e con 4/5 forze politiche in campo.
Partiamo da qui.
«L’impressione è ottima: mi sono sempre sentito oppresso dal numero eccessivo di partiti».
Sono spariti da Camera e Senato le parole socialista, comunista e sinistra.
«Aspetti. Prima i numeri: quando devo far capire ad amici stranieri come si viveva in Parlamento anni fa, gli racconto di quando Nilde Iotti, antica presidente della Camera, una sera, alle 18 e 50, durante un dibattito, propose che i lavori si fermassero alle 19. Sull’argomento si vollero pronunciare tutti i partiti, e alle 20 e 05 l’Assemblea deliberò formalmente che i lavori si sarebbero chiusi alle 19. Chiaro?».
Sì. Ma i socialisti e i comunisti desaparecidos?
«Alle Europee del 2009 potrebbero anche rientrare».
Senza il vincolo del “voto utile”, alcuni elettori del Pd torneranno a votare per il gauchista Bertinotti e per il socialista Boselli?
«Il ventaglio non tornerà largo come era un tempo, ma insomma…».
Ciò detto, per rivedere in Italia la “sinistra” bisogna aspettare almeno cinque anni.
«È una cosa che preoccupa anche i funzionari dell’Interno. Un punto di riferimento in Parlamento è utile per gestire cortei e manifestazioni».
Lasciando da parte le preoccupazioni poliziesche… Nel 2001 al congresso dei Ds di Pesaro lei disse che Bertinotti poteva essere un militante della Quercia.
«Questo è un altro discorso. Io ho sempre detto che bisogna stare attenti alle diagnosi fatte dalla sinistra estrema perché sui disagi sociali ci coglie. E penso che un partito riformista all’altezza dei tempi debba avere nel suo carniere dei bisogni anche le domande che interessano l’elettore di estrema sinistra. Succede tra i laburisti inglesi come tra i socialisti francesi».
I leader del Pd sembrano più concentrati a discutere di alleanze e vocazioni maggioritarie.
«Primum vivere, deinde… allearsi. Prima di pensare alle alleanze si dovrebbe capire bene chi è che cosa e dove si vuole andare. Ho suggerito a Veltroni di lasciare certe polemiche a chi compone i pastoni sui quotidiani».
Veltroni, D’Alema… tutti in sella da una quindicina d’anni. Malgrado le sconfitte. Non ci vorrebbe un ricambio generazionale?
«Non esageriamo. Questo è un Paese che con troppa facilità brucia una generazione dopo l’altra».
Sembra il contrario.
«Dopodiché un problema c’è: in Italia non si immettono energie nuove nella politica. La nascita del Pd è l’occasione per farlo».
Il consiglio di Giuliano Amato per chi deve costruire il Pd?
«Il Pd dovrebbe lavorare per far sì che le diverse identità collettive minori (lo specchio frantumato di cui parlava tempo fa Eugenio Scalfari) si colleghino tra loro in nome di un interesse generale».
Vabbè, ma come si ottiene questo risultato?
«Cominciando a radicarsi nel territorio».
Una formula un po’ astratta.
«Si è parlato di centinaia di circoli nati nei mesi scorsi. Ci sono ancora? Se sì, bisogna che lì si cominci a parlare di temi come gli asili, i contratti, i salari, e non di alleanze».
A proposito di temi: su sicurezza e immigrazione si dice che il Pd abbia scimmiottato troppo il centrodestra.
«Non mi pare proprio. Sugli immigrati noi abbiamo sempre tenuto il doppio pedale: fermezza coi delinquenti e apertura con gli altri. Io ho attivato anche l’espulsione di cittadini comunitari perché erano dei criminali e qualcuno è riuscito a scrivere Amato col K».
Kamato? Come Kossiga negli anni Settanta.
«Già, ma il mio cognome si presta poco all’inserimento di quella lettera».
Torniamo agli immigrati.
«Le faccio l’esempio dei Rom».
Prego.
«Quello è un tema che va affrontato riconoscendo diritti ai nomadi minorenni che qui per le leggi dello Stato non esistono nemmeno. Una volta diventati maggiorenni, se rubano, fanno l’unica cosa che consentiamo loro di fare».
Sicuro che nel Pd la pensino tutti così?
«Non conosco nessuno che la veda diversamente. Ma è vero che da parte del Pd c’è stato poco coraggio nello sfidare gli italiani a essere solidali. Essere solidali è utile: da questa strada il Pd non si dovrebbe allontanare».
In occasione delle elezioni per la presidenza della Repubblica a cui era fortemente candidato, il Pd, o meglio i Ds, non furono molto solidali con lei.
«Parliamo del 2006?».
E del 1999. Quando le venne preferito Ciampi.
«Ah, già. Sono più le cose a cui sono stato candidato che non quelle che ho fatto. È successo anche al giuslavorista Gino Giugni. La moglie Laura sostiene che è uno status che garantisce un buon trattamento dal macellaio. Quando uno legge sul giornale che forse diventerai ministro o presidente ti dà la carne più buona».
La stroncatura della sua candidatura alla Presidenza della Repubblica nel 2006…
«Non ho sofferto in quell’occasione. Fassino, che considero un fratello, e un vero riformista, mi fece capire che con Marini al Senato e Bertinotti al la Camera il Presidente doveva venire dalla storia dei Ds».
Si dice che fu D’Alema a ostacolarla.
«Con Massimo ci ho scherzato. Dopo l’elezione di Napolitano gli ho detto: “Almeno ci risparmiamo quelle cerimonie con dei vestiti assurdi, la prima della Scala in smoking…”. Odio quella roba, da questo punto di vista sono rimasto un vecchio socialista».
Il primo giorno nella fabbrica della politica da socialista?
«All’inizio degli anni Ottanta. Se si considera come fabbrica un incarico di governo o un’elezione in Parlamento. Ma ero iscritto al Psi dal ’57 e prima ero semplicemente vicino alla sinistra: con degli amici andavamo sulle mura di Lucca, città dove vivevo, a leggere Brecht. Mi viene in mente una battuta che Roberto Villetti mi fece tempo fa».
Riferisca.
«Scherzando mi ha detto: “Sono cambiati i tempi: una volta citavi Brecht e ti portavi a letto una ragazza, oggi se parli di Brecht, non sanno nemmeno chi sia”».
I suoi anni Settanta?
«Da mammo. Io insegnavo alla Sapienza, mia moglie all’università di Ancona e faceva su e giù con Roma. Tre giorni a settimana mi occupavo io dei nostri due figli. In piscina litigavo con le mamme, perché ero l’unico uomo nello spogliatoio».
Gli anni Ottanta del craxismo.
«All’inizio io ero della fronda intellettuale giolittiana».
Ma poi divenne un fedelissimo di Bettino.
«Proprio agli inizi degli anni Ottanta me ne uscii dicendo che era meglio prendere il Craxi per le corna. Craxi dimostrò di essere un leader capace di raccogliere consensi intorno al partito. Un Psi riformista, che ebbe anche il coraggio di superare certi stereotipi».
Il Pd dovrebbe prendere esempio?
«Dovrebbe avere lo stesso coraggio di rompere i tabù».
Tipo?
«I temi della bioetica».
Quando si parla di bioetica in Italia, a sinistra, si pensa subito ai condizionamenti d’Oltretevere. Il peso del Vaticano e della Conferenza episcopale non sono sopravvalutati?
«Guardi. Io credo che i vescovi abbiano il diritto di esprimere le loro opinioni. Il problema è che da quando non c’è più la Dc, che faceva anche da cuscinetto alle richieste vaticane, certi partiti fanno a gara a trascrivere il volere dei prelati, neanche fossero impiegati postali che compilano un telegramma sotto dettatura».
Un po’ rimpiange la Prima repubblica… Pci, Psi, Dc…
«Be’, insomma, la qualità dei gruppi dirigenti era ben superiore. Si leggevano Thomas Mann ed Hemingway, ora si sfogliano solo i libri di Bruno Vespa».
Lei nel ’92/’93 fu premier in un governo la cui maggioranza era falcidiata dagli avvisi di garanzia.
«Furono mesi difficilissimi. Dovemmo gestire anche la sistemazione dei conti dello Stato. Con Ciampi in Bankitalia e Barucci al Tesoro, formammo un tridente che se ce lo avesse avuto la Roma avrebbe vinto lo scudetto».
Gli italiani di quel tridente non hanno un ricordo felicissimo.
«Si riferisce al prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti?».
Una roba che in confronto il cosiddetto Vampiro Visco è un dilettante.
«Una grande idea. Venne a Giovanni Goria, che allora era alle Finanze. Per un anno ho incrociato gente per strada che mi faceva gestacci, per dire: “Se mi capiti tra le mani”».
Con quel provvedimento si è guadagnato la medaglia del premier anti-pop. Il contrario di Berlusconi.
«Non ho mai pensato che la politica consista nell’inseguire gli umori della gente. E non ridurrei Berlusconi a un fenomeno estemporaneo. Lui interpreta e incarna i sentimenti di un certo elettorato meglio di chiunque altro. È un uomo che nei libri di storia, in ordine di durata al governo verrà ricordato dopo Mussolini, ma prima di Giolitti».
Lei accetterebbe un incarico da un governo di centrodestra?
«No».
Non pensa che alcuni tecnici del centrosinistra potrebbero aiutare il governo Berlusconi a riformare il Paese?
«No. Il centrodestra ha avuto un mandato preciso. È bene che quella parte politica sia messa alla prova dimostrando di essere in grado di ricoprire le diverse posizioni. Dopodiché ci sono questioni, come quelle dell’immigrazione e delle riforme che vanno affrontate senza steccati ideologici».
L’errore della sua vita?
«C’è una scena che ho ancora in mente: siamo all’inizio degli anni Settanta, a Roma. Io sono seduto alla scrivania, parlo al telefono e pianifico concorsi universitari. Mia figlia, di circa sette anni, entra nello studio e mi dice che è pronto a tavola. La liquido con un gesto. Lei torna una volta, poi un’altra e un’altra ancora per ricordarmi che la cena si sta freddando. E io la snobbo. La sua faccia rabbuiata non me la scorderò mai».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Accettare di fare politica attiva in Parlamento e nel governo. Di entrare in fabbrica, insomma. È successo all’inizio degli anni Ottanta. Prima di allora osservavo i miei colleghi universitari che facevano anche politica e la sera mi sembravano un po’ rincoglioniti».
Lei ha un clan di amici?
«I meno noti non li voglio mettere in mezzo».
I più noti?
«Sono Alfredo Reichlin, Andrea Manzella, Fabiano Fabiani… Umberto Veronesi».
Veronesi recentemente si è beccato l’invettiva di Beppe Grillo.
«Criticare Grillo, visto che lui ha criticato anche me, mi sembrerebbe sin troppo ovvio. Preferirei evitare».
Ma…
«Be’, un certo tipo di attacchi, noi da giovani li consideravamo un po’ fascisti. La battaglia politica democratica si fa sulle idee. Era il fascismo ad attaccare le persone».
Oggi, in politica si personalizza…
«È una cosa ereditata dagli Stati Uniti».
Negli Usa: Hillary Clinton o Barack Obama?
«Obama».
Perché?
«Perché lui è il change. E in un momento in cui gli Stati Uniti sono visti con ostilità da tre quarti del mondo serve un segnale forte».
A cena col nemico?
«Nemico? Con l’avversario. Mi sono capitate molte colazioni piacevoli con Fini».
Fini sarà un buon presidente della Camera?
«Sì. Il suo percorso è completato. Quello del suo partito e dei suoi militanti un po’ meno».
Perfido.
«Ma no, succede sempre così. Una volta ero con D’Alema a un convegno di Italianieuropei. Ci si avvicina un vecchietto e dice: “Noi, se si fa come ci hanno insegnato i compagni Lenin, Stalin, D’Alema e Amato, non si sbaglia mai”. Capito?».
Il libro della vita?
«La Montagna incantata, di Thomas Mann».
Il film?
«Il cinema è la mia passione. Diciamo Sotto accusa, con Jodie Foster».
Cultura generale. Quanto costa un litro di latte?
«Molto. Me lo dice mia moglie. Io è un po’ che non faccio la spesa».
I confini di Israele?
«Siria, Giordania, Egitto… e Libano».
Sa che cosa è YouTube?
«Certo: un sito dove si trovano video. Passo parecchio tempo davanti al computer. Ricevo centinaia di e-mail al giorno e scarico molto materiale».
Un settantenne web-dipendente?
«La prima cosa che è cambiata, ora che non ho più uffici in Parlamento o in qualche ministero, è che ho dovuto mettere una linea veloce per internet a casa».

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