Antonio Ardituro (Sette – giugno 2011)

3 commenti

Sarà lo stress. Saranno i rischi e le minacce. O il contatto costante e diretto con assassini e delinquenti: Antonio Ardituro dimostra più dei suoi 40 anni. Barba imbiancata e cadenza partenopea, è in magistratura dalla metà degli anni Novanta e dal 2005 è nell’antimafia napoletana. Si occupa di malavita e di violenza negli stadi. Vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati, è di sinistra, ma si considera parte di una generazione de-ideologizzata. Quando gli chiedo un parere sullo scabrosissimo affaire Ciancimino&Trattativa sfodera una laica diplomazia: «Non amo commentare le altrui inchieste in corso, ma di sicuro non mi piace vedere i testimoni in tv».
Lo incontro nel suo ufficio, a Napoli. Dietro alla scrivania, immersa tra le cartelline e i libri, si affaccia una piccola scultura di una tigre che salta in un cerchio di fuoco: «Mia moglie mi vede così». Appeso al muro c’è un quadro con un Vesuvio in eruzione: «Ho una devozione antica per il vulcano», e accanto troneggia una maglia autografata del bomber uruguagio Cavani: «Con lui c’è un legame». Mentre parliamo è in corso lo spoglio delle schede per le elezioni comunali napoletane. Trionfa l’ex pm Luigi De Magistris. «È una scossa per Napoli», sentenzia Ardituro. Lui indaga da anni sulle malefatte cittadine. È sua l’inchiesta che ha portato all’arresto di Nicola Ferraro (Udeur), specialista in rifiuti. Ed è sua la requisitoria per la rivolta di Pianura, durante la quale esponenti della destra e della sinistra lavorarono insieme per boicottare la discarica e per favorire la malavita: «Marco Nonno, del Pdl, è stato arrestato e rinviato a giudizio proprio in quell’occasione. Ed è stato appena rieletto a Napoli, con una valanga di voti».
La specialità di Ardituro, però, è la caccia ai boss latitanti. «Forse ho il record», scherza. Insieme con i colleghi del pool della DDA partenopea, ha falcidiato i vertici dei clan Casalesi. Quelli di Gomorra, per intenderci. Ha partecipato alla cattura di criminali come Giuseppe Setola, Antonio Iovine, Nicola Schiavone, oltre a quella di decine di capi di medio livello. Ora è sulle tracce di Michele Zagaria, l’ultimo dei satrapi ancora in fuga. «Ci siamo vicini da molto tempo. Prima o poi lo prendiamo». Detto da lui, c’è da fidarsi.
Come si acchiappa un latitante mafioso?
«Con pochi uomini».
Quanti?
«Un pm e sei o sette agenti. Punto. E poi molte cautele».
Un esempio?
«Io e il comandante dei carabinieri dell’unità catturandi di Caserta non parliamo sul cellulare. Usiamo utenze fisse e comunichiamo praticamente in codice: come i camorristi».
La cattura che le ha dato più soddisfazione?
«A parte quelle dei capi? L’azione con cui abbiamo arrestato i luogotenenti di Setola: Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia e Oreste Spagnuolo. I carabinieri mi svegliarono alle 4,30 di notte e mi fecero sentire per telefono l’irruzione».
I latitanti dei clan Casalesi sono stati presi quasi tutti nei loro paesi d’origine. Questo vuol dire che ancora controllano il territorio. E senza problemi.
«Dal punto di vista militare stiamo vincendo. Li abbiamo azzoppati. E questo ci ha permesso di aggredire la cosiddetta zona grigia, beccando anche politici come Ferraro e Cosentino. È un momento che difficilmente si ripeterà: c’è attenzione mediatica, ci sono i boss in galera. Ma il territorio non reagisce. Lo Stato dovrebbe aiutarlo a svegliarsi».
In che modo?
«Creando alternative sociali positive. Ma la politica troppo spesso è assente. E quando c’è, fa affari con la malavita. Il rischio è che malgrado le vittorie militari la situazione peggiori».
Come è possibile?
«Noi abbiamo preso i mafiosi di livello alto, quelli che hanno codici d’onore e sanno trattare pacificamente con gli imprenditori. Con loro in gattabuia, la qualità camorristica si è abbassata. Si è imbarbarita. Per strada il livello di violenza rischia di aumentare. Bisogna agire in fretta: servirebbe anche uno sforzo di comunicazione».
Più articoli, più film e più fiction?
«Più attenzione alle realtà positive. Non scorderò mai la liceale che nel 2008, alla Festa della Polizia, prese la parola e disse: “Casalesi non è il nome di un clan, ma il nome di un popolo”. Ecco, si dovrebbe parlare di più di chi paga le tasse e riga dritto, e magari per questo non ottiene un appalto. Ci vorrebbe un Saviano del bene. Qualcuno che completi l’opera di Roberto, che ha raccontato il male».
Quanto vi ha aiutato Saviano?
«Tanto. Se non si sa, non si fa. Se il ministro degli Interni Maroni ogni mese degli ultimi due anni è venuto a Caserta, è merito del clamore gomorriano. Attenzione mediatica, uguale intervento delle istituzioni».
Saviano è diventato un simbolo. Si è parlato di un suo impegno in politica.
«Lo conosco. Non lo farà mai, è una persona intelligente. Prendere una tessera di partito gli farebbe perdere la sua capacità di essere “anti”».
Gomorra è stato criticato perché darebbe una cattiva immagine del Paese.
«Non mi pare. Io vidi il film in un piccolo cinema di periferia, a San Giorgio a Cremano. Ogni inquadratura era un pugno nello stomaco. C’è la descrizione di cose reali su cui ho indagato. Le immagini sono potenti. E restituiscono un quadro senza gerarchie. Senza le caricature che portano all’immedesimazione e senza quell’esaltazione dei boss che si trova in altri prodotti cine-tv».
Mi fa un esempio?
«Il capo dei capi. Lì Riina era un po’ mitizzato. Io quando vado nelle scuole cito sempre il Luciano De Crescenzo di Così parlò Bellavista».
Che cosa dice De Crescenzo?
«Che il camorrista fa una vita di merda: vive poco, passa molto tempo rinchiuso in carcere e raramente, molto molto raramente, diventa ricco».
Anche lei non fa una vita meravigliosa. Vive sotto scorta dal 2007.
«È una scocciatura».
Pensa mai: «Ma chi me lo ha fatto fare?».
«Mai. Mi dispiace quando i cittadini martellati dalle campagne mediatiche di alcuni politici perdono fiducia nei magistrati. Ma poi ogni volta che un giudice condanna un camorrista, ci sentiamo più forti e meno soli».
Berlusconi ha detto a Obama che c’è una dittatura dei giudici di sinistra. I suoi seguaci vi considerano un cancro.
«Appunto. Ormai gli insulti ci scivolano addosso. È da più di quindici anni che prendiamo calci».
Berlusconi reputa se stesso una vittima. È ultra indagato.
«Mi risulta difficile pensare a un complotto così esteso contro di lui. Credo che, con il premier, le garanzie del sistema giudiziario abbiano funzionato. Certo, bisognerebbe capire che cosa sarebbe successo senza le leggi fatte apposta per il cittadino Berlusconi».
A proposito. C’è chi ha proposto il ritorno all’immunità parlamentare pre-Tangentopoli.
«Il principio è giusto. Il problema è una classe politica che ne approfitta per favorire la propria impunità».
Riforma della giustizia: che cosa va e che cosa no nella proposta Alfano?
«È sbagliato l’impianto. Tutto. Porta la magistratura a dipendere dalla politica. È uno scempio».
La prima cosa che andrebbe fatta per far funzionare la giustizia in Italia?
«Ridisegnare le circoscrizioni giudiziarie. Chiudere le sedi inutili e aumentare gli organici dove servono. Se poi si riuscisse ad avere anche un po’ di carta per le fotocopie…».
Mi pare di capire che l’operato di Alfano non la soddisfa.
«Dal suo ministero non ci è arrivato grande aiuto. Dagli Interni, invece, sì: l’esercito, più forze di polizia…».
La legge sulle intercettazioni…
«Impantanata. E la miglior soluzione per quel disegno di legge è proprio il pantano».
Lei quando ha deciso di entrare in magistratura?
«La mia è la generazione del 1992-1993. Siamo de-ideologizzati. Abbiamo stampata in testa la frase di Virginio Rognoni pronunciata al centenario dell’Anm: “Il nostro è un patriottismo costituzionale”. Io ricordo esattamente dov’ero quando ho appreso la notizia della morte di Falcone e poi di Borsellino. Ho studiato Legge durante Tangentopoli. Quando sono entrato in magistratura il dato acquisito era che si potessero fare indagini sui potenti».
Quel clima ha creato anche qualche stortura.

«Qualcuno si è sentito investito di un compito che andava al di là delle sue funzioni. Non bisogna sentirsi salvatori della Patria. Gli eccessi vanno arginati».
Ricorda la sua prima indagine?
«Certo. Mi occupai di cavalli di ritorno».
Come, scusi?
«Ha presente quando ti rubano la macchina e ti chiedono il riscatto? Ricordo un’intercettazione eccezionale».
Racconti.
«Un indagato ricoverato al Cardarelli di Napoli mentre sta lì per una trasfusione chiama il complice e lo avverte di sbrigarsi a raggiungerlo, perché ha appena fregato le chiavi della moto all’infermiere che gli aveva messo l’ago nel braccio. Geniale».
Lei ha mai fatto politica?
«Poca roba. Sono nato e cresciuto a Portici in una famiglia borghese: padre avvocato, madre funzionaria scolastica. Al liceo occupammo le aule per qualche settimana. Nulla di più».
Entrerà mai in politica?
«Non è nei miei programmi e nemmeno nelle mie intenzioni».
Sono troppi i magistrati che scendono in politica?
«Sì. C’è un eccesso di travaso. Io sono favorevole a introdurre dei paletti».
Quali paletti?
«Una norma per cui chi lascia la magistratura per la politica poi non può tornare indietro. Detto ciò, il travaso è dovuto alla debolezza dei politici: si sono auto-consumati. E non hanno saputo allevare una nuova classe dirigente. A Napoli non c’era nemmeno un candidato che veniva dalla politica».
E ha vinto De Magistris, tra l’altro un ex magistrato che in quel ruolo ha fatto discutere.
«Io lo conosco da anni. A Napoli aveva fatto inchieste importanti. A Catanzaro si era un po’ perso. Ma ora la sua elezione è stata un segnale di protesta contro il centrodestra e contro il centrosinistra. Un segno di cambiamento».
A cena col nemico?
«Col ministro Alfano. Così provo a convincerlo su quanto sia dannosa la separazione delle carriere».
Ha un clan di amici?
«Tre o quattro dei tempi dell’università».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Difficile essere così autocritici. Qualche volta avrei dovuto farmi i fatti miei ed evitare sovraesposizioni».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Diventare padre. Mio figlio Andrea ora ha due anni e mezzo».
Che cosa guarda in tv?
«Il pezzo di Crozza che apre Ballarò, le vignette di Vauro che chiudono Annozero, Report e il calcio».
Ospite di Vespa o di Santoro?
«Di nessuno dei due. Non amo la loro conduzione. Preferisco Floris».
Il film preferito?
«Signori si nasce con Totò. Io lo nacqui».
La canzone?
«La leva calcistica del ’68 di Francesco De Gregori: “Nino cammina che sembra un uomo…”».
Il libro?
«Il resto di niente di Enzo Striano».
Quanto costa un voto a Napoli?
«La malavita lo paga circa cinquanta euro».
Lo ha fatto anche durante le ultime amministrative?
«Sarebbe strano se non fosse successo».
Dover pagare un voto non è un segno di debolezza o di mancato controllo del territorio?
«No. La camorra si fa benvolere, al contrario dello Stato. E così mantiene pure il consenso. L’alternativa ai soldi è una busta della spesa con zucchero, pane e pasta».
Quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro e mezzo circa».
Sa che cos’è Twitter?
«No. C’entra Internet? Rifiuto la comunicazione web, a meno che non serva per lavoro. So che è una rivoluzione, ma credo che allontani troppo dalla vita reale».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«È quello sul Tricolore».
Che cos’è per lei il Tricolore?
«La patria e la Nazionale del 1982. So la formazione a memoria: Zoff, Gentile, Cabrini…».

www.vittoriozincone.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Categorie : interviste
Commenti
D'Abrosca Antonio 8 Maggio 2014

Il Dott. Ardituro è il mio idolo.

antonia 24 Febbraio 2015

ho è stato intervistato in tv, poi ho letto il contenuto di tutto ciò che si riporta sono molto compiaciuta è una persona molto intelligente mi piace e mi complimento

Fabio Bisanti 5 Marzo 2015

Lo conosco. …..ce ne vorrebbero di più di persone come lui.

Leave a comment