Franco Branciaroli (Doppio Binario – 7 – Gennaio 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 4 gennaio 2018)

FRANCO BRANCIAROLI, 70 ANNI, ha mal di gola, tra un paio d’ore deve essere in scena nei panni di Medea e quindi chiede di spostare il Doppio Binario dalla sella di una bicicletta ai corridoi del suo hotel bolognese. Eccoci tra i velluti e le luci un po’ smunte di un albergo a pochi passi da piazza Maggiore. Branciaroli ha recitato in molti film osé di Tinto Brass, lo scorso anno ha messo la sua arte al servizio della fiction spacca-ascolti Rosy Abate, ma fondamentalmente ha trascorso tutta la vita sulle assi dei palcoscenici. È un frantoio teatrale, macina prosa e versi da quasi mezzo secolo. Ha lavorato sotto la regia di maestri come Aldo Trionfo e Luca Ronconi, ha duettato lungamente con Carmelo Bene e per lui Giovanni Testori ha scritto una decina di spettacoli. Mentre passeggiamo tra marmi e broccati domando: lei ha interpretato più di sessanta ruoli in teatro, quanti testi ha stampati nella sua memoria? Mi guarda come se fossi pazzo. Risponde: «Uno. Quello che sto recitando ora. È un fatto che ha spiegato bene Vittorio Gassman in un libro di qualche anno fa: il cervello dell’attore espelle, per non esplodere. Finito uno spettacolo la parte viene rimossa dalla memoria. Poi se anni dopo la devi recitare di nuovo, è incredibile la velocità con cui rientra in testa».

Quale metodo utilizza per trovare la perfetta immedesimazione nel personaggio?

«Immedesimazione? Quale immedesimazione? Se io dovessi immedesimarmi in Medea o in Macbeth per cento repliche di fila finirei alla neuro. L’immedesimazione riesce a qualche attore americano del cinema, a William Hurt… Gli attori di teatro che parlano delle emozioni provate entrando nel personaggio bluffano».

Entrare nei panni di un personaggio senza immedesimarsi.

«Prima di tutto bisogna obbedire al regista. L’attore teatrale deve saper obbedire…».

E poi?

«Poi si riproduce la propria prima interpretazione di un personaggio. Si impara a essere fotocopia di se stessi».

In che senso?

«La tecnica teatrale è quella che ti permette di ripetere tutte le sere la stessa parte. Denis Diderot, filosofo e critico, distinse gli attori in due categorie: quelli che cercano di immedesimarsi e quelli che mentre recitano pensano a dove andare a mangiare dopo lo spettacolo. I secondi, secondo Diderot, sono quelli che trasmettono meglio l’emotività agli spettatori. Se sei bravo a fare la fotocopia, mentre reciti puoi anche guardarti una partita di calcio su uno schermo nascosto dietro una quinta. L’importante è avere tecnica…».

Lei dove ha appreso la tecnica?

«La tecnica per tre quarti è naturale, ci nasci: corde vocali, palato e denti per articolare e farti sentire. Il resto è studio, abitudine eccetera eccetera. E poi bisogna avere il piacere per questo mestiere. Io sono felice che dalla mia bocca tutte le sere escano le parole meravigliose scritte da Euripide». Sdraiato su un divano della hall, Branciaroli osserva con i suoi occhiacci azzurri gli avventori dell’hotel. Esclama: «Prima gli attori venivano tutti qui, frequentavamo anche alberghi di lusso. Ora è concesso al massimo ai protagonisti. Gli altri dormono nei bed & breakfast e mangiano nei pub. Diciamolo: il teatro italiano è a un punto molto molto basso».

Se avesse la possibilità di suggerire due parole alle orecchie del ministro della Cultura, Dario Franceschini…

«Gli direi che è tutto sbagliato. E che il sistema con cui è gestita l’organizzazione dei teatri da qualche anno, attraverso un algoritmo creato alla Bocconi, è delirante e ha avuto come effetto una sovrapproduzione di piccoli spettacoli a costi molto bassi. C’è una regola aurea…».

La enunci.

«Dove il teatro è di merda, il Paese non gode di ottima salute. Non è un caso che in Germania oggi il teatro sia tenuto in alta considerazione. Il teatro è una scelta politica, da sempre è finanziato. Se lo Stato lo snobba è finito. Peter Stein, uno dei grandi del teatro contemporaneo, ha detto: “È più importante salvare il teatro della foca monaca”. Se oggi in Italia dici una cosa simile in pubblico ti tirano le pietre… Ma trent’anni fa non era così».

La memoria dell’attore fa una capriola all’indietro e torna al 1976. Anno in cui Aldo Trionfo lo diresse in un Faust – Marlowe – Burlesque di culto, recitato al fianco di Carmelo Bene: «Provammo solo nove giorni, il resto del tempo lo passammo nei ristoranti. Siamo stati come marito e moglie per due anni». Branciaroli ogni tanto si abbandona all’imitazione della parlata enfatica del vecchio sodale.

Vita al fianco di Carmelo Bene.

«Andavamo in giro con la sua Citroen Ds. Guidavo io. La giornata era molto etilica».

Racconti.

«Sveglia alle 16.30 con caffè».

Sveglia alle quattro e mezza di pomeriggio?

«Già, alle 18 il primo Pernod. Poi si andava verso il teatro dove ad accoglierci, grazie a un amico industriale delle scarpe, ci aspettava una cassa di bianco ghiacciato. In scena Carmelo voleva solo champagne brut vero. Quindi mentre recitavamo non facevamo finta, bevevamo davvero. Stappavamo. Dopo lo spettacolo ci si accomodava al ristorante con una piccola corte e andando via ci si portava sempre dietro un paio di bottiglie di rosso».

Chi pagava?

«Carmelo. Era di una generosità squisita. Era un vero signore del Sud. Arrivavamo in hotel alle tre di notte. Al cameriere che puliva la sala con l’aspirapolvere, diceva: “Ferma l’elettrodomestico e portaci il cavatappi”. A quel punto, bevendo il rosso, cominciava la teoresi del teatro mondiale, fino alle 5. Svuotate le bottiglie si andava a dormire. In due anni ho preso molti e molti chili». Dopo aver srotolato la storia del suo sodalizio con il collega Bene, saliamo nella camera di Branciaroli. Appena si siede su una poltroncina di ferro rubata dal terrazzo, comincia a infilare una serie di provocazioni sul mondo del teatro. La critica? «Quello che dicono il pubblico e i giornali non conta. Per un attore la consacrazione arriva dalla sua comunità, cioè dagli altri attori». Il silenzio in sala? «Allo spettatore dovrebbe essere permesso di uscire, di distrarsi un po’, soprattutto se deve stare seduto quattro ore a vedere una ciofeca. La sacralità del teatro è un’invenzione moderna». I nuovi drammaturghi? «A chi gli segnalava un nuovo autore, Peter Brook chiedeva sempre: “Ma è bravo quanto Shakespeare?”. Con questo non voglio dire che non si dovrebbero portare in scena i nuovi autori, ma è sbagliato ridurre eccessivamente le rappresentazioni dei classici».

Lei ora è in scena con la Medea di Euripide nella versione ideata da Luca Ronconi. «La pensò proprio per me. È per questo che la posso portare in giro».

Ronconi…

«Lo considero il mio maestro di recitazione».

Ore e ore sul palco a provare?

«No. Provavamo a tavolino. Essendo lui anche un grande attore, mi mostrava come voleva la parte recitandola a mezzo tono. Mi ha insegnato a destrutturare i testi, a esprimere il loro significato esplicito che spesso resta nascosto».

Tra i registi con cui ha lavorato di più c’è anche Tinto Brass.

«La prima volta lo incontrai in un bar. Mi chiese se volevo partecipare a un provino in inglese, per il film La chiave».

Perché un provino in inglese?

«Perché essendo inglese il protagonista, Frank Finley, tutti dovevano recitare in inglese».

Lei sapeva l’inglese?

«Zero. Niente. Feci il provino con Ricky Tognazzi, che era l’aiuto regista, improvvisando una lingua inventata e chiudendo la frase con la parola “umbrella”. Tinto mi chiamò dopo qualche settimana annunciandomi che ero stato preso. Mi assegnarono un tutor per imparare la lingua, ma non ci fu nulla da fare: continuai a recitare sbiascicando parole inglesi a caso perché tanto poi mi sarei auto-doppiato in italiano. Dopo La chiave, che incassò soldi a palate, Tinto Brass mi volle sempre con lui». Sul tavolo della stanza di Branciaroli c’è un libro di Giorgio Strehler. Ogni tanto l’attore lo prende in mano, lo sfoglia. Lo scorso 25 dicembre si è celebrato il ventesimo anniversario della morte del padre del Piccolo Teatro di Milano.

Lei aveva un buon rapporto con Strehler?

«Ehm… No. Carmelo Bene lo chiamava “il rovello della messa in piega”, scherzando sulla sua mania per i capelli e sul fatto che il Piccolo si trovava in via Rovello. Con Strehler è successo un casino della Madonna. In cinque atti».

Atto primo.

«A inizio Anni 70 recitai in un Nerone è morto? diretto da Aldo Trionfo. Ero scatenato. Scrissero che durante quello spettacolo era nata una stella. Pochi giorni dopo quel successo un giornalista della Notte mi chiese se avrei lavorato volentieri con Strehler».

Lei che cosa rispose?

«Che non lo avrei mai fatto».

Tracotante.

«Erano anni di contestazione. Dissi che gli attori di Strehler mi sembravano vigili urbani».

Atto secondo.

«Qualche anno dopo ero a Milano con un amico e insieme decidemmo di andare a vedere le prove delle Baruffe chiozzotte al Piccolo. Aspettammo l’inizio dei lavori per più di un’ora. Alla fine venimmo a sapere che il maestro non avrebbe mai cominciato con me in platea».

Atto terzo.

«Inizio Anni 90. Durante la conferenza stampa di un Cyrano mi chiesero di commentare una dichiarazione di Strehler secondo il quale a Milano non c’era più nulla da vedere a teatro. Si dà il caso che io in quel periodo fossi molto attivo proprio a Milano con Giovanni Testori. Dichiarai che secondo me Strehler se ne sarebbe dovuto andare via dal capoluogo lombardo. Il tutto finì in prima pagina su La Stampa».

Atto quarto.

«Strehler rispose che non ero degno di recitare su un palcoscenico. La diatriba finì in tv e io rilasciai un’intervista al Sabato in cui lanciavo accuse pesantucce contro Strehler».

Titolo dell’intervista?

«“Il narco-regista”. Venne fuori uno scandalo mostruoso. Molti attori e registi scrissero una lettera per insultarmi. Quando Strehler venne accusato di aver usato fondi europei destinati ai corsi di teatro per fare altro, chiamai quelli che mi avevano insultato per rendergli gli insulti».

Strehler è stato assolto con formula piena da quelle accuse.

«E io sto qui che leggo e rileggo i suoi libri. In realtà lo amo, anche se ancora mi fanno pagare tutte quelle mie invettive antistrehleriane. Ammetto di essere stato uno stronzo. Prima o poi andrò sulla sua tomba e gli lascerò un biglietto con su scritto: “Perdonami”».

Categorie : interviste
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