Corrado Augias e Philippe Daverio (Doppio Binario – 7 – Novembre 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 16 novembre 2017)

PHILIPPE DAVERIO SFIDA la pioggia battente con un cappellaccio verde in testa. Corrado Augias cerca di coprirsi con un grande ombrello nero e nel frattempo compulsa lo smartphone: «Leggo un attimo le ultime news e arrivo». I putti incastonati negli affreschi dei portici osservano perplessi il dinamico duo. Doppio Binario tra i giardini e i chiostri neoclassici di Villa Giulia, sede del Museo Etrusco Nazionale, a Roma. Daverio e Augias sono popstar della cultura. Il primo è un globetrotter delle meraviglie italiche e con la trasmissione Passepartout ha battuto ogni angolo artistico del Paese. Il secondo, scrittore, giornalista e conduttore televisivo, da anni cerca di mettere gli italiani in contatto con saggi e romanzi assortiti. Le visitatrici del museo non resistono. Parte la caccia al selfie. Un ragazzo prende Augias per un braccio: « Mi’ madre è ‘na fan ». Clic. Loro si prestano: un sorriso, un autografo, una posa buffa. Hanno centocinquant’anni in due. E sono appena risbarcati nelle librerie: Augias con Questa nostra Italia e Daverio con Ho finalmente capito l’Italia. Augias è più letterario: «Mi sono affidato agli scrittori per raccontare le città. Perché chi scrive ha uno sguardo lungimirante e perché proprio grazie al fattore identitario della lingua italiana siamo diventati una Nazione prima che uno Stato». Daverio è più ironico. Ogni capitolo del suo libro finisce con una morale. Ecco come si conclude quello che descrive l’attaccamento degli italiani alla loro casa, il tesoro immobile: «Quando il sciur Brambilla va a costruirsi il villino, lo vuole isolato su una collinetta di riporto che contiene la tavernetta. Non lo sa, ma replica in parodia l’individualismo del principe italiano, di terra o di chiesa. E anche a lui, in fondo all’anima, viene da dire: ” Lù el sa minga chi sun mi !“». Daverio, francese di nascita e milanese d’adozione, ha le erre molto arrotate. Augias scandisce lentamente le parole e solo raramente rivela una lieve cadenza romana. Entrambi hanno scritto un volume corposo cercando di raccontare quali siano le caratteristiche fondamentali degli italiani. Pregi e difetti vengono srotolati riga dopo riga. Gli chiedo di descrivermi l’immagine che recentemente ha fatto venir loro voglia di fuggire via e quella che li ha riempiti di speranze per il Paese. Augias prende lo smartphone e mostra la foto di un’infilata di cassonetti che vomitano spazzatura su un marciapiede della Capitale.

A.: «Non credo servano commenti».

D.: «Io scelgo la foto dei candidati alle recenti elezioni siciliane. Sembrava un quadretto medievale. Ho pensato: il n’y a plus rien à faire. Non c’è più niente da fare».

A.: «L’immagine positiva, invece, è un ritratto di Giacomo Leopardi che ho visto recentemente in un volumetto».

Leopardi?

A.: «Lui aveva analizzato e previsto le insufficienze dell’animo italiano e la tendenza a un’eccessiva emotività. L’incapacità di sentire la tragedia. Che può essere un vantaggio, ma è anche facile che diventi un handicap».

D.: «Voglio essere volgare. L’immagine che dà speranza è quella del Salone del Mobile di Milano».

Perché?

D.: «Perché è un momento in cui, grazie alle nostre eccellenze, siamo al centro del mondo. Sul design siamo i primi della classe. Il Salone è anche il luogo in cui maggiormente si manifesta la distanza tra i politici che spesso non hanno mai messo il naso fuori dai propri piccoli interessi locali e un mondo imprenditoriale che ha uno sguardo planetario».

Finiamo per parlare delle classi dirigenti in Italia e del fatto che i politici da qualche decennio non brillano per lungimiranza.

D.: «Le grandi potenze del pianeta progettano il futuro a venti o trent’anni. La nostra classe dirigente è convinta che dopo il 2017 ci sarà il 2017 bis. E dopo ancora il 2017 ter».

A.: «La situazione è riassunta da un vecchio adagio: l’uomo di Stato pensa alle prossime generazioni, il politico alle prossime elezioni».

D.: «Non credo che il crucco medio sia meno barbaro di quello italiano, ma i tedeschi nel secondo Dopoguerra hanno imposto a se stessi la prominence, la prominenza sociale. In pratica in ogni città ci sono degli ottimati: il signorotto che non è mai andato in galera malgrado abbia una fabbrica, la signora che si occupa degli asili nido, quella che si dedica al verde pubblico… Nelle comunità c’è sempre qualcuno che gioca un ruolo di maggior impegno rispetto alla media».

Quando chiedo se non sia così anche in tutt’Italia, fanno entrambi una faccia piuttosto scettica. Ne approfitto per sondarli sulla sparizione dei luoghi in cui in Italia si formava il senso di cittadinanza e di responsabilità nei confronti delle istituzioni.

A.: «Sono spariti, per esempio, quei centri di acculturazione che erano le sezioni del Partito comunista. Lì operai, impiegati, manager, donne e anziani discutevano dei temi più disparati. Erano luoghi di elevazione. In fondo credo che l’assenza di lungimiranza della nostra classe dirigente sia un portato del livello culturale deplorevole del Paese. Tullio De Mauro…».

…sommo linguista…

A.: «… ha scritto pagine importanti sul fatto che troppi italiani hanno difficoltà anche solo a comprendere un articolo di giornale. In una situazione del genere non c’è da stupirsi se poi i nostri parlamentari interrogati dalle Iene facciano figure pessime. E non sappiano programmare il futuro dell’Italia. La classe politica del secondo Dopoguerra era stata selezionata da prove severissime. Quella formazione e una cultura solidissima portarono i Costituenti a inserire nella Carta Fondamentale addirittura la tutela del paesaggio. E questo è un segno di lungimiranza chiarissimo».

Un visitatore canticchia Venditti: «…sotto la pioggia batte forte il cuore, ma la pioggia non ci baaaagna».

Noi in realtà siamo zuppi. Ci rifugiamo dalle parti del Ninfeo. Augias prosegue sul paesaggio.

A.: «In Italia non c’è un pezzo consistente di territorio che non sia stato disegnato dagli uomini. Il tratto comune degli italiani, oltre all’assenza di una pulsione verso il potere nazionale, è la ricerca della bellezza, della simmetria, dell’armonia, che si ritrova moltissimo nel disegno diffuso delle campagne. Il nostro paesaggio è molto più fotogenico di quello tedesco o di quello francese».

D.: «Questa è una dichiarazione da terrone. Mi oppongo, ahahah. Ma è vero: l’armonia che contraddistingue il paesaggio italiano è il risultato di una forte antropizzazione».

A.: «Non rispettare questo paesaggio e lasciare spazio ai molti scempi è stato un suicidio».

D.: «L’intelligenza nei confronti della bellezza è la vera eredità culturale degli italiani che andrebbe coltivata. Il problema vero è che in Italia non lavora più nessuno».

A.: «Anche in Francia non scherzano».

D.: «Italia e Francia sono i due Paesi più ammalati d’Europa. Facendo i conti a spanne: tolti i pensionati, i giovani disoccupati, le troppe donne non occupate e i dipendenti pubblici, a generare ricchezza in Italia ci sono sei o sette milioni di persone. Sveglissime, eh, ma poche. Circa un quinto rispetto ai tedeschi».

Fradici, ci spostiamo nel bar della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Gli intervistati si concedono una pausa phon. Una signora vestita di rosa si alza dal tavolo accanto al nostro, estrae un’enorme macchina fotografica e comincia a scattare. Inizia a fare domande ad Augias. Lui replica cortesemente, poi indica il registratore che tengo in mano e dice: “Potrebbe aspettare un minuto? Finiamo di lavorare”».

D.: «Evidentemente da lontano sembriamo un po’ cazzoni. Io effettivamente lo sono. Augias è più serio. He’s from Sardinia. È sardo».

A.: « No, I’m not. I’m from Provence. Ho origini provenzali».

Augias impugna lo smartphone e mostra una foto realizzata a Hyères, in Francia, sotto a un cartello con la scritta Rue Augias. Cominciano una conversazione in italo-franco-inglese. Li fermo e chiedo loro di impugnare la sfera di cristallo.

Come pensate che sarà, e come vorreste che diventasse, l’Italia tra trent’anni?

D.: «Io la immagino smontata».

Cioè, caduta in disgrazia?

D.: «No, no. Intendo geo-politicamente. Spero che l’Europa si trasformi in un sistema di grandi regioni che si integrano tra loro. Non vedo molte alternative».

A.: «Io per l’Italia auspico un ritorno allo spirito del ’45, quello che avevamo alla fine della guerra. Lo stesso che gli americani chiamano lo spirito del ’76, riferendosi al 1776, anno dell’indipendenza. Servirebbe per affrontare la ripresa. Ma ammetto che non nutro grandi speranze».

Perché?

A.: «Perché in Italia le divisioni politiche sono una palla al piede. Se questo Paese fosse meno diviso politicamente e i governi potessero prendere provvedimenti con più celerità… Io per questo ho votato sì allo scorso referendum sulla riforma costituzionale. Vorrei un governo capace di decidere».

Daverio è d’accordo?

D.: «C’è un problema. In Italia, dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini, si tende a un bipolarismo che non è quello anglosassone dell’alternanza, bensì quello dell’egemonia: si occupa tutto, senza lasciare spazio agli avversari».

Categorie : interviste
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