Demetrio Albertini (Doppio Binario – 7 – Giugno 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 21 giugno 2018)

SALTA GIU’ DAL TRENO con un balzo. Sulle scale sembra un gatto. Non ha un fisico monumentale, ma è ancora in forma. Dice: «Non mi alleno più, ma sono sempre in movimento». Doppio Binario su rotaia e scooter con Demetrio Albertini, ex centrocampista metronomo del Milan trionfante anni Novanta, ex giocatore della Nazionale italiana e del Barcellona, poi dirigente della Federcalcio. Ha vinto scudetti a mazzi e ogni tipo di trofeo per club. Alla sua partita d’addio c’erano in campo otto palloni d’oro, ma ti parla come il ragazzo della porta accanto. Ci diamo del tu. Per capire il tipo, a un certo punto comincia a srotolare un elenco dal sapore vanaglorioso: «Due Champions, due Coppe Intercontinentali, una Coppa Italia, due Super Coppe…». Mi chiede: «Sai che cosa sono?». E senza aspettare la risposta: «Sono tutte le finali che ho perso. Tante. Comincio spesso i miei speech con questo elenco, perché sono convinto che alla fine il calcio sia fatto di belle esperienze e di vittorie. Cioè anche le sconfitte sono belle esperienze». Brianzolo di famiglia ultra cattolica, ha un fratello sacerdote, don Alessio. Sfrutto il link parentale per chiedergli quanto, secondo lui, sia cristiano l’approccio di Salvini&Co nei confronti dei migranti. Albertini prima intona una sorta di stay human e poi spiega: «Dobbiamo trovare un modo di includere, ma introducendo anche sanzioni e controlli sul modo in cui includiamo. In Italia purtroppo le sanzioni e i controlli sembrano non esistere in nessun campo». Gli ricordo che quando lui si presentò per la presidenza della Figc, nel 2014, venne sconfitto da Carlo Tavecchio, noto ai più per un’incredibile sequela di gaffe a sfondo razzista. Domando: «Il calcio italiano è così? Becero e un po’ razzista?». Replica: «No, ma a volte, sbagliando, nel calcio vengono considerati trascurabili, atteggiamenti che nella vita normale non sono concessi. Basti pensare alla vulgata per cui è legittimo andare allo stadio per sfogarsi e magari commettere atti vandalici». Imprenditore con Dema4, agenzia di teamworking e di sportmarketing, Albertini è appena stato a Mosca, invitato dal presidente della Fifa, Gianni Infantino, per presenziare a un match mondiale.

Chi vince il Mondiale in Russia?

«Dipende da chi arriva più in forma alla fine del torneo. C’è un precedente esemplare».

Quale?

«Germania 2006».

Il Mondiale vinto dall’Italia.

«Con tutto il rispetto per i nostri azzurri, quel Mondiale non lo si doveva nemmeno cominciare. C’era una squadra che sulla carta aveva già vinto: il Brasile di Kakà, Ronaldo, Ronaldinho, Roberto Carlos… I verde-oro però sono arrivati fisicamente impreparati».

In Russia chi è avvantaggiato sulla carta?

«Germania, Argentina, Spagna. Io spero che vinca Leo Messi».

Un Mondiale senza l’Italia.

«Impensabile. La mia generazione non ha mai neanche messo in preventivo una simile eventualità».

Gli azzurri hanno buttato la qualificazione alle ortiche con uno spareggio maledetto contro la Svezia. Tu hai mai giocato una partita di quel tipo?

«Sì, nel 1997. Sotto la neve, contro la Russia. Fu anche la partita d’esordio di Gigi Buffon in Nazionale. Ci giocavamo la partecipazione al Mondiale in Francia e vincemmo. Ma in campo c’erano giocatori che avevano partecipato a varie finali di Coppa dei Campioni, abituati a quel tipo di pressione. Ora in azzurro ci sono calciatori che hanno più presenze in Nazionale che minuti giocati nelle fasi finali di una competizione internazionale per club».

Roberto Mancini, il nuovo ct, è l’uomo giusto per risollevare le sorti degli azzurri?

«Sì. C’erano anche altri nomi importanti. Il guaio è la materia prima: ci sono pochi giocatori su cui lavorare».

Se fossi tu il ct, quale sarebbe l’asse centrale su cui costruiresti la Nazionale?

«Donnarumma, Romagnoli, Verratti, Balotelli. Lo dico come augurio: sono quattro ragazzi che sono sempre stati considerati dei fenomeni ma che in Nazionale devono ancora dimostrare di esserlo».

Sei stato per anni dirigente della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Se potessi avviare un percorso di rinnovamento…

«Il mio pallino sono sempre state le seconde squadre: le squadre Primavera dei grandi club, invece di giocare solo contro formazioni giovanili dovrebbe partecipare a un campionato vero, la serie B o la Lega Pro. Succede in Inghilterra, in Spagna, in Germania e in Portogallo… Il talento è importante, ma anche l’esperienza è fondamentale. E quella non si compra».

Saliamo le scale mobili che portano al mio motorino. Mentre dice che secondo lui i club italiani lasciano andare via troppo facilmente i loro campioni, metto il dito nella piaga del suo rapporto con il Milan.

Il Milan ti lasciò andare via. Nel 2002 dopo 293 presenze in rossonero, passasti all’Atletico Madrid. Poi alla Lazio, all’Atalanta e infine al Barcellona.

«Mettiamola così: la sofferenza passa, l’aver sofferto mai. Nel 2002 ci fu amarezza, ma rifarei tutto quello che ho fatto».

Quando hai vestito per la prima volta la maglia rossonera?

«A dieci anni. Firmai con il Milan, dopo aver giocato qualche mese col Seregno».

Eri già un solido centrocampista centrale?

«Ahahah. No, giocavo ala destra. Quando avevo cinque anni mio fratello, che ne aveva nove, mi veniva a prendere all’asilo e mi portava a giocare con i suoi coetanei la partitella tra paesini confinanti».

Già si vedeva che eri forte?

«Beh, sì. Avevo un bel tiro. Ci sono quelli che palleggiano e quelli che calciano. Io calciavo. Era la mia passione. Passavo i pomeriggi a tirare bordate contro i muri e ogni tanto spaccavo qualche vetro».

Oggi nelle scuole calcio si insegna a “stare bene in campo”…

«… e a fare le diagonali e i raddoppi e la linea difensiva. Una roba da pazzi. Ai ragazzi prima di tutto va insegnatala tecnica difensiva e offensiva, il dribbling, il tiro, la marcatura…».

Quanto è vero che per emergere serve anche la cosiddetta fame? La voglia e la necessità di emergere…

«È un luogo comune, con un fondo di verità. A mio figlio, che fa scherma, dico sempre che non ce lo vedo un milanese alle Olimpiadi. Perché i ragazzi delle grandi città oggi hanno talmente tante distrazioni e talmente tanti svaghi che ogni volta che trovano una difficoltà, invece di cercare di superarla, si rivolgono altrove. Purtroppo avviene in ogni campo della vita: nello sport, nell’affettività… Per questo penso che sia fondamentale per tutti fare sport agonistico: perché ti abitua a lottare e faticare per superare i tuoi limiti. Il talento secondo me è proprio questo: superare i propri limiti».

A quando risale il tuo esordio in Serie A?

«Milan – Como, il 15 gennaio 1989. Appena il Milan ebbe segnato il 3 a 0, Arrigo Sacchi mi chiese di cominciare il riscaldamento. C’era un po’ di nebbia. Entrai e corsi come un forsennato col gas sempre aperto per quindici minuti. Pensai: “Novanta minuti così non riesco a farli”. Col tempo imparai a dosare le forze».

I titolari del centrocampo rossonero in quel momento erano Carlo Ancelotti e Frank Rijkaard. Due mostri.

«Da loro ho rubato con gli occhi. Sono stati i miei insegnanti».

In cattedra c’era anche Arrigo Sacchi.

«Nel 2010, quando ero dirigente della Federcalcio lo chiamai come coordinatore tecnico delle Nazionali giovanili. Gli dissi: “Non ti vorrei più come allenatore, ma puoi dare ancora tanto al calcio”. Ahahah».

Sacchi era così duro?

«Ci ripeteva e ci faceva eseguire i suoi schemi fino allo sfinimento. Era il suo valore. Ogni allenamento doveva essere tirato al massimo. Le partitelle con i compagni, erano partite vere. Tant’è che alla vigilia di una semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid per colpa di un mio intervento Evani si infortunò a una caviglia».

La lezione di Sacchi.

«Sacchi distingueva tra calciatori e giocatori di calcio».

Non sono sinonimi?

«No. I calciatori sono quelli che tirano bene il pallone. I giocatori di calcio sono quelli che sanno giocare insieme agli altri».

Dopo Sacchi, al Milan ti ha allenato Fabio Capello. Con lui hai vinto tutto. La differenza fondamentale tra Sacchi e Capello?

«Sacchi insegnava, Capello gestiva. Entrambi ai massimi livelli».

Puoi spiegare per i profani?

«Sacchi ti allenava per un ruolo. Se si faceva male un terzino destro, lui faceva entrare il giocatore che aveva formato come terzino destro. Se il terzino si faceva male con Capello, lui faceva entrare semplicemente il più forte che aveva in panchina, a prescindere dal ruolo e a costo di dover modificare un po’ il modulo di gioco».

È la stessa differenza che c’è tra Pep Guardiola e José Mourinho?

«Direi di sì».

Parcheggiamo davanti al suo hotel, nel quartiere Flaminio, vicino allo Stadio Olimpico. Quando gli chiedo quale sia stato il giocatore più talentuoso con cui ha giocato, non esita: «Ronaldinho». Poi aggiunge: «Ma il più forte è stato Marco Van Basten».

Van Basten vedeva la porta…

«Non solo. È il primo giocatore completo della storia del calcio: aveva il fiuto di Inzaghi, l’eleganza di Ronaldo…».

La tua bestia nera tra gli avversari?

«Zinedine Zidane. Mi ha fatto impazzire. Ti si metteva alle spalle e non lo beccavi più. Mentre il più forte in assoluto contro cui ho giocato è stato Ronaldo, il Fenomeno. Un’altra categoria».

Meglio delle attuali star Cristiano Ronaldo (CR7) e Leo Messi?

«Sia Ronaldo sia Van Basten hanno giocato meno di CR7 e di Messi. Sono convinto che Van Basten sia stato il più grande in assoluto».

Cuore milanista. Per molti anni il Milan è stato sinonimo di Silvio Berlusconi.

«Un conquistatore. L’ho vissuto in tre fasi della mia vita: da giovane promessa, da bandiera milanista e da dirigente sportivo».

Il primo impatto.

«A vent’anni. Dopo un allenamento si accorse che portavo le scarpe senza calze. Mi prese sotto braccio e mi disse: “Vedi Demetrio, i tuoi piedi sono i tuoi strumenti di lavoro, li devi tenere al caldo, li devi curare”. Un’altra volta, durante la cerimonia di candidatura dell’Italia per gli Europei del 2012, da premier, si volle appartare con me per spiegarmi che lui non avrebbe mai voluto che io me ne andassi dal Milan».

Sei mai stato ad Arcore?

«Sì, una delle ultime volte per trattare i termini di una scommessa».

Una scommessa?

«Voleva scommettere con noi della vecchia guardia sul numero di gol che avrebbe fatto Andrij Ševcenko, Sheva. Andammo a trattare io e Billy Costacurta. Alla fine ci disse che se Sheva avesse fatto più di ventiquattro gol in campionato ci avrebbe dato la sua villa in Sardegna per una settimana».

Quanti ne fece?

«Ventitré».

Niente villa.

«In realtà ce la prestò comunque ma solo per tre giorni. Ci andarono Costacurta, Sheva e Ambrosini. Io ero impegnato con gli Europei in Olanda».

Berlusconi ti ha mai proposto di fare politica?

«Una volta. Ma credo fosse così, tanto per parlare».

Quando è successo?

«Nel 2006. Avevo smesso di giocare. A noi del gruppo storico, lui aveva sempre detto: “Se vi serve qualcosa chiamatemi”. A me non serviva nulla. Ma andai da lui per fare un ragionamento sul mio futuro. Mi disse che purtroppo nel Milan non c’erano incarichi disponibili, ma che se mi fossi voluto candidare alle politiche… Declinai l’offerta».

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