Pietro Bartolo (Sette – ottobre 2016)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 28 ottobre 2016).
Medico instancabile e protagonista di Fuocoammare (film di Gianfranco Rosi candidato all’Oscar), Pietro Bartolo è un simbolo vivente dell’accoglienza: ha sessant’anni e da venticinque visita, cura e cerca di proteggere i disperati che sbarcano sull’isola di Lampedusa. Presidia la porta d’Europa con lo stetoscopio al collo. Ora, insieme con la giornalista Lidia Tilotta, ha scritto Lacrime di sale, che è una galleria di storie strazianti e di vite riacciuffate tra le onde: la nigeriana stuprata che implora un aborto, la somala a cui hanno decapitato il marito, i neonati partoriti sulle navi soccorso, i bimbi abbandonati che hanno dovuto attraversare prima il deserto e poi il mare, assetati e ustionati, i ragazzi evirati, ingannati, abusati. I sacchi usati dai soccorritori per custodire i cadaveri di chi affoga o di chi muore durante il viaggio. Bartolo racconta: «Ogni volta che apro un sacco per ispezionarlo mi sento male, perché non so che cosa ci troverò. Allora cerco di ingannare me stesso, ci giro intorno, fino a quando mi convinco che non posso più aspettare». Sofferenza e speranza si intrecciano e si fondono. Volendo dare un senso politico a questo libro, eccolo: è un tappo per tutte le bocche xenofobe. Quando gli chiedo se ha in mente una soluzione per interrompere il flusso dei migranti, Bartolo replica che ne ha una per evitare che muoiano: «Dovremmo andare a prenderli in Africa».
L’intervista si svolge via Skype, all’alba. Bartolo mi fa capire che la conversazione potrebbe essere interrotta da un momento all’altro, a causa di una convocazione ospedaliera. Quando vuole dare forza a un’affermazione, si avvicina allo schermo, fissa la telecamera e chiude la frase con un «…sa?». «Il primo giorno sono arrivati 111 cadaveri, sa?», «Queste persone che sbarcano non chiedono nulla, sa?», «Non è mai arrivato qualcuno con una grave malattia infettiva, sa?». Piange, mentre descrive i corpi pelle e ossa dei ragazzi morti nella stiva di una barca. È fiero di essere italiano.
Molti italiani, in zona Lega, vorrebbero alzare muri. Respingere barconi e gommoni.
«C’è pure chi ha dichiarato che i migranti andrebbero lasciati morire. A chi dice certe scempiaggini suggerisco di frequentare uno stage con traversata del deserto, scalzo. Oppure di trascorrere un bel periodo di villeggiatura nelle accoglienti strutture della costa libica: gli ultimi adulti che sono arrivati da quei carceri-letamai pesavano trentacinque chilogrammi e avevano i corpi segnati dai parassiti. Altro che terroristi».
Non condivide l’opinione di chi pensa che dal mare possa arrivare un pericolo terroristico?
«È vero che i kamikaze sono disposti a immolarsi… ma attraversare il Mediterraneo rischiando ustioni da benzina per poi morire affogati e dimenticati… non credo che sia la loro aspirazione più grande. Tanto per sfatare altri miti: i migranti non portano malattie gravi».
Lei stesso ha raccontato di aver trasmesso a sua figlia la giarda, un parassita comune in alcuni Paesi di provenienza dei migranti.
«È vero, ma è roba che si guarisce facilmente con un anti-parassitario. Stesso discorso per la scabbia. Io preferisco prendermi cinque volte la scabbia, piuttosto che una volta l’influenza. Di influenza si muore, di scabbia no. In linea di massima comunque arrivano persone sane. Ha un’idea di che cosa hanno passato per arrivare in Italia? Sono dei superman, altro che malati. I malati siamo noi».
Ci sono i profughi che scappano dalla guerra e migranti che scappano dalla fame.
«Fare questa distinzione per dire che dobbiamo accogliere i profughi “politici” e non quelli “economici” è una scemenza: come se morire di fame fosse più piacevole che morire sotto le bombe».
Lei come chiama chi sbarca a Lampedusa? Migranti…
«Migranti… In realtà siamo tutti migranti. Quanti dei nostri ragazzi vanno a studiare e a lavorare all’estero?».
Clandestini…
«Il termine “clandestino” lo toglierei proprio dal vocabolario. Sono persone, in cerca di condizioni di vita migliori. Abitiamo tutti la Terra. La Terra è la nostra casa, che non appartiene a nessuno e appartiene a tutti. Quando arrivano sul Molo Favaloro, sono semplicemente esseri umani terrorizzati che hanno attraversato l’inferno. Ai miei collaboratori dico sempre di avvicinarsi con un approccio umano più che medico: una carezza, una parola gentile… Per fargli capire che per la prima volta da mesi sono arrivati in un Paese amico dove nessuno gli farà del male.
Nel libro “Lacrime di sale” lei racconta un episodio poco edificante di una ventina di anni fa: due militari italiani sorpresi a picchiare senza motivo dei disperati appena sbarcati.
«Quei militari vennero subito cacciati da Lampedusa. Ora non succedono più certe cose».
A quando risalgono i primi sbarchi?
«Ai primi anni Novanta. Gli isolani li chiamavano “i turchi”, arrivavano su piccole barche direttamente in spiaggia. Poi i numeri sono aumentati. Ed è cambiato tutto».
Solo durante il naufragio del 3 ottobre 2013 sono morte 368 persone. È vero che quella tragedia torna spesso nei suoi incubi?
«Sì. E vorrei non passare più certe notti insonni, svegliato da immagini indelebili. Il primo sacco da ispezionare che mi portarono quel giorno conteneva il cadavere di un bambino di tre anni. Sembrava vivo. Provai a sentire il suo battito, a scuoterlo… Il suo sguardo mi rimarrà in testa tutta la vita».
Le è mai successo di aprire un sacco e di trovare qualcuno ancora vivo?
«Sì. Proprio quel giorno: una donna, Kebrat. I vigili del fuoco erano saliti con me sul peschereccio di Domenico. Domenico era in lacrime perché era riuscito ad afferrare e portare sulla sua barca solo una ventina di persone. Kebrat sembrava morta, la stavano per infilare nel sacco. Ho voluto controllare il battito. E ho sentito qualcosa. A quel punto Domenico, con una forza sovrumana, ha lanciato me e Kebrat sulla banchina. Siamo corsi in ospedale. Aveva i polmoni pieni d’acqua, ma ce l’ha fatta. L’ho rivista poco tempo fa, all’aeroporto di Lampedusa. Mi è venuta incontro una ragazza bellissima, con un po’ di pancia da gravidanza, e mi ha detto: “Sono Kebrat”. Ci siamo abbracciati».
C’è una foto di qualche mese fa, in cui lei tiene in braccio una piccola orfana africana.
«Favour. Mi fa sorridere che quella foto abbia fatto il giro del mondo».
È diventata un caso: sono piovute proposte di adozione per Favour, urbi et orbi.
«Già, ma noi di giovani orfani ne vediamo decine. La storia di Favour non è diversa da quella di Mustafà, un bambino di cinque anni che ha visto morire la mamma e la sorellina. Lo hanno portato in ospedale in elicottero in stato di ipotermia. Quando si è ripreso era confuso, cercava la madre».
Invece ha trovato lei, il dottore.
«Ho cercato di confortarlo. Mustafà mi ha stravolto la vita. Dopo qualche giorno di ospedale era lui ad aiutarci. Come succede con molti altri, cerco di seguire dove vanno a finire questi ragazzi».
Mustafà ora dove vive?
«A Palermo. Sta bene, va a scuola, fa molto sport».
Conserva da qualche parte le foto di queste persone che riesce a salvare?
«Nel telefono, sul computer. Non voglio dimenticare. Nessuno deve dimenticare. È il motivo per cui ogni tanto vado al cimitero delle barche, dove ci sono ancora oggetti e ricordi di chi è sbarcato, vivo o morto: tutti devono sapere che cosa succede. Anche mentre noi stiamo parlando ci potrebbe essere un bambino che sta morendo in mare».
Ha incontrato migliaia di migranti disperati e visto centinaia di cadaveri. Le capita mai di voler mollare tutto?
«In alcuni momenti il senso di impotenza è forte. A tutta questa sofferenza non ci si abitua mai. Dico a me stesso: che cosa ci stai a fare qui? Poi però fai nascere un bambino, salvi una ragazza, ridai dignità a una donna che ha attraversato l’Africa…e la forza torna. Certo, non vedo l’ora che tutto questo finisca, per mettermi a fare il medico con più serenità, per la mia comunità».
La comunità di Lampedusa. Lei è nato sull’isola. La sua infanzia…
«Sono figlio di pescatore. Eravamo sette figli».
È vero che suo padre organizzò una lotteria per decidere quale dei figli sarebbe partito per studiare?
«Sì, ma l’unico nome scritto sui biglietti da estrarre era il mio. Mio fratello era malato e far partire una delle cinque sorelle sarebbe stato complicato. Ricordo il momento in cui mio padre mi ha lasciato a Trapani, da solo. Avevo tredici anni. Fu un trauma».
Dove andò a vivere?
«In casa di una signora non molto espansiva. Ho sofferto molto: mi mancavano i miei genitori, le mie sorelle… Per anni ho mangiato solo carne in scatola, perché non sapevo cucinare. Dopo il liceo mi sono iscritto a Medicina, mi sono specializzato a Catania. Molti dei miei colleghi universitari ora sono primari».
Lei, invece, è tornato a Lampedusa a dirigere l’ambulatorio isolano. È stato anche assessore alla Sanità.
«Ho lottato perché i cittadini di Lampedusa avessero la possibilità di essere curati come il resto degli italiani: l’eliambulanza è stata una bella conquista».
A cena col nemico?
«Dovrei fare un nome?».
Lo faccio io: andrebbe a cena con Matteo Salvini e con Marine Le Pen?
«Certo. Salvini l’ho incrociato in uno studio televisivo. Dopo aver ascoltato le mie storie era decisamente a disagio. Non credo che sia cattivo. A volte i politici sono costretti a cavalcare un’onda. E questo è molto triste».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«No, perdoni l’ignoranza».
È quello che descrive il Tricolore.
«Io sono orgoglioso quando sventola la bandiera italiana. Magari non siamo fenomenali nell’organizzare l’integrazione, ma siamo un popolo accogliente: noi non metteremmo mai il filo spinato sul confine per respingere i migranti. Perché sappiamo che noi siamo loro e loro sono noi».

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