Chiara Appendino (7 Doppio Binario – aprile 2017)

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(Intervista Doppio Binario pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 27 aprile 2017).
La scolaresca riempie quasi tutto lo scompartimento. Chiara Appendino, sindaca di Torino, sorride a un paio di vecchiette, si offre di aiutare una donna con un passeggino, in frenata si aggrappa al corrimano. Indossa jeans e una camicetta. Lo smalto sulle unghie è di un rosso quasi fosforescente. Prima intervista “Doppio binario” sul 13, tram che taglia il centro del capoluogo piemontese. Appendino lo usa soprattutto per muoversi con la famiglia. Il tram è anche un osservatorio: fuori dai finestrini scorre la vita della città. Racconta: «Sui mezzi pubblici mi fermano spesso. Sorrisi, congratulazioni, qualche protesta. Un amministratore porta speranza, ma anche rabbia». Srotola l’elenco dei suoi provvedimenti meno amati dai torinesi: le strisce blu in centro, la lotta feroce contro la mala-sosta, il blocco ecologico delle auto nella città della Fiat… «So di aver creato qualche disagio, ma un sindaco deve fare scelte impopolari per tutelare la salute della comunità». L’incubo sono i conti in rosso. Quando le chiedo se spegne mai il suo cellulare, replica di no. E aggiunge: «Il problema non è spegnere il telefono, ma staccare con la testa: mi sveglio di notte con pensieri bui a causa delle tensioni finanziarie e dei problemi di cassa della città».
Appendino ha trentadue anni e una figlia, Sara, nata durante la campagna per le amministrative. Attualmente è la sindaca più amata d’Italia. Nel giugno dell’anno scorso ha trascorso la sera del trionfo elettorale con la famiglia: le due bisnonne, il padre dirigente d’azienda e il marito, Marco, imprenditore che fabbrica oggetti in plastica per la casa. Bocconiana, ha fama di essere secchiona e garbata. Ecco un fotogramma della sua educazione sabauda: «Da bambina non mi piaceva il pescespada. Un giorno, a pranzo, mia madre ne portò una bella porzione a tavola. Mi rifiutai di mangiarlo. I miei genitori mi dissero che avrei saltato il pasto. A cena, ritrovai il pescespada nel piatto. Lo rifiutai e andai a letto digiuna. La mattina dopo, a colazione, il pescespada era ancora lì. A quel punto lo mangiai. Ora mi piace molto».
Da militante ligia, difende Beppe Grillo e il Movimento Cinque Stelle, anche dove appare meno difendibile. Sul caso Genova e sulla decisione di annullare d’imperio il risultato delle comunarie sgradite al capo, dice: «Beppe è il garante. Il dispiacere per quella vicenda è dovuto al fatto che evidentemente a Genova c’erano faide e divisioni nei gruppi locali». Sulla claudicante selezione della classe dirigente pentastellata, va in attacco: «Stiamo imparando a stare nelle istituzioni. Ma in quale altra forza politica una ragazza che non possiede pacchetti di voti, dopo soli cinque anni come consigliera di opposizione, sarebbe potuta diventare sindaca?». Detto questo, Appendino sembra lontanissima dall’antropologia grillina a cui ci hanno abituato molti parlamentari. È un’europeista convinta: «Ma servono cambiamenti radicali. Io credo nell’Europa dei padri fondatori». Piace all’establishment torinese. E mentre impazza la querelle farmacologica, con i Cinque Stelle che tentennano tra ipotesi No Vax e pilatesche pretese di libertà di vaccino, lei dice:«A mia figlia ho fatto fare tutti i vaccini consigliati. È stata una scelta consapevole». Le propongo un esamino.
Scusi Appendino, lei ha mai gridato “vaffanculo” in piazza?
«No, ma ho partecipato ai VaffaDay».
Ha mai insultato qualcuno su un social network, modello Napalm51 di Maurizio Crozza?
«No. Lei sta usando tutti i cliché possibili sul Movimento».
Lei ha persino un ottimo rapporto con Sergio Chiamparino, renzianissimo presidente della Regione Piemonte. Vi chiamano Chiappendino…
«Chiappendino suona orribile».
… non ha firmato contratti con la Casaleggio Associati…Lo ammetta: lei è decisamente un’anomalia nella galassia a Cinque Stelle.
«Non mi considero un’anomalia e sono orgogliosa di essere parte del Movimento Cinque Stelle. C’è chi pensa che il nostro popolo sia composto da energumeni esagitati. Invece i meet up sono abitati soprattutto da professionisti che si mettono a disposizione della collettività. Poi certo, io ho le mie peculiarità: come molti torinesi ho un senso di appartenenza allo Stato che va oltre la militanza politica».
Questa è musica per le orecchie di chi la immagina candidata a Palazzo Chigi.
«Scherza?».
Se non lei chi altri? Davide Casaleggio?
«Davide ha già detto che lui ha e avrà un altro ruolo».
Luigi Di Maio? Sta inanellando un po’ troppe gaffes, non crede?
«Luigi è molto esposto mediaticamente. Più sei esposto più sei a rischio. Lui sta facendo un lavoro enorme».
Appendino, il suo nome riecheggia tra i papabili.
«Finito il mandato vorrei dare un fratello a Sara. Mia figlia ha quindici mesi. Il mio impegno in politica è un sacrificio per tutta la famiglia. E poi abbiamo una regola: al massimo due mandati».
Non sarebbe la prima regola che i Cinque Stelle infrangono per un interesse politico superiore.
«Guardi, io faccio questo lavoro in Comune con grande passione, ma non ho bisogno di fare politica nella vita. Se dovessi convivere con il pensiero di un’altra candidatura, non avrei la libertà mentale di fare le cose, anche impopolari ma necessarie, che sto facendo».
Questa è l’ennesima dote presentata come se fosse un limite. Confessi…
«Escludo un impegno a livello nazionale. Per fortuna il Movimento non è affatto Appendino-centrico».
Lei quando è diventata una militante del Movimento Cinque Stelle?
«Nel 2010. Un giorno mentre ero al mercato di Porta Palazzo si sono avvicinati due giovani che volevano una firma su una petizione…».
Folgorata da una petizione?
«No, non firmai perché volevo prima studiarla. Mio marito, invece, restò in contatto con quei ragazzi, cominciò a frequentare un meet up e infine mi convinse a partecipare».
Un anno dopo lei era in consiglio comunale. Prima che cosa aveva votato?
«Verdi e Italia dei Valori».
Ha detto: «Chiunque abbia letto le carte non può che essere No Tav». Come dire: i Sì Tav sono ignoranti o in malafede.
«Guardi che io sono a favore dell’Alta velocità. E sto lavorando per raddoppiare la metropolitana torinese. È la Torino-Lione a essere una linea sbagliata: i costi sono troppo superiori ai benefici».
Ha mai partecipato alle manifestazioni in Val di Susa?
«Certo. Ero lì quando c’è stato lo sgombero del cantiere Tav di Chiomonte. Ho fatto resistenza pacifica».
Da ragazza, a scuola, faceva politica?
«No. Sono stata rappresentante di classe: al massimo lottavo per ottenere le interrogazioni programmate. Andavo al Gioberti».
Scuola della Torino bene.
«Il quarto anno di liceo l’ho vissuto in Germania, a Wershofen, una cittadina di mille anime. Ero ospite di una famiglia con tre figli. La più piccina un giorno mi lasciò a bocca aperta. Di fronte a un’aiuola in piazza, disse: “Questa è di tutti. Va curata”. In Italia un senso così spiccato della comunità non ce l’hanno nemmeno gli adulti».
Rientrata a Torino era bilingue. Già allora secchionissima?
«Ho vissuto come un dramma il diploma con 98 invece di 100. E la scelta dell’Università fu complicata».
Perché?
«Volevo iscrivermi a Filosofia e viaggiare. Guardavo con interesse al mondo delle Ong».
Come Alessandro Di Battista.
«I miei genitori mi sconsigliarono gli studi umanistici. Mi iscrissi alla Bocconi. Corso di International Economics and Management. Dopo il primo anno mi sono appassionata alla finanza aziendale e al controllo di gestione. E mentre studiavo per la tesi ho cominciato a lavorare alla Juventus».
La leggenda vuole che lei sia una bianconera sfegatata…
«Juventina io, juventino mio padre. E juventino mio nonno, al punto che non poteva vedere le partite perché si sentiva male».
Prova di juventinismo: quanti scudetti ha vinto la Juve?
«Trentaquattro».
Lei conteggia anche quello revocato del 2004/2005 e quello col declassamento del 2005/2006.
«Io e mio marito Marco siamo super appassionati di calcio».
Quantifichiamo questa passione.
«Durante l’estate del 2006 abbiamo comprato all’asta i biglietti per vedere l’Italia ai Mondiali di Germania. Siamo partiti con una coppia di amici su un’utilitaria rossa. Nel bagagliaio: tenda, sacco a pelo e parrucche azzurre».
Eravate allo stadio durante la finale vinta dall’Italia?
«Certo. Ha presente il momento in cui David Trezeguet tira il rigore e lo sbaglia? Nei video che lo immortalano, in sottofondo si sente una trombetta che suona…».
…per distrarre l’attaccante francese.
«Era la trombetta di mio marito».
È vero che ha conosciuto suo marito Marco giocando a tennis?
«Sì, al dopolavoro ferroviario. Avevo diciassette anni».
Sindaca e madre.
«Marco mi aiuta. A casa cucina lui. Io riesco a fare ogni tanto la spesa il sabato, quando non ho gli incontri con i cittadini».
Il sabato riceve la cittadinanza?
«O io o un assessore. E dopo alcune riunioni di Giunta gli assessori rispondono live su Facebook alle domande dei torinesi».
I media le rimproverano di non aver tenuto fede ad alcune promesse pentastellate fatte in campagna elettorale. Una su tutte: ha usato i cosiddetti oneri di urbanizzazione, soldi destinati alla costruzione e alla manutenzione di edifici e di strade, per la spesa corrente.
«Non è stata una decisione presa a cuor leggero. È stato doloroso, ma se non l’avessimo fatto avremmo dovuto tagliare servizi educativi e welfare».
I militanti dei meet up come hanno reagito?
«Ho spiegato loro le ragioni della Giunta. Io credo che un amministratore pubblico debba avere come unico e primo interesse il bene della comunità, senza pensare alla convenienza del proprio partito».
Faceva opposizione a Piero Fassino, suo predecessore, con lo stesso spirito?
«No, effettivamente è un modo di pensare che si è sviluppato anche stando nelle istituzioni. Si cresce, ci si evolve. C’è anche chi sostiene che sia un’involuzione».
È la critica che le fanno i barricaderi del M5S?
«No, no. Scherzavo, scherzavo. Credo nella necessità di tornare a modelli di cooperazione e di solidarietà di cui abbiamo perso traccia. Il tema politico, oggi, non è il conflitto tra globalizzazione e protezionismo. La nostra società e le nostre città reggeranno solo se si andrà verso un modello sano di comunità. Bisogna rispolverare il buon pensiero olivettiano».
Lei è una estimatrice di Adriano Olivetti?
«Certo. Il punto più forte del suo pensiero resta la responsabilità sociale. Tutti, amministrazioni, imprese e singoli, dobbiamo lavorare per ricucire il tessuto strappato delle nostre comunità».

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