Mario Biondi (Sette – gennaio 2013)
0 commentiMario Ranno, in arte Mario Biondi, ha 41 anni e una voce tonante, alla Barry White. Il suo shalalalalalala, ritornello del pezzo new jazz This is what you are, nel 2006 si è arrampicato fino alla vetta delle classifiche discografiche ed è diventato un tormentone tale che il cantante si è conquistato una esilarante imitazione in tv di Fabrizio Casalino. Altissimo, testa rasata e occhialoni con montatura nera, Mario si presenta davanti allo schermo del computer, per l’intervista via Skype, con un berretto di lana in testa: «Non mi andava di radermi il cranio. E senza cappuccio non sarei un bello spettacolo». È un siciliano globe-trotter con casa-base in Emilia e non ha alcuna cadenza dialettale. Tra qualche giorno (il 29 gennaio) esce il suo nuovo disco. Titolo: Sun. Collaborazioni internazionali assortite (con star del jazz&funk come Chaka Khan e Bluey degli Incognito) e, udite udite, un pezzo in italiano. Che per lui, artisticamente anglofono, è praticamente una primizia.
Duettatore entusiasta, a Sanremo nel 2007 ha accompagnato la performance di Amalia Grè e due anni dopo quella di Karima Ammar. In gara, però, non c’è stato mai. Quest’anno era nella lista dei convocati, ma poi il suo nome è sparito: «Qualche giornalino ha scritto che ero stato eliminato».
È falso?
«Mi hanno coinvolto in un giochino mediatico poco corretto».
Cioè?
«Io ho rifiutato il palco di Sanremo quattro o cinque volte. Ho detto “no” sia a Pippo Baudo sia a Gianni Morandi».
Perché?
«Perché avevo altro da fare. Perché ho sempre pensato che un cantante che si vuole rivolgere a un mercato internazionale debba cantare in inglese come fanno i danesi, i tedeschi e gli svedesi. Quindi lavoravo in questa direzione».
Quest’anno però avevi accettato.
«Mi hanno lusingato. Da buon artista mi sono lasciato catturare dalle sirene. Mi dicevano: “Quest’anno sei la punta di diamante”. Per un po’ ho tentennato, perché ho un disco in uscita. Poi ho dato la mia disponibilità».
A quel punto ti hanno fatto fuori.
«I titoli dei giornali sono stati: “Gino Paoli, Mario Biondi e Fiorella Mannoia eliminati dalla gara”. Capito? Fiorella mi ha chiamato: “Ma quale gara? Neanche gli ho fatto sentire il pezzo”. È stato un giochino per poter dire: “Quest’anno sarà un Sanremo diverso. Avremo i Marta sui tubi, anche se non sappiamo chi siano”. Assurdo».
Tu lo guardi Sanremo?
«Certo, con la mia famiglia».
Anche Morgan è stato fatto fuori da Sanremo.
«Ho letto anche che vorrebbe fare un disco con i pezzi esclusi dalla gara del Festival. Sarei curioso di ascoltarlo».
Tu con Morgan ci hai litigato.
«L’ho apprezzato durante l’ultima edizione di X Factor».
Ma come… un anno fa lo hai attaccato proprio per la sua presenza nel talent show.
«Ho detto una cosa molto semplice: era strano vedere uno come lui, un cantante raffinato e di nicchia, sostenere che un determinato concorrente avrebbe venduto molti dischi. Mi è sembrata un’uscita fuori fuoco».
Tu lo faresti il giudice in un talent show?
«Mi hanno cercato per The Voice, ma poi non so che fine abbia fatto la proposta».
È vero che ti prendi cura di alcuni giovani musicisti?
«Ci provo. L’anno scorso ho dato molto spazio a talenti poco conosciuti nel disco Due».
A Sanremo ci saranno Marco Mengoni e Chiara, la vincitrice del-l’ultimo X Factor.
«Mengoni è proprio un bel talento. E Chiara è brava».
C’è chi sostiene che la presenza dei “figli dei talent” rovini la gara.
«Non sono d’accordo. Ci deve essere spazio per tutti. Sanremo è un totem del nazional popolare. È una manifestazione bella e assurda. Ed è giusto che ci vada chiunque: popstar come Max Pezzali, anche se ogni tanto stona, e artisti come Paolo Conte. In fondo siamo tutti lavoratori dello spettacolo».
Lavoratori dello spettacolo. Hai duettato con artisti che con la tua vena jazz non c’entrano nulla.
«Di chi parli?».
Dei Pooh e di Renato Zero.
«Se è per questo ho scritto due canzoni e ho duettato con Anna Tatangelo. Lei è uno dei bersagli preferiti della snobberia nazionale».
Ci hai duettato per ordine di una scuderia discografica?
«No. Nessuno mi può imporre una cosa simile. Se la faccio è perché mi va. E sui Pooh vorrei proprio vedere chi ha da dire qualcosa. Non mi rompano le palle. Possono non piacerti. Puoi non voler comprare i loro dischi. Ma l’impatto che hanno avuto sulla musica italiana è indiscutibile. Altro che certi fighetti che se la tirano».
Tu, cantante jazz, non te la tiri?
«No, guarda. Ogni tanto posso criticare un artista perché lo vedo sfornare lo stesso pezzo da vent’anni. Ma rispetto il lavoro di tutti, perché ho sempre lavorato. E sono passato dalle serate da 50 euro a guadagni pesanti. In Italia ho venduto più di un milione di dischi».
Sei diventato ricco?
«Sto bene e mi posso permettere sei figli».
Sei figlio d’arte: nonna cantante e padre cantautore.
«Mio padre mi regalò un pianoforte verticale quando avevo sette anni. Ci suonicchiavo senza grandi pretese».
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che eri diventato un musicista?
«Ho un rapporto magico con gli strumenti. Ma in realtà io non so suonare».
In che senso, scusa?
«Uso il pianoforte solo per “appoggiare” i 5 o 6 accordi che mi servono per una composizione. E questo avviene in solitudine. Non ci deve essere nessuno intorno».
Perché?
«Sarei a disagio. Proprio perché non sono un musicista vero».
Ricordi la prima volta che hai cantato in pubblico?
«Da piccolo, in chiesa. Anche canti gregoriani. Da giovanissimo mi sono esibito anche in tv con due canzoni di mio padre, una in italiano e una in siciliano. Il momento fondativo della mia carriera comunque è stato quando ho cominciato a cantare al Tout Va di Taormina. Lì ho avuto pure l’occasione di fare da spalla a Ray Charles».
Hai mai fatto qualche lavoro che non fosse legato alla musica?
«Certo. Ho fatto di tutto, ma di nascosto da mio padre».
Perché?
«In famiglia abbiamo vissuto sia periodi di notevole ricchezza sia stagioni di povertà. Mio padre era all’antica, orgoglioso: ci teneva all’immagine e non voleva che facessi lavori umili. Io me ne fregavo. A diciotto anni mi sono trasferito a Reggio Emilia. Mi sono fatto ospitare per un po’ a casa di amici. Facevo lavoretti e soprattutto cantavo nei piano-bar».
Che cosa cantavi?
«Amavo Al Jarreau, ma cantavo qualsiasi cosa».
Poi, nel 2004 hai inciso This is what you are, e la tua vita è cambiata.
«La canzone è nata quasi per scherzo. L’autore con cui l’ho scritta, Alessandro Magnanini, a un certo punto mi disse che si stava appassionando al new jazz, una vena musicale parigina che in Giappone aveva grande successo. Aveva una base da farmi ascoltare».
Sha la la, la la la la.
«Mi fa ridere quando la riascolto. Ma non mi vergogno. Alcune cose le avrei potute curare meglio. Ma questo lo penserò anche riascoltando i pezzi che escono il prossimo 29 gennaio».
Raccontami la genesi di un tuo pezzo.
«Alcuni nascono in studio. Altri per strada. Li canticchio e li registro sul telefonino».
Un pezzo degli ultimi nato per strada?
«I can read your mind».
È vero che c’è anche un pezzo in italiano?
«È un brano che mi ronza in testa dal 2001. L’ho pensato a Lampedusa, ha un’energia particolare».
Titolo?
«La voglia, la pazzia, l’idea. Storia di un uomo che si lascia trasportare dal sentimento».
Hai duettato con chiunque. In futuro, con chi ti piacerebbe farlo?
«In America con Michael Mac Donald. In Italia con Mina».
Mina è inarrivabile.
«Sono in contatto con lei e con sua figlia Benedetta dal 2004. Mi hanno sostenuto molto».
Chi è il cantante italiano che meriterebbe un successo internazionale?
«Ivan Segreto. In Francia potrebbe davvero sfondare».
Scegli: Battisti o De Gregori?
«È un pareggio. Palla al centro».
Non si può.
«De Gregori è un fico. Ma Battisti non c’è più e va celebrato. Quindi Battisti».
Baglioni o De André?
«Questa è una tortura. E dai, non si può».
Fai uno sforzo.
«De André ha cambiato il modo di scrivere le canzoni. Ma scelgo Baglioni».
Dalla o Battiato?
«Dalla».
Battiato è un tuo conterraneo.
«A Dalla ho davvero voluto bene e mi ha fatto vivere sensazioni artistiche pazzesche».
La miglior canzone italiana di sempre?
«Che cosa vuoi che risponda? Volare. Ha spaccato in tutto il mondo».
Il pezzo che canti sotto la doccia?
«Lacrime napulitane. Un grande classico».
Ai tuoi figli che cosa canti?
«Qualsiasi cosa. Sentono i bassi della mia voce e si addormentano immediatamente».
Sei figli… Tutti con la stessa compagna?
«Ahi ahi. Evito l’argomento».
Anche loro vivranno di musica?
«Per ora giocano. Li ho messi di fronte agli strumenti per vedere l’effetto che fa».
A cena col nemico?
«Col carrozziere che ha cercato di fregarmi qualche giorno fa. Oppure con Morgan».
Hai un clan di amici?
«Un nome su tutti: Salvo, musicista. Siamo cresciuti insieme».
Qual è l’errore più grande che hai fatto?
«È un errore che si ripete: mi fido delle persone sbagliate».
Sei mai stato fregato da qualche casa discografica?
«Certo».
Qual è la scelta che ti ha cambiato vita?
«Interrompere la carriera da odontotecnico e dedicarmi completamente alla musica».
Hai mai fatto politica?
«Sono un Acquario: credo nelle buone cose più che nei movimenti».
Che cosa guardi in tv?
«Tutte le più assurde trasmissioni americane e inglesi sulle macchine e sui motori».
È vero che da giovane correvi in moto?
«Facevo gare non esattamente ufficiali. Tra amici, diciamo».
Corri ancora?
«No. A un certo punto mio padre mi ha imposto di smettere. E non sono mai più salito su una due ruote».
Ti è restata la passione per la velocità?
«Abbastanza. Ascoltando un motore potrei individuarne eventuali malanni».
Il film preferito?
«L’uomo bicentario con Robin Williams».
Il libro?
«Sono un fan di Luciano De Crescenzo. Mi sono bevuto tutti i suoi volumi. Anche l’ultimo Ulisse era un fico».
Sai quanto costa un pacco di pannolini?
«Il più piccolo dei miei figli ha quattro anni. È un po’ che non ne compro. Ma direi più di dieci euro».
Conosci i confini di Israele?
«Uhm. In geografia sono negato. Libano?».
Sai quanti sono gli articoli della Costituzione italiana?
«Orca boia… Sha la la la la la la».
Vittorio Zincone
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