Fabrizio Barca (Sette – luglio 2013)

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Ormai ha una doppia identità. Come i super eroi. Nei giorni feriali è un dirigente generale del ministero dell’Economia, nei festivi è un militante appassionato che vuole salvare il Pd (Barcaman?). Un paio di mesi fa Fabrizio Barca, 59 anni, conclusa l’esperienza da ministro della Coesione territoriale con il governo Monti, è andato in via dei Giubbonari, a Roma, e si è iscritto al Pd. Poi ha buttato giù una Memoria in cui parla di “mobilitazione cognitiva” e di “partito palestra”, e ha cominciato il Viaggio in Italia, un tour sul territorio per incontrare la base. Apriti cielo. L’apparato è entrato in fibrillazione: mica vorrà fare il segretario! Barca racconta: «Un giorno si è presentato il comitato ispettivo di un circolo dove ero atteso. Erano in tre, uno per corrente. Non capivano che intenzioni avessi. Conquistare la segreteria? Dare una spallata ai vertici?». Barca nega di puntare alla leadership del Pd: «Il mio ruolo è un altro. Serve un segretario di mediazione, io sono un facilitatore e un destabilizzatore».
Lo incontro nel suo ufficio romano di via XX Settembre. La parete dietro alla sua scrivania è tappezzata con ritagli di giornale. Parla svelto. In due ore non dice nemmeno una volta catoblepismo (la parola simbolo del Barca-pensiero) e appena può svicola sulle materie che gli sono più care: il credito e la piccola impresa, i distretti industriali… Lo riporto sulle polemiche di bottega.
Per eleggere il futuro segretario l’apparato del Pd vorrebbe limitare le primarie agli iscritti, Matteo Renzi vorrebbe aprirle a tutti. Lei ha proposto di far votare i “partecipanti”. Che cos’è un partecipante?
«Una persona che negli ultimi anni ha dedicato un paio d’ore a settimana al Pd. Uno che ci ha messo la testa. Il partito deve essere come qualsiasi altra associazione. Non credo che Greenpeace accetterebbe un leader scelto da persone che si sono avvicinate fugacemente a un gazebo dicendo “mi piace Greenpeace”».
Le primarie ultra aperte servono per attrarre elettori.
«Giusto: quando si parla della scelta del candidato premier. Ma io distinguo tra segretario del partito e premier».
Lei ha detto che se Renzi si convincesse del metodo Barca per governare il Pd, diventerebbe “un razzo”.
«Renzi usa un linguaggio moderno, comunica bene. Gli manca solo di riconoscere che comandare è molto difficile. E che il partito non può essere solo un comitato elettorale: ti serve anche la mattina dopo che sei andato al governo».
Lei ha criticato Tony Blair per il suo “cesarismo”. Renzi ha annunciato un progetto per fare del Pd quello che Blair fece con il New Labour.
«Peccato che anche nel New Labour si siano accorti che occorre riconnettersi con la società. E per questo hanno chiamato un community organizer dagli Stati Uniti».
Ma lei e Renzi parlate ogni tanto?
«Dovremmo farlo di più».
A un certo punto è spuntato il possibile ticket Barca-Renzi. Lei al partito e lui al governo.
«Io non aspiro alla segreteria. Cerco di spronare il partito a ragionare su come si costruisce un’identità e una modalità di governo. Mi piacerebbe influenzare un candidato segretario, questo sì».
Cuperlo? Renzi?
«Per ora intercetto molti renziani, gente sveglia. Sono appassionati per le istanze di cambiamento del loro leader, ma riconoscono il pragmatismo della mia proposta».
La proposta Barca vista con le lenti del cantautore Giorgio Gaber: Pd è partecipazione.
«Alla semplice partecipazione, aggiungo la parola conoscenza. Il partito deve diventare il luogo della mobilitazione cognitiva, dove dal confronto delle conoscenze scaturiscono idee per il buon governo. Nel viaggio che sto facendo ho incontrato molti miracolati, persone che non si capisce come siano finite lì, ma anche tante risorse: una signora all’Umanitaria di Milano ha individuato un problema fondamentale del Pd».
Quale?
«Lei è anche attivista di Amnesty International. Ha spiegato che dopo ogni iniziativa quelli di Amnesty fanno un report e lo mettono sul web. Il Pd questo non lo fa: non sfrutta la vera potenzialità della Rete. Non scambia conoscenza».
Discutere. Confrontare. Scambiare saperi. Così non si rischia di rendere ancora più macchinosi i processi decisionali, in Italia già lentissimi?
«L’Italia è un Paese normocentrico: pensiamo che nella decisione ci sia tutto il sapere. Invece dobbiamo recuperare il nesso tra il sapere/conoscere e il deliberare. Essere sordi ai saperi e alle obiezioni degli interlocutori crea muri di cemento tra le posizioni. Come è successo con la Tav. La decisione di realizzare la Torino-Lione va presa a livello centrale, ma come realizzarla va discusso prima sul territorio».
Ci può essere un Pd unito se prima non spuntano i nomi dei 101 che hanno silurato la candidatura di Prodi al Quirinale?
«Io credo che ci si dovrebbe concentrare su come quei 101 sono stati selezionati. Possibile che il Pd abbia mandato in parlamento così tante persone a cui mancano regole elementari di comportamento?».
È la critica che fanno i democratici agli eletti del M5S.
«Non credo che le liste del M5S abbiano caratteristiche così dissimili da quelle del Pd».
Per sconfiggere Grillo, in campagna elettorale Renzi propose il dimezzamento dei parlamentari e l’abolizione dei rimborsi elettorali.
«Io non credo che la rabbia anti-casta vada accontentata con atti che comprano il consenso a poco prezzo. Lo dice uno che non usa la parola populismo con accezione negativa».
Ah, no?
«Il populismo negli Stati Uniti è la non sopportazione della staticità delle gerarchie sociali. Magari ce ne fosse in Italia. Qui si cerca di placare la rabbia concedendo le briciole».
Qual è la riforma giusta per placare la rabbia dei cittadini contro i partiti e i politici?
«Eccola: consentire l’ingresso negli enti pubblici solo con modalità concorrenziali. Una norma con effetti permanenti».
Sarebbe anche il modo per impedire l’occupazione delle amministrazioni pubbliche da parte dei partiti?
«Esatto. Abbiamo il coraggio di dire che non puoi essere membro del Pd se entri in un ente pubblico le cui modalità di selezione non sono concorrenziali e trasparenti? Non basta proclamarsi diversi, per esserlo dobbiamo comportarci in maniera diversa».
Lei ha detto che un partito che va bene a tutti è senza identità. Non aspira a rubare voti al centrodestra?
«Sono favorevole a rubare elettori alla destra con un progetto di cambiamento e non facili prebende clientelari. Sono contrario a scippar voti sbracando sul piano identitario».
Identità. Suo padre, Luciano, è stato partigiano, parlamentare comunista, direttore de L’Unità e di Rinascita… Un’infanzia a pane e Pci.
«A tavola non si parlava mai di politica».
Lei quando ha cominciato a fare politica?
«Al liceo Mamiani. Frequentavo il Movimento studentesco. In terza liceo mi iscrissi alla Fgci. A settembre dell’anno dopo ero responsabile degli studenti medi».
Poi lasciò, all’improvviso.
«Capii che non faceva per me. Persi un paio di battaglie tattiche in modo clamoroso e comunque l’impegno universitario non era conciliabile».
Perché scelse di studiare Statistica?
«Volevo entrare in Banca d’Italia. Fino all’’89 sono stato iscritto al Pci».
Lasciò in polemica con Occhetto?
«Avevo la sensazione che il gruppo dirigente avesse solo fretta di dire che eravamo lontani dal comunismo. Da allora la sinistra ha cercato all’estero modelli a cui ispirarsi. Ora sono convinto che nel Pd si possa ricominciare, coniugando l’identità di ispirazione socialista con quelle cristiano-sociale e liberale».
A cena col nemico?
«Con Luigi Zingales, un liberista convinto».
Con Berlusconi ha mai cenato?
«No, ma l’ho incontrato tre o quattro volte. È un uomo che capisce esattamente chi sei e plasma il suo racconto e il suo linguaggio a seconda dell’interlocutore».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Mi sono fidato troppo spesso delle persone sbagliate».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Non accettare la borsa del Cnr per rimanere a Cambridge e tornare in Italia per lavorare con Bankitalia».
Una volta ha detto che fino a quando l’Italia non sarà un Paese migliore i suoi figli staranno bene all’estero.
«Ero all’Aquila e dissi una cosa molto diversa. E cioè che quando i miei tre figli sono andati all’estero, via da Roma, non è stato un problema, perché di sicuro nella Capitale sono arrivati altri ragazzi. Al contrario di quel che succede a l’Aquila, dove se qualcuno se ne va via la città si svuota».
Chi usa come motto su Twitter la frase: “Non c’è sviluppo senza cultura”?
«Mi risulta familiare. Mia sorella Flavia?».
Già. Sua sorella è il nuovo assessore alla Cultura di Roma.
«Mi ha rimproverato perché sono stato l’ultimo a congratularmi per l’incarico».
Anche lei usa parecchio Twitter. È rimasto celebre un suo cinguettio, da ministro, in cui spronava il Pd a votare Rodotà presidente.
«Prima twittavo molto di più. E mi imbarcavo in scambi anche durissimi con cittadini infuriati. Ora ho rallentato».
Che cosa guarda in tv?
«SkyTg24 e il calcio. Sono juventino».
Il film preferito?
«Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri».
La canzone?
«Il ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano».
Il libro?
«Guerra e pace. Oppure Il talismano della felicità di Ada Boni. Ho in casa una prima edizione appartenuta a mia nonna».
Lei cucina?
«Per colpa del Pd sempre meno. Mio padre stava ai fornelli nei weekend, io anche durante la settimana. Stamattina ho scongelato l’ultimo piatto cucinato: una lingua in agrodolce».
Fa anche la spesa?
«A Campo de’ Fiori, certo. Cerco di comprare verdure che stiano sotto l’euro al chilo. Per i pomodori e le erbette di campo sforo. Per il pane, invece, vado al Ghetto».
Conosce i confini della Turchia?
«Grecia, Siria… Io di solito ci arrivo dalla Bulgaria…».
Di solito?
«Ci sono stato tre volte, in macchina. L’ultima volta, io e mia moglie Clarissa, siamo partiti di notte da Ortisei e alle otto di sera eravamo sotto la moschea di Edirne a mangiare delle polpette col sugo favolose».
L’articolo 12 della Costituzione?
«È quello sul Tricolore».
La Costituzione va conservata così o va modificata?
«Aggiungerei solo una parola in uno degli articoli che parlano di impresa economica».
Quale parola?
«Concorrenza».

Pubblicato su Sette – Corriere della Sera, il 5 luglio 2013
Vittorio Zincone
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Categorie : interviste
Commenti
Regine Hildebrandt 12 Agosto 2019

siamo madoniti, ci è piaciuto il programma delle linee guida Madonie resilienti e vorremmo sempre più Barca.

Fausta Clerici 14 Novembre 2019

È UNA VERGOGNA, OLTRE CHE UN GRAVE DANNO, CHE NEL PD, IL MIO PARTITO, UN DIRIGENTE COME BARCA NON SIA VALORIZZATO COME MERITA

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