Rosy Bindi (7 – Settembre 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 13 settembre 2019)

«Non mi chiami “ex”. Preferisco “già”». Rosy Bindi, 68 anni, già ministra della Salute e della Famiglia nei governi Prodi 1 e 2, già presidente del Pd e della Commissione Antimafia, seduta su un divanetto di Montecitorio, racconta: «Lo sa che la prima volta che sono stata eletta alla Camera sedevo tra Sergio Mattarella e Leopoldo Elia? La mia generazione non è stata brava come la loro, però i giganti che c’erano prima ci hanno portato un po’ sulle loro spalle. Noi questo lavoro non lo abbiamo fatto, non abbastanza almeno, altrimenti oggi la politica non sarebbe ridotta com’è». Alle ultime Politiche Bindi non si è candidata. Quando le chiedo come trascorra le sue giornate, sorride: «Faccio la conferenziera».

Come Matteo Renzi?

«Eh no. Io gratis. Al massimo chiedo un rimborso spese alle organizzazioni che possono permetterselo. Girare per tutta l’Italia, costa».

Gira per parlare con chi?

«Con il mondo cattolico, dell’antimafia e con il popolo dei sindacati. Siamo ancora in un periodo salviniano: il galateo istituzionale è stato stracciato e i principi costituzionali vilipesi. Ora è necessario un lungo lavoro culturale. Non sarà sufficiente entrare nei ministeri per riconquistare la fiducia degli italiani».

Non sarà sufficiente, ma aiuta.

«Non credo che esistano soluzioni facili a problemi complessi. Per ricostruire un centrosinistra solido e il rapporto con i cittadini bisogna ricominciare a seminare. I nostri valori: la democrazia costituzionale, l’istruzione, il welfare con al centro la sanità pubblica, la lotta alla mafia e alla corruzione. Se passa l’idea che siamo al governo solo per occupare posti di potere siamo destinati a fallire».

Lei era contraria all’accordo con i Cinque Stelle?

«No, anzi. Ero rimasta delusa nel vederli così schiacciati sulle posizioni salviniane. Ora il Pd ha la responsabilità di far maturare i pentastellati dal punto di vista istituzionale. L’incontro tra forze politiche serve soprattutto a questo. La politica ha anche una funzione pedagogica. Certo, il Pd deve pretendere una svolta».

In quale direzione?

«La famosa discontinuità. Io non dimentico come il premier Conte abbia avallato tutte le politiche della Lega e sostenuto fortemente Salvini sul caso Diciotti. Non l’avrei lasciato da solo a Palazzo Chigi. Per far sì che non sembri un rimpasto sarà necessario dare risposte forti. E se non lavoriamo anche sul piano culturale alle prossime elezioni pagheremo tutto». La preoccupazione di Bindi è soprattutto quella di ricreare una connessione con il popolo perduto del centro-sinistra. Vorrebbe un Pd che ritrovi la sua identità: «Che torni a essere sintesi di culture. Solo così, forti, poi ci si può aprire ad altre alleanze». Appena le chiedo chi potrebbe interpretare in futuro la figura del federatore del centrosinistra (il ruolo che fu di Romano Prodi), mi guarda sconsolata. L’unico nome su cui non sbuffa è quello di Paolo Gentiloni: «Il miglior premier della legislatura 2013-2018». Poi sorride: «Servirebbe uno come Papa Francesco».

Jorge Maria Bergoglio, federatore del centro-sinistra.

«Si scherza: magari averne di leader così carismatici che abbiano un pensiero politico straordinario sull’ambiente, sugli immigrati e sulle disuguaglianze!».

Bindi, lei è nata e cresciuta in mezzo a preti e a benedizioni. Facciamo il gioco delle decadi. Un’immagine per ogni decennio che ha vissuto. Da zero a dieci…

«L’immagine è di me malata. Non hanno mai capito che cosa avessi. Sono stata a lungo nell’ospedale pediatrico di Arezzo».

È vero che da bambina giocava a celebrare la messa?

«Sì. La parte che preferivo era l’omelia».

La predica.

«Il momento diciamo… più politico. Ero solitaria. Avevo più di un amico immaginario con il quale conversavo».

Dai dieci ai venti anni?

«La puntura del cuore. È il modo con cui i padri della Chiesa chiamano la conversione. La sentii nella parrocchia che frequentavo a Sinalunga. Cominciai ad andare a messa non solo perché altrimenti il babbo mi avrebbe rimproverata».

Venti-trenta, tra il 1971 e il 1981.

«Io nelle parrocchie di tutta Italia con l’Azione cattolica. Un decennio senza un giorno di ferie».

Nel 1978 c’è l’omicidio di Aldo Moro.

«Quando venne rapito il presidente della Dc ero già assistente di Vittorio Bachelet alla Facoltà di Scienze Politiche, a Roma. L’uccisione di Moro bloccò l’evoluzione del processo democratico italiano. Stiamo ancora recuperando il ritardo accumulato in quel ‘78».

Il 12 febbraio 1980…

«… era il giorno del mio ventinovesimo compleanno. E vidi Anna Laura Braghetti e Bruno Seghetti sparare e assassinare Bachelet. A un passo da me. Scapparono e io rimasi lì, a chiedere aiuto, circondata dai bossoli dei proiettili. È una scena che non dimenticherò mai».

Dai trenta ai quarant’anni.

«La maturazione della vocazione politica».

L’immagine?

«È il 10 maggio 1989. Scadenza della presentazione delle liste per le Europee. Un giovane funzionario della Dc viene a Sinalunga per farmi firmare l’accettazione della candidatura. Aveva una Fiat 127 sgangherata del partito. Mi disse: “Ho poche ore per depositare la candidatura alla Corte d’Appello di Venezia. Se arrivo vuol dire che sei predestinata”».

Il periodo tra i suoi quaranta e i cinquanta anni comincia con Tangentopoli: lei, da segretario della Dc veneta, chiese a tutti quelli raggiunti anche solo da un avviso di garanzia di fare un passo indietro.

«Era necessario per il bene della comunità. L’immagine di quegli anni però è il mio giuramento da ministro della Salute, nel 1996. L’emozione dei miei genitori… Lo sa che mia madre compie cento anni a novembre?».

Le è stata vicina nel suo percorso politico?

«È rimasta storica la battuta con cui fulminò quelli di An che sostenevano il metodo Di Bella e vennero sotto casa mia a manifestare. Lei si affacciò e disse: “Non vi offro da bere perché non ho l’olio di ricino in dispensa”».

Famiglia antifascista?

«Il padre di mia madre era socialista. In pieno regime decise di chiamare il suo ultimogenito con un nome ebreo, Saul. Dato che all’anagrafe non lo volevano accettare, allora lo modificò in Saulle. Lo zio Saulle».

Tra i cinquanta e i sessanta.

«Le primarie per la segreteria del Pd. I giorni dei Dico e del Family Day».

La manifestazione di Piazza San Giovanni del 12 maggio 2007.

«Vedere l’associazionismo cattolico protestare contro di me, è stato un dolore. Allo stesso tempo li capivo: io ero nel consiglio nazionale di Azione cattolica quando ci fu il referendum sul divorzio…».

Nel 1974…

«…e votai sì, cioè contro il divorzio, per obbedienza alla gerarchia ecclesiastica. Se tornassi indietro e non fossi una dirigente di Ac voterei a favore».

Ultimo decennio.

«Cito Camilleri: “Non si può essere contemporanei a tutte le epoche”».

E quindi?

«Lotto, incontro cittadini… E però mi accorgo anche che questa politica non è più casa mia».

Parla dei toni? Della personalizzazione violenta dello scontro?

“Sì. Ma penso anche al cinismo e alla povertà dei contenuti. Purtroppo, da questo punto di vista, il piano ha cominciato a inclinarlo l’ex leader del mio partito, Matteo Renzi”.

Categorie : interviste
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