Piera Aiello (7 – Marzo 2020)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 20 marzo 2020)

Piera Aiello ha cinquantadue anni, due vite e due identità: una nota, sotto scorta, da parlamentare del Movimento Cinque Stelle e una segreta, da testimone di giustizia. Nelle sue narici riemerge spesso l’odore di polvere da sparo e la puzza di nafta di cui erano intrise le tute dei killer mafiosi che uccisero il suo primo marito, Nicola Atria, piccolo boss del trapanese. Il New York Times qualche settimana fa ha dedicato a Piera un ritrattone e la Bbc nel 2019 l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del pianeta al fianco di Vandana Shiva, Alexandria Ocasio Cortez e Greta Thunberg. L’intervista si svolge via Skype. Lei si trova in una località protetta. Indossa una felpona nera e fuma. La cadenza siciliana si fa forte man mano che si immerge nel racconto di una vita che sembra sceneggiata da un autore di Narcos. A proposito: lei non ama le serie tv sulla malavita. Spiega: “Il capo dei capi è stata deleteria. Invece di raccontare che i mafiosi sono schifosi e muoiono soli come cani, esaltava Totò Riina come un re. Gomorra è terribile”. Racconta che la sua azione politica a Montecitorio è principalmente antimafia: “Ho depositato due leggi. Una per aiutare gli imprenditori vittime di racket e l’altra per aiutare i cento testimoni e i mille collaboratori di giustizia”.

Perché sono così pochi i testimoni antimafia?

“Il testimone non ha mai commesso reati. E’ una scelta molto dura e personale, che ha a che fare con la morale: la tua vita viene stravolta, perché decidi di non girarti dall’altra parte e di parlare. Si teme di non essere protetti dallo Stato”.

Vite stravolte. Andiamo con ordine. La sua infanzia a Partanna, la città della Sicilia Occidentale dove è nata.

“Mio padre era muratore, mia madre sarta. Facevo vita di paese. Da ragazza l’unica cosa che mi veniva concessa era invitare qualche amico a giocare a carte, ma sempre sotto l’occhio vigile di mio padre. Lui era ed è gelosissimo”.

Il suo primo fidanzato è stato l’uomo che poi ha sposato?

“Prima c’era stato un giovane muratore, Franco. Ci scambiavamo solo occhiate. Quando avevo quattordici anni, invece, gli Atria sono entrati definitivamente nella mia esistenza. Don Vito, padre di Nicola, veniva a casa cercando di organizzare il matrimonio. L’anno successivo venne ufficializzato il fidanzamento con tanto di anello”.

Lei era d’accordo?

“Quando capii chi fossero davvero gli Atria, con i baciamolemani e tutto il resto, andai da Don Vito a chiedere spiegazioni. Lui mi disse che in paese era amato perché faceva il «paciere». Fesserie. Chiesi di sciogliere il fidanzamento. E lui mi minacciò: «Ovunque tu vada sarai per sempre mia nuora»”.

Lo disse a suo padre?

“No. Si sarebbe fatto ammazzare. Nel novembre del 1985 mi sposai con Nicola. Pochi giorni dopo don Vito venne ucciso. Nicola giurò vendetta”.

Il 24 giugno 1991, Nicola fu assassinato.

“Davanti ai miei occhi, nella sala della nostra pizzeria. Mia figlia Vita Maria era dai nonni, aveva tre anni”.
Lei decise subito di denunciare i killer?

“Sì. Andai a parlare con i carabinieri di Montevago. Il maresciallo, che non si fidava dei suoi, mi portò a Sciacca e da lì con una civetta a Palermo. Nella stanza di una piccola caserma mi ritrovai davanti i magistrati Morena Plazzi, Alessandra Camassa e Paolo Borsellino”.

E’ vero che rimase impressionata dal fatto che Plazzi e Camassa fossero molto autorevoli? 

“Io all’epoca parlavo poco l’italiano. Loro sono state le mie muse ispiratrici. Mi hanno anche spinto a studiare”.

Borsellino…

“Quando lo sentii parlare gli dissi che col suo accento palermitano sembrava un mafioso. Poi lo chiamai «onorevole». Mi fermò e disse: «Mi chiami Zio Paolo». Mi rassicurò e mi consigliò di pensarci tre giorni, perché testimoniando avrei dovuto strappare la Sicilia dalla mia mappa esistenziale. Il 31 luglio 1991 mi inserirono nel programma di protezione, sotto scorta. Per sei anni con identità provvisorie”.

Lei è stata spesso polemica con il Servizio di Protezione.

“Un giorno mi chiamano e mi dicono: «Ci attiviamo per far andare a scuola sua figlia». Risposi: «Mia figlia frequenta la terza elementare». Mi ero organizzata da sola”.

Come?

“Chiedendo al direttore di una scuola di aiutarmi. Vita Maria per molto tempo ha avuto libri con scritto un nome inventato sulla prima pagina e il vero nome, scritto piccolo, sull’ultima. Poi nel 1997 ci hanno detto che avremmo potuto fare un cambio di identità più solido, con documenti e la possibilità  di aprire un conto in banca”.

Lei prima circolava senza documenti?

“Per un po’ ho avuto una patente falsa, procurata dalla Criminalpol. Con le identità ogni tanto ho rischiato di confondermi. Ci si sente in una specie di limbo”.

C’è stata una polemica perché lei, nel 2018, non avendo documenti con sopra scritto il nome Piera Aiello non si sarebbe potuta candidare.

“Una vicenda archiviata, anche dai magistrati”. 

A casa come hanno accolto la sua volontà di riappropriarsi del nome Piera Aiello?

“Bene. Prima di tutto ho dovuto spiegare chi ero, chi sono, alle due figlie avute con il mio secondo marito”.

Loro con lei usano ancora il nome dell’identità segreta?

“Certo. Anche mio marito”.

Mi spiega come si vive con una doppia identità?

“Quando uso l’identità segreta sono una normalissima cittadina. Da qualche anno sono una dipendente pubblica. Quando mi riapproprio del mio nome, vivo sotto scorta”.

Ha mai pensato «chi me lo ha fatto fare»?

“Mai. Neanche un istante. Quando sono finita in quell’elenco della Bbc, mi sono sentita onorata e ho pensato: «Forse ho lasciato una piccola impronta sulla terra». Un giorno un mio nipote potrà dire con fierezza: «Mia nonna ha testimoniato. E ha contribuito un po’ a sconfiggere la mafia». Tra l’altro io ho già una nipote, la figlia di Vita Maria”.

Anche il nome della nipotina è segreto?

“Gliene posso dire un pezzo. L’ho suggerito io, perché è nata il giorno in cui sono stata eletta in Parlamento: Vittoria”.

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