Raoul Bova (Sette – novembre 2010)

La leggenda vuole che in una sala cinematografica di un paesino del Sud, quando uscì Ninfa Plebea di Lina Wertmüller, dopo qualche serata cominciarono a proiettare solo il secondo tempo. A chi chiedeva come mai, veniva data questa risposta: «Qui la gente vuole solo Raoul Bova. E lui appare nel secondo tempo. Quindi il primo lo saltiamo». Questa storia la raccontò qualche anno fa il critico cinematografico Tullio Kezich, parlando del divismo in Italia. E rende abbastanza l’idea del pubblico “boviano”: più cultori della sua persona che appassionati di pellicole d’essai.
Raoul Bova, trentanove anni, attore, spesso in cima alle classifiche dei più amati, belli e scolpiti del pianeta, mi accoglie nel tempio del suo impegno sociale: la sede romana dell’Associazione “Coloriamo i sogni” (con cui presto interverrà ad Haiti) e della casa di Produzione Sanmarco che ha fondato con sua moglie Chiara e con cui ha già realizzato tre film: uno sullo scontro di civiltà (Io, l’altro), uno sulla droga e su chi ne combatte la diffusione (Sbirri) e uno, corto, sulla pena di morte (15 secondi). Quest’ultimo gli ha fatto guadagnare una lettera di ringraziamento del Presidente Giorgio Napolitano, che Raoul ha incorniciato e piazzato accanto ai libri di sua suocera, l’avvocato Anna Maria Bernardini De Pace.
Il lato sociale lo impegna parecchio. È appena stato nominato ambasciatore della Fao. E finita l’intervista mi dice che deve fuggire per realizzare il primo spot sociale in 3D per gli aiuti alla ricerca sulle cellule staminali. Lo provoco: collezioni tutte queste iniziative per sciacquarti l’anima e goderti i tuoi successi senza sensi di colpa? Mi spiazza: «E anche se fosse? Magari ce ne fossero di persone che si impegnano così…». Parla piano, con voce profonda. Subito dopo essersi seduto su un divanetto della sua stanza, mi fa capire che allo stato attuale è cinematograficamente ubiquo: ha appena finito di girare una fiction per la tv (Come un delfino), sta per concludere le riprese del film di Massimiliano Bruno (Nessuno mi può giudicare) e ha una commedia in uscita (Ti presento un amico, di Carlo Vanzina).
In diciotto anni di attività Raoul ha girato una cinquantina di film, tra cinema e tv. È stato anche a Hollywood. E quando è tornato ha raccontato la durezza dei rapporti professionali negli Usa («Quasi violenti») e l’efficacia delle loro battaglie sindacali. Visto il periodo particolarmente caldo per il mondo del nostro cinema, partiamo da qui.
Attori, registi, sceneggiatori sono in fibrillazione per i tagli ai fondi per lo spettacolo.
«In Italia manca un po’ di concretezza».
Non condividi le occupazioni plateali?
«Mi pare che non servano più di tanto. Ti riunisci, parli, parli, parli… giusto eh… ma poi? Negli Stati Uniti quando i lavoratori di Hollywood si vogliono far sentire fermano tutto».
Bova barricadero.
«Se uno vuole fare una cosa sensata organizza uno sciopero vero: non si lavora più, si blocca tutta l’industria del cinema. Stop ai set, alla tv, al teatro. Tutti fermi».
Tu lo faresti?
«Quando ne ho parlato a dei colleghi mi hanno detto: “Per te è facile”».
Alludendo al fatto che hai già guadagnato molto nella vita e quindi fermarti non ti costa più di tanto?
«Sì. Ed è vero che io avrei meno difficoltà di altri. Ma per sostenere le proprie idee bisogna avere coraggio».
Se lo fanno gli operai…
«Esatto. La causa della lotta dovrebbe essere giusta e condivisibile».
La protesta contro il taglio del Fus e degli investimenti nel cinema non lo è?
«Lo Stato nel cinema ha buttato un sacco di soldi. Fermare il flusso di denaro non è stato sbagliato. Ma andrebbe riattivato immediatamente indirizzandolo meglio: con più rigidità e più controlli».
Tu sei anche produttore. Hai detto: «Se fai un film indipendente a Los Angeles rischi di andare agli Oscar. In Italia rischi che non esca mai».
«È così. La distribuzione è un po’ bloccata».
Chi sarebbe un buon ministro del Cinema?
«Walter Veltroni. Uno dei pochi politici che se ne è occupato seriamente. C’è tanta di quella sporcizia da portar via… imbroglioni… raccomandati… Una volta una bella ragazza mi ha fermato per strada e mi ha chiesto: “Vorrei fare l’attrice. Sono davvero così tanti i compromessi da fare?”».
Che cosa le hai risposto?
«Le ho chiesto se sapeva recitare. Mi ha detto di no. E mi ha spiegato che comunque voleva fare cinema: “Perché lo fanno tutti”. Capito? Dava per scontato che essendo una bella ragazza potesse fare l’attrice. E poi aveva già messo in preventivo chissà quale compromesso».
Anche a te spesso dicono che hai cominciato a fare l’attore solo perché sei bello.
«Ma io dopo le primissime esperienze mi sono messo sotto a studiare. Ho fatto corsi di dizione. Mi sono buttato nel teatro, per crescere un po’. Ho fatto pure Macbeth clan al Piccolo di Milano. Seminari, approfondimenti… E non ho mai smesso».
Il regista Ferzan Ozpetek una volta ha detto che tu stai agli attori italiani come Monica Bellucci sta alle attrici.
«Ci vuole autoironia».
Quando sei ospite in tv, alcune intervistatrici sottolineano più la tua bellezza che le tue capacità istrioniche.
«Machissenefrega. Ci sono talmente tanti problemi nella vita. Che si divertano. Ridano. Che gli devo dire?».
Come sei arrivato nel mondo del cinema?
«Mia sorella mi consigliò di fare qualche provino».
Per quali film?
«Pubblicità. Ricordi il primo spot di Stefano Accorsi? Ecco, non mi presero».
Il tuo primo ciak?
«Una minuscola comparsata in Quando eravamo repressi di Pino Quartullo».
Intendevo da protagonista.
«Una storia italiana. Un film tv sui fratelli Abbagnale. Mi presentai al casting con la borsa del nuoto».
Il regista di quella tua prima apparizione, Stefano Reali, è lo stesso della tua ultima mini-serie Come un delfino. È vero che per girarlo sei tornato a nuotare?
«Sì. Ho anche vinto una gara per atleti over 35».
Da adolescente eri un campione di dorso. Perché smettesti?
«Sbagliai una virata durante le qualificazioni per le Olimpiadi. Avevo il risultato in tasca e riuscii a rovinare tutto. Non mi ripresi più».
Nel cinema, dopo Quartullo ti ha diretto Roberto D’Agostino in Mutande pazze.
«Poi c’è stato Carlo Vanzina con Piccolo grande amore, che andò benissimo».
Quando comincia la tua carriera di cinepoliziotto/carabiniere/militare buono e fedele?
«Con la Piovra7. Mi scelse il regista Luigi Perelli, dopo avermi visto in teatro».
Lo interpreteresti un poliziotto crudele e corrotto?
«Dipende dalla sceneggiatura. Fare un cattivo mica è così complicato».
Hai rifiutato il ruolo del bandito Francis Turatello, nel film di Placido su Vallanzasca.
«Non mi sembrava una grande sfida».
Non è che hai avuto paura di sporcare la tua immagine pubblica di “buonissimo” interpretando un criminale?
«Guarda che in teatro ho fatto pure Pietro Maso. Non esattamente un agnello».
Che cosa ne pensi delle polemiche che spuntano ogni volta che esce un film sulla mafia o sulla criminalità? La Piovra, Il capo dei capi, Gomorra, Vallanzasca
«Farei qualche distinzione».
Di che tipo?
«La Piovra, Il capo dei capi e Gomorra raccontano l’Italia e la sua storia».
Berlusconi ha criticato quel tipo di rappresentazione del Paese.
«E vabbè. Su Vallanzasca invece, anche se non ho avuto modo di vedere il film, credo che le critiche siano giuste. È un delinquente minore. Perché dedicargli una pellicola?».
Perché era bello e affascinante?
«Mi dà un po’ fastidio questa esaltazione dei criminali vincenti. Il meccanismo “cattivo fico, ricco e con donne meravigliose”, “buono sfigato, poverello e sacrificabile” andrebbe interrotto. È diseducativo».
Lo farai il quarto episodio di Ultimo?
«Vedremo».
È vero che si chiamerà Ultimo e il falco?
«E tu che ne sai? Hai delle spie nel mio ufficio?».
Hai mai dubitato di Sergio De Caprio, il vero Capitano Ultimo?
«Scherzi?».
È stato processato. Gli hanno rinfacciato soprattutto il ritardo della perquisizione del covo di Riina.
«Solo in Italia può succedere che un uomo che ha dedicato la sua vita alla cattura di un criminale subisca quel che ha subito Sergio. L’hanno messo da parte. Mobbizzato. Con lui ho fondato l’Associazione Capitano Ultimo. Stiamo per aprire una casa famiglia sulla Prenestina, proprio per accogliere giovani con problemi e togliere manodopera alla malavita».
In Ultimo e il falco parlerete anche delle ultime vicende processuali di De Caprio?
«Non sarebbe male far vedere che c’è chi vuol far passare per delinquente colui che per molti anni è stato uno dei bersagli principali della mafia».
Chi è il regista da cui hai imparato di più?
«Se faccio un nome gli altri si offendono».
Il più duro?
«Forse Ozpetek. Mi provocava, per farmi reagire con più forza».
L’attrice con cui hai duettato meglio?
«Non ce n’è una con cui mi sono trovato male».
L’attore che ti ha dato i consigli più preziosi?
«Giancarlo Giannini. Generosissimo in Palermo, Milano. Durante la scena in cui muore il personaggio di Valerio Mastandrea, tutti avevano un primo piano. Io non volevo ribadire le espressioni che avevano già fatto gli altri e quindi chiesi a Giancarlo un aiuto».
Che cosa ti disse?
«Di girarmi. Dando le spalle alla cinepresa».
Il regista accettò l’improvvisazione?
«No. Urlò: “Ma che fai, ti giri?”».
Bel consiglio.
«Non andò a buon fine. Ma in quell’occasione Giannini mi insegnò a non concentrarmi solo sulla mia recitazione e a interagire con tutto quello che succede nella scena».
È vero che molti registi amici ti hanno detto che sei troppo famoso e caratterizzato per impersonare un ragazzo normale?
«Sì. Anche se saprei interpretarlo tranquillamente. Con una buona sceneggiatura… Ecco, uno dei guai del nostro cinema è che non ci sono molti grandi sceneggiatori. In America, soprattutto nelle serie tv, sono gli sceneggiatori a dettar legge».
Legge. Tua suocera è l’avvocatessa Anna Maria Bernardini De Pace, celebre divorzista. Se tua moglie ti becca a tradirla, sei rovinato.
«Ma a me non interessa il tradimento».
Sei bello e ultra desiderato. Avrai molte tentazioni.
«E dovrei rischiare di rovinare la mia famiglia per una tentazione? In questo sono molto calabrese. Preferisco proteggere i miei cari».
Hai un clan di amici?
«Due su tutti: Claudio che ha un agriturismo, e Marcello con cui andavo a scuola e che mi fa da ufficio stampa».
Qual è l’errore più grande che hai fatto?
«Ho toppato il provino per fare Tomb Raider con Angelina Jolie».
Racconta.
«Eravamo rimasti in due. Io e Gerard Butler. Sapevo che il regista voleva me. Sono andato lì e non ricordavo le battute».
Non ti eri preparato?
«Scherzi? Ero preparatissimo. Ma quando sono troppo sicuro di vincere, mi inceppo. Come con la virata alle selezioni olimpiche. E mi è successo pure all’esame per entrare in Guardia di Finanza».
Quando lo hai fatto, scusa?
«Dopo la maturità. Essendo nazionale di nuoto mi avrebbero dovuto prendere facilmente. Invece…».
Con Angelina Jolie comunque hai girato The tourist, che dovrebbe uscire a breve.
«E quando l’ho incontrata le ho detto del provino toppato».
Come ha reagito?
«Ha sorriso e ha detto che avrebbe preferito me a Butler».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Mia moglie».
Da quanto state insieme?
«Il primo bacio risale all’autunno del 1997. Poi ci siamo sposati a sorpresa, dopo il battesimo del nostro primo figlio».
A sorpresa?
«Sì. Il sacerdote, finito il battesimo, ha detto: “Restate qui che ora Raoul e Chiara si sposano”».
Il film preferito?
«Rocky. Con Stallone ci ho fatto pure un film: Avenging Angelo».
La canzone?
«Aretha Franklin… com’è il titolo… quella che fa na-na-na-na-na-naaaaa…».
Che fai, canti?
«I say a little prayer».
Il libro?
«Meno di zero di Bret Easton Ellis».
Che cosa guardi in tv?
«Mi piacciono Report della Gabanelli e Quarto grado di Sottile».
Sai quanto costa un litro di benzina?
«Dipende dal distributore».
Una media?
«Un euro?».
Uno e quaranta. Sai che cos’è Twitter?
«Una cosa di Internet?».
Un sistema di microblogging. I confini dell’Afghanistan?
«Prrrrrr».
Quanti anni ha la nostra Costituzione?
«Ammazza che cattiveria… e dai!».

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