Luca Barbarossa (Doppio Binario – 7 – Novembre 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 2 novembre 2017)

DOPPIO BINARIO AL FORO ITALICO, tra campi da tennis e statue di atleti marmorei, con Luca Barbarossa, cantautore romano e conduttore di Radio2 Social Club. Lui è anche testimonial di Emergency e quando lo incontro ha appena concluso un pranzo con Gino Strada durante il quale si è parlato della costruzione di un ospedale in Uganda progettato da Renzo Piano. Da una sacca nera spuntano due racchette rosse. Ci diamo del tu. Cominciamo a parlare della sua esperienza in radio, del clima di cazzeggio musicale che avvolge la trasmissione e degli ospiti/amici ricorrenti: Francesco De Gregori, Neri Marcorè… Gli domando se sotto rete sia più forte di Marcorè, anche lui tennista. Mi guarda come se fossi un marziano. Abbozza un timido «Neri gioca molto bene». Ha lo sguardo di chi sta per gettare la modestia sportiva alle ortiche. Lo provoco. Ti batte? Ti rompe? «Puoi spegnere il registratore?»

No.

«A me non mi rompe nessuno».

Hai vinto molti tornei?

«Non faccio tornei, non ne ho bisogno».

Nel tennis, dove ti sei formato?

«Qualche giorno fa ho incontrato Massimo Di Domenico, che faceva parte della squadra italiana che vinse la Coppa Davis, e che veniva ad allenarci al circolo della Pisana».

Ora quel circolo è stato preso in gestione da un altro tuo amico ex tennista, l’attore Max Giusti. Batti anche lui?

«Sono tutti bravi ragazzi».

Guarda che chiederò conferme sulle tue performance!

«Mi stai offendendo».

Barbarossa sorride. Si prepara rapidamente per una partitella pomeridiana. Entra nel campo centrale, quello dove si gioca la finale degli Internazionali, e inizia a palleggiare. Lo stile un po’ dinoccolato non è quello di Roger Federer, ma effettivamente ha colpi molto pesanti. Il suo avversario arranca. Tra un game e l’altro parliamo: Roma, gli esordi, Radio2 Social Club… In una delle ultime puntate, Barbarossa e il co-conduttore Andrea Perroni hanno scherzato con l’attrice Anna Foglietta sullo stato di salute della Capitale. Il cantautore ha esordito a Sanremo nel 1981 proprio con la canzone Roma spogliata. Rivela: «Ho appena finito di incidere un disco in romano».

In dialetto antico? Quello di Gioacchino Belli?

«Non esattamente. Uso il romano di Aldo Fabrizi e di Anna Magnani, la lingua che parlo tutti i giorni. Ci sono duetti con Fiorella Mannoia e Alessandro Mannarino. E un paio di brani riguardano proprio la Capitale: Via da Roma e Roma è de tutti ».

Via da Roma…

«Il testo è di Gigi Magni».

Regista e sceneggiatore romano morto nel 2013.

«È una conversazione tra un romano stufo che se ne vuole andare e la città. Roma a un certo punto risponde al fuggitivo: “Gira gira va ‘ndo te pare/ tanto sopra ‘ste mura ce sta scritto/ si proprio devi anna’ vattene pure/ però nun te scorda’ che qui t’aspetto”».

Roma è de tutti…

«Il disco è un atto d’amore scritto in un momento in cui Roma è abbastanza impopolare e regala un’immagine di sé catastrofica. Voglio ridare voce ai romani che non si sono fatti corrompere da Buzzi e da Carminati. Ai cittadini che non abbandonano materassi e frigoriferi accanto ai cassonetti. Roma è de tutti, de chi c’è nato e de chi ce viene… Ma è abbandonata da parecchi anni».

Lo scrittore Antonio Manzini proprio a 7 ha detto che sono gli stessi romani a maltrattare Roma, ad averla abbandonata.

«Il romano continua ad andare in metropolitana anche se la metro si rompe continuamente. Tu prova a non raccogliere la spazzatura per qualche giorno a New York e poi vedrai che anche la Grande Mela ti sembrerà abbandonata. Il problema è che a Roma non funziona nulla e il romano c’ha ‘na pazienza infinita».

L’ultimo sindaco che ti ha soddisfatto?

«Il primo mandato di Francesco Rutelli. Una Roma con molto decoro. Poi certo, rimpiango la creatività di Renato Nicolini».

Leggendario assessore alla Cultura di Roma, ideatore dell’Estate Romana alla fine degli anni Settanta.

«Uomini visionari e lungimiranti come lui non se ne trovano più. Oggi ci sono solo impiegatucci. O gente che racimola voti ventilando il pericolo degli immigrati e gonfiando le pulsioni razziste: è la politica dei pezzenti».

Negli anni Settanta eri adolescente. Militavi nei movimenti extraparlamentari?

«Ho frequentato gruppi e gruppetti. Ma fondamentalmente ero un figicciotto».

Un giovane comunista italiano.

«Il nostro capo era Walter Veltroni, attentissimo alle ultime frontiere della comunicazione. Io aprii una sezione a Mentana, cittadina a est di Roma dove ho vissuto per qualche anno. E per un po’ sono stato segretario e unico iscritto, ahah».

Ora che cosa voti?

«Non ho tessere, sono un uomo libero. Voto il meno peggio. A Roma ho votato Roberto Giachetti. Ma mica vorrai parlare di politica? È una delle cose che mi intristisce di più nella vita. Pensa che in radio inizialmente avevo la velleità di discutere anche temi sociali serissimi. Alla fine ho capito che da me, da Andrea Perroni e dalla band che suona con noi, i radioascoltatori vogliono intrattenimento. Sai come è nata Radio2 Social Club ?».

Racconta.

«Da una conversazione tra me e l’autrice Valentina Amurri: un giorno mi fece notare proprio la distanza tra la mia immagine di cantautore posato e quella del grande cazzaro in cui mi trasformo a cena con gli amici. Buttammo giù tre righe descrivendo l’atmosfera che avremmo voluto creare e presentammo il progetto a Flavio Mucciante che era appena diventato direttore di Radio2. Ci mandò subito in onda».

Finita la partita di tennis Barbarossa si prepara per tornare in redazione. Jeans, maglietta e giubbetto di pelle. Saliamo su una macchina turchese un po’ sgarrupata.

Chiedo: «In radio ti concedi spesso duetti con altri artisti…». Prima ancora che arrivi la domanda, comincia a raccontare: «La chiave è il gioco. Mi piace divertirmi anche con le leggende della musica: a James Taylor abbiamo fatto cantare l’inno americano con le parole di quello di Mameli. Diceva: “… sull’elmo di schipio …”. Ha riso molto con noi. Mi piace anche ospitare i giovanissimi: Mannarino è venuto ai suoi esordi. Ho preso come cantante residente Frances Alina Ascione che viene da The Voice ». Finiamo a parlare dei talent. Srotolo un po’ di critiche tradizionali che vengono fatte alle trasmissioni come X-Factor: i ragazzi stritolati dalle esigenze dello showbusiness, la tv che prevale sulla musica… Barbarossa, che a vent’anni era sul palco di Sanremo («un talent ante litteram»), sostiene che «l’unico vero problema per un giovane concorrente potrebbe essere quello di confondere la popolarità televisiva con la crescita artistica».

Tu come hai gestito quel successo e quell’improvvisa popolarità?

«Con disagio. Qualche anno dopo sono riuscito a rendere più solido il mio percorso con l’uscita di Via Margutta e Yuppies. La consapevolezza artistica è arrivata anche grazie a qualche insuccesso. Ma ci sta che un ragazzo all’inizio sbarelli. Ero abbastanza abbandonato a me stesso. Consideravo il mio successo spropositato rispetto alle mie qualità. Per un po’, ogni volta che cominciava un concerto davanti a diecimila persone ho pensato: “Adesso mi scoprono”».

Temevi tu stesso di essere un bluff?

«No, no. Però lì sul palco, da solo, con la chitarra e con le mie canzoni, dicevo a me stesso: “Ora mi beccano. Si accorgono che sono uno semplice”».

C’è chi pensa che i giovani artisti invece di andare in tv dovrebbero sbucciarsi le ginocchia tra piccoli locali e fiere di paese.

«È una cretinata. A parte che molti dei concorrenti hanno grande esperienza, ma poi è come dire che è meglio giocare ad acchiapparella che usare la Play Station».

Spiegati meglio.

«Ogni tempo ha i suoi strumenti. Io da ragazzo non avevo YouTube. Beati i giovani musicisti che oggi mettono in circolazione la loro musica e con due clic possono raggiungere milioni di persone. Quando suonavo per strada a Piazza Navona, al massimo mi ascoltavano in duecento».

Per quanto tempo hai fatto il cantante di strada?

«Qualche anno. Suonavo con un amico, Mario Amici, che tuttora fa parte della mia band quando sono in concerto».

Il guadagno giornaliero di un artista di strada?

«Il sabato a Piazza Navona riuscivamo a tirar su anche centomila lire. Abbiamo girato l’Europa cantando Crosby, Stills e Nash, Neil Young, gli Eagles… ».

L’inglese come lo hai imparato?

«Ho fatto per molto tempo avanti e indietro con Londra. Andavo per due tre mesi, facevo lo sguattero o il cameriere, prendevo in subaffitto una stanza e mi nutrivo di concerti. Da giovanissimo suonavo soprattutto Woody Guthrie, mi piaceva il folk americano. Solo dopo ho scoperto che Bob Dylan, un mio punto di riferimento, agli esordi si esibiva nei club del Village suonando proprio Woody Guthrie».

A Dylan nel 2016 è stato assegnato il Nobel per la letteratura. C’è chi ha detto che non se lo meritava.

«Io a Dylan darei anche le tre stelle Michelin e un intero servizio di forchette del Gambero Rosso»

Categorie : interviste
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