Roberto Perotti (Doppio Binario – 7 – Ottobre 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera l’11 ottobre 2018)

LA BICI PIEGHEVOLE SCIVOLA SILENZIOSA per le vie milanesi. Il professore compie un breve zig zag, fa un’inversione a U, carica l’intervistatore appiedato sul portapacchi e prosegue verso il suo dipartimento universitario. Doppio Binario a pedali con Roberto Perotti, 57 anni, economista e docente dell’Università Bocconi. Nel 2014 venne chiamato da Matteo Renzi come mastino della spending review. Non andò benissimo. Mentre pedala, Perotti racconta che si è appena cimentato in un’impresa da ciclista ardito: ha affrontato il muro di Sormano, una salita leggendaria spaccapolpacci che persino Gino Bartali considerava una sorta di punizione divina. Dice: «Ho pianto, ma l’ho fatta». Domando: che cosa è peggio tra il muro di Sormano e il muro di gomma che la politica alzò di fronte alle sue proposte di tagli alla spesa pubblica? Replica: «Sormano, Sormano. Sono sopravvissuto a quell’anno romano, senza dolore, perché non avevo alcuna illusione». Il professore è un polemista de-ideologizzato. Mena a destra e a manca. Qualche giorno fa, pur non avendo simpatie giallo-verdi, ha scritto un’invettiva su LaVoce.info contro alcune critiche spuntate al Def. Ecco il finale: «Basta formalismi, basta legalese, basta giochi delle parti, basta richiami di comodo ad articoli della Costituzione che purtroppo hanno soltanto confuso il dibattito. Confrontiamoci su numeri e fatti, non su vuote formule legali che ognuno può interpretare come vuole». Perotti in pratica sostiene che è inutile sbraitare di fronte al solo annuncio del deficit al 2,4% per il 2019, come se fosse un irreparabile vulnus della Carta costituzionale; altrimenti ha buon gioco il vice-premier Luigi Di Maio a sventolare le cifre, molto simili, relative alle manovre dei governi Renzi. Una settimana prima, lo stesso Perotti aveva stroncato il Def ipotizzando un imminente frontale dell’Italia con l’Europa.

I numeri e i fatti. Qual è l’elemento di maggior criticità della manovra penta-leghista?

«Una premessa: chiunque pensasse che non avrebbero raggiunto questa percentuale del rapporto deficit/Pil e che non avrebbero inserito subito sia il reddito di cittadinanza sia lo stravolgimento della legge Fornero, viene da Saturno».

Giovanni Tria, ministro dell’Economia, ha lottato invano per mantenere il deficit all’1,6%. Tria viene da Saturno?

«Come tanti accademici sperava di contenere i partiti».

Le criticità.

«La Flat Tax è un disastro. La riforma della legge Fornero tra qualche anno costerà molto più di quanto annunciato…».

E il reddito di cittadinanza?

«Potrebbe diventare sia l’ennesima pioggia di sussidi sia l’avvio di un vero welfare to work. È più probabile il primo esito, visto lo stato attuale dei centri d’impiego che dovrebbero trovare lavoro a milioni di cittadini, soprattutto del Sud Italia. Dei cosiddetti investimenti da portare avanti con le aziende di Stato meglio non parlare. Spesso sono soldi buttati».

Lei ha scritto che in realtà una parte della Lega pensa ancora di uscire dall’Euro e che l’aumento del debito pubblico, causato da manovre come questa, è una scorciatoia per raggiungere lo scopo.

«La Banca Centrale Europea sta per chiudere i rubinetti. Se nessuno compra più il nostro debito perché lo considera insostenibile…».

Lei pensa che sia davvero possibile un’uscita dell’Italia dalla zona Euro?

«Fino a sei mesi fa la consideravo una eventualità remota».

Ora…

«Se questo governo durasse altri tre anni penso che ci sia il 20% di possibilità. Persone come Claudio Borghi e Alberto Bagnai sono anti-euro in modo violentissimo».

Che cosa pensa di loro?

«Li ho conosciuti a un loro convegno anti-euro, organizzato a Pescara. C’era di tutto: leghisti ultra-padani, pentastellati, ex sessantottini col codino. Una galassia decisamente variopinta».

Come mai hanno invitato un bocconiano come lei?

«Perché sono l’unico economista mainstream a non considerarli come fessi. Trovo insopportabile la supponenza, spesso violenta, con cui vengono trattati Borghi e Bagnai dal mondo accademico. Non so chi abbia iniziato, so che a loro volta reagiscono malissimo. Tre anni fa Bagnai ha scritto un tweet contro un collega della Bocconi in cui minacciava di fargli un cappottino di abete».

PEROTTI PEDALA. RACCONTA DI ESSERE uno dei pochi del suo gruppo di amici a non essere passato alla mountain-bike elettrica: «Mi rifiuto, preferisco farmi aspettare, finché avranno pazienza». È anche un appassionato di sci alpinismo. Quando non insegna e non suda su qualche salita, scrive pamphlet con cui cerca di scardinare l’immobilismo italiano. Nel 2008 diede alle stampe L’università truccata, un libro feroce sugli scandali del nostro mondo accademico: «C’era un dipartimento dell’Università di Bari in cui allo stesso piano una famiglia aveva otto cattedre. Un’altra famiglia, sei. Non credo che le cose siano cambiate più di tanto. Gli atenei italiani sono pieni di facoltà scandalose». Domando se lui abbia figli e quali facoltà frequentino. Spiega: «Ho un figlio, si chiama Stefano. Studia alla Cattolica e attualmente è a Lisbona per un semestre di scambio». Pur avendo vissuto molti anni negli Stati Uniti, Perotti è lumbard fino al midollo: infanzia a Crema, dove il padre era radiologo e adolescenza a Como. Ora fa su e giù tra Milano e Lecco. Ha tre fratelli: Giovanni imprenditore, Vittorio manager e Matteo, missionario laico, attualmente nel Sud Sudan. Appena provo a parlare dei migranti africani e delle durezze salviniane, mi spiazza: «Purtroppo il “radicalchicchismo” esiste. Per me è semplice parlare di immigrazione solo in termini positivi, come se fosse solo una risorsa. Io non sono un’anziana signora che vede il proprio quartiere trasformato, in peggio, non sono una giovane madre che ha il figlio con una classe per il 90% composta da stranieri che rischiano di rallentare la didattica, e non sono nemmeno un frequentatore di pronti soccorsi intasati da immigrati. La sinistra ha sempre sottovalutato i sentimenti di queste persone e ha raccontato che il problema non esisteva. Salvini ne ha approfittato». Lei da ragazzo ha mai fatto politica? «Ero adolescente nel 1977».

Un anno rovente.

«O eri di destra o eri di sinistra. Io ero un cane sciolto con alcuni amici nel gruppo del manifesto».

Università?

«Bocconi».

Quando si è laureato?

«Nel 1987».

A ventisei anni? Tardino.

«Sono rimasto un po’ indietro per scrivere la tesi. Il mio professore era Mario Monti. Alla fine è venuto fuori un lavoro di ottocento pagine, ma non ne valeva la pena».

Ha fatto qualche lavoretto mentre studiava a Milano?

«No. Lo ammetto: sono stato mantenuto dai miei genitori. Ho avuto questo privilegio. Una volta laureato superai la prova per specializzarmi negli atenei statunitensi. Andai a Boston, al MIT».

Massachusetts Institute of Technology.

«Il luogo ideale per uno studente. L’impatto fu pazzesco».

Perché?

«In Italia lo studio dell’economia era tutto storico o focalizzato su teorie vecchissime, senza una rilevanza concreta. A me erano toccati cinque esami su Piero Sraffa, un economista teorico di cui negli Stati Uniti conoscevano a malapena l’esistenza. Lo posso dire?».

Che cosa?

«Ma chissenefrega di Sraffa. Al MIT ci si occupava di teorie recenti. E non era centrale imparare quello che avevano scritto gli altri. Venivamo spronati a ragionare con la nostra testa, a confrontarci con i dati e a trovare idee nuove e rilevanti con cui risolvere problemi concreti. E poi l’interazione con i docenti…».

Niente baronie?

«Una ventata di aria fresca. Una delle prime sere che ero lì, il professor Rudiger Dornbusch, che poi divenne il mio mentore, mi portò a cena fuori. Lui era tedesco e mi disse: “La differenza fondamentale tra lo studio dell’economia in Europa e negli Stati Uniti è che qui l’ideologia non esiste”. Dopo il dottorato al MIT, andai alla Columbia University, dove ottenni anche la cattedra a vita».

A New York.

«Ci sono rimasto dieci anni. Sono rientrato in Italia pochi giorni prima dell’11 settembre 2001».

Perché è tornato? Per «restituire qualcosa al suo Paese», come si dice spesso con un po’ di retorica?

«No. Il mio Paese, all’epoca non era molto interessato ai miei servigi. Avevamo un figlio piccolo e con Tissa, mia moglie, dovevamo decidere dove farlo crescere: negli Stati Uniti o con la famiglia allargata».

Parcheggiamo la bici e ci spostiamo nella sua stanza professorale. Il tavolo è ricoperto di carte sparse. Rientrato dagli Stati Uniti Perotti ha insegnato per un paio di anni allo European University Institute di Fiesole («Non una bella esperienza dal punto di vista accademico») e infine è approdato alla Bocconi. Tra il 2014 e il 2015 ha lavorato gratis come consigliere economico di Renzi, per dare una mano a sforbiciare la spesa pubblica.

Un bilancio dell’esperienza a Palazzo Chigi.

«In termini di risultati ottenuti? Zero».

Lei proponeva tagli alla spesa pubblica e non veniva ascoltato?

«Ho raccolto migliaia di pagine di dossier su possibili tagli, ma venivano sistematicamente messe da parte».

Mi può fare un esempio?

«Realizzai uno studio sugli stipendi dei politici e su quelli dei dirigenti statali e regionali, che sono molto alti rispetto ai Paesi europei. Solo lì avremmo potuto risparmiare circa un miliardo e mezzo di euro. Liquidarono l’idea sostenendo che ero rimasto l’unico a parlare ancora di privilegi. La cosa più incredibile accadde con il corpo diplomatico».

Racconti.

«Dopo le mie denunce sugli stipendi dei diplomatici, al ministero degli Esteri idearono un sistema di spacchettamento delle buste paga per rendere incomprensibile l’ammontare finale. Nessuno al governo disse niente. E poi la Rai. Possibile che in Rai un giornalista su cinque sia un dirigente? Dissi che sarebbe bastato un confronto con la Bbc, che viene vista in tutto il mondo, per capire che gli italiani danno troppi denari alla tv di Stato».

Risultato?

«Renzi ha fatto mettere il canone in bolletta e invece di affamare la bestia, l’abbiamo fatta ingrassare ancora di più».

Un altro commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, nel maggio scorso è salito al Quirinale per prendere l’incarico da presidente del Consiglio. Se Mattarella avesse chiamato lei?

«Avrei cortesemente declinato l’invito. Soprattutto per evitare di apparire come il tecnocrate bocconiano, che deruba gli italiani del loro voto».

Se la chiamassero Salvini e Di Maio per chiederle i faldoni e i dossier della sua spending review, glieli concederebbe?

«Tappandomi il naso per fare gli interessi degli italiani? I dossier sì, senza problemi. Ma non lavorerei per loro. Avrei l’impressione di un triplo inciampo: spendermi gratis, per qualcuno di cui non condivido le idee, sapendo che tanto alla fine non si concluderebbe nulla. Meglio di no».

Le hanno mai chiesto di fare il ministro dell’Economia?

«Mai».

Lo farebbe?

«Con una coalizione di cui mi fido, sì. Per fare la fine di Tria, decisamente no».

Categorie : interviste
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