Fabri Fibra (Doppio Binario – 7 – Maggio 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della sera il 24 maggio 2018)

ARRIVA CON PASSO MOLLEGGIATO, felpa grigia e cappello da baseball d’ordinanza. È Fabri Fibra. Comunicatore spericolato e abile tessitore di provocazioni sopra le righe. Nella scena italiana è il rapper che ha scritto e cantato le rime più sguaiatamente volgari e quelle più scandalosamente ruvide. Nel pezzo Pamplona del 2017 scandisce «Su nel cielo, guarda, volano missili/Fuori fighe da sfilate Intimissimi». Negli anni è stato accusato di misoginia e di omofobia. Chiosa: «Una follia». Si è evoluto album dopo album, rima dopo rima, anche perché è la natura stessa del genere: il rapper è legato a doppio filo con il momento in cui canta. Si rappa l’attimo. Fibra, 41 anni, al secolo Fabrizio Tarducci, come molti colleghi rapper è anche un osservatore anarchico di costumi italici e un fustigatore di vizi. Tra gli oggetti più frequenti delle sue invettive, oltre ai suoi detrattori, ci sono: la tv, la smania di apparire e la ricerca del successo facile. Dice: «La tv oggi è il male». E ancora: «Un tempo c’era Happy days e quello che piaceva alle ragazze era Fonzie, un meccanico che si faceva un gran culo in officina, ora c’è Uomini e donne, dove i protagonisti non sanno fare un cazzo». Fibra, da artista, usa i media in modo spregiudicato. Qualche anno fa scrisse una stroncatura del suo stesso album su un mensile musicale firmandolo con uno pseudonimo. E spesso nel lanciare un nuovo disco o un nuovo tour piega la vis polemica e la sua biografia alle esigenze del mercato. Il vero e il verosimile si confondono come in un romanzo di Bret Easton Ellis. Ci diamo del tu. Domando: «Almeno una cosa sincera oggi me la dirai?». Si apre in un sorriso quasi bambinesco. Malgrado le origini marchigiane, Fibra ha una forte cadenza lombarda. Il Doppio Binario si svolge nel suo studio/palestra, nella zona ovest di Milano, tra pareti d’alluminio, tapis roulant e bilancieri. Corre, circondato dagli specchi. La stanza è illuminata di rosso, come una vecchia camera oscura. Sta preparando, anche fisicamente, il Le vacanze Tour, che si aprirà il 30 giugno, e con cui lancerà l’edizione Masterchef dell’ultimo album Fenomeno, quello che contiene le super hit Pamplona e Stavo pensando a te. Tra i nuovi pezzi, per non smentire la nomea, ce ne è uno che si intitola CVDM, elegante acronimo che sta per «Cazzo vuoi da me?». Fibra gioca a fare il Capitan Cattivo della musica italiana: sa che per farsi notare bisogna alzare il tiro, sconvolgere, sedurre. Lo ha fatto per anni. L’uomo nel mirino, pezzo del 2004, ha come refrain «Se non mi ammazzo/ è grazie al cazzo». Sostiene di odiare le ipocrisie. A partire da quella della mamma che lo costringeva a fare buon viso di fronte al cattivo gioco che si svolgeva tra le mura familiari. E così nell’ultimo disco c’è anche un attacco frontale contro sua madre: in Ringrazio canta «Mia madre mi ha rovinato la vita» e accenna alle botte prese e alle cattiverie subite.

Ringrazio ricorda un po’ Cleanin’ out my closet di Eminem.

«È una canzone troppo forte per il mercato italiano. Dà sensazioni claustrofobiche, ma funziona. Non l’ho cercata, è venuta fuori così alla prima registrazione».

A RollingStone hai detto: «Bisogna essere infelici e avere guai per scrivere».

«Soprattutto la musica. La musica arriva davvero quando in famiglia c’è un vuoto».

Teoria ardita.

«Se hai una famiglia felice, a posto, vivi la musica superficialmente. È il contorno di qualcosa che funziona. Se c’è un buco, o una crepa, invece, le storie vissute con la musica ti aiuteranno a riempire il vuoto, anche raccontando a tua volta te stesso».

Famiglie. In Stavo pensando a te descrivi una scena di sesso ubriaco e canti «…E poi nemmeno penso d’esser sobrio/E poi un figlio non lo voglio proprio». Hai passato i quaranta, davvero non vuoi figli?

«Ma no, lì mi riferisco a un periodo della mia vita in cui andavo a letto con le tipe, a vent’anni, e non volevo impegni. Adesso con la mia ragazza, un domani, che ne so, avremo un figlio».

Avevo letto che Stavo pensando a te parla proprio della fine del rapporto con la tua fidanzata.

«In realtà, no. E lei ha sofferto abbastanza quando è circolata questa voce. Quella è la favola che devi raccontare all’ascoltatore perché ormai la sceneggiatura è imbastita. La gente deve credere nella canzone. In quel pezzo, poi, ci sono più gradi di coscienza: il ritornello è quasi romantico, ma poi io elenco situazioni brutte, anche perché se avessi scritto un pezzo tutto romantico sarei stato Jovanotti. E Jovanotti c’è già».

Fare quello che non c’è, evolversi, è una piccola ossessione di Fibra. C’è un pezzo, Il tempo vola, con una metrica che lascia il fiatone, in cui lui elenca tutti i Fabri Fibra che non è più «Non sono più quello di Turbe Giovanili/Non sono più quello di Mr. Simpatia…» Mentre parliamo, seduti a un lungo tavolo di legno chiaro, mi mostra il suo telefono. Ci sono dei video in cui lui prova alcune basi per il prossimo disco e c’è una raccolta di pezzi suonati da Dj di tutto il mondo sconosciuti in Italia: «Ascolto tutto, poi quel che attira la mia attenzione lo parcheggio nella testa». Fibra ne approfitta per avventurarsi in una critica purista della scena rap («Si pensa troppo alla moda») e in una stroncatura dei locali italiani: «Quando entro in una discoteca cerco subito la palla fatta con gli specchietti. Se la trovo vuol dire che i fasti del locale risalgono agli Anni 80 e che quindi il povero Dj e il rapper si esibiranno tra microfoni malfunzionanti e impianti stereo zoppicanti. Negli Stati Uniti si fa musica in locali che ti esaltano e ti permettono di evolverti, qui se hai un’ambizione artistica te la fanno passare. Sembra che l’unica via sia quella, facile, di infilarsi nel meccanismo “mi faccio notare, pago la pubblicità, finisco in un talent”. E così anche i rapper aspirano ad andare da Paolo Bonolis o all’Eredità per recitare due battute, invece di faticare nei locali».

È vero che ti hanno proposto di fare il giudice in più di un talent?

«Sì. Mi sono sempre rifiutato. Ma penso che i miei colleghi siano bravissimi se riescono a tapparsi così il naso».

Bravissimi? Di Fedez, Fabri Fibra ha detto che «prende soldi dai vecchi della tv» perché «in ogni circo serve una scimmia che balla». La sua avversione ai talent è arcinota. Dice: «Ormai ci convivo. La musica in tv oggi è fatta dai talent, da Sanremo… Luoghi frequentati da concorrenti che spesso non muovono alcun tipo di pubblico. Le trasmissioni di musica in tv dovrebbero essere realizzate da chi vive e ha vissuto di musica».

In tv bisogna fare ascolti, share.

«E certo. Poi per giustificare lo spettacolo spunta sempre qualcuno che dice: “Gli italiani hanno tanti problemi e quando tornano a casa non vogliono pensare”. E non pensare oggi, non pensare domani, poi cresci un figlio che non pensa ed è finita. Tutti ipnotizzati».

L’antidoto di Fibra alla lobotomia catodica?

«Credo che i ragazzi ascoltino il rap proprio perché noi cerchiamo di raccontare qualcosa di vero delle loro vite. Lo spirito critico non gli viene di sicuro guardando Barbara D’Urso».

Ascoltando te rischiano di diventare bulli? Sei stato accusato di omofobia e di fallocentrismo.

«Il gioco è questo: io non posso tollerare che in tv Alessandra Mussolini dica a Vladimir Luxuria “Meglio fascista che frocio!”. È una cosa inconcepibile negli altri Paesi…».

Ottimo. Perché non dirlo così in una canzone?

«Perché non mi cacherebbe nessuno. C’è già chi dice queste cose. Se voglio farmi ascoltare io devo alzare la posta».

E quindi spari rime contro i gay?

«Provoco una reazione».

Rischi di non essere compreso. E di creare altri omofobi.

«Se facessi sul serio, visto il contesto malandato, non cambierebbe molto. Ma chi capisce che scherzo accoglie la provocazione e reagisce. Io sono stato spinto spesso a dire cose molto forti per avere una voce e un ruolo nel mercato».

I tuoi dischi sono anche pieni di droga, spesso leggera, ma pur sempre droga. Nell’ultimo c’è anche un contributo di Roberto Saviano che spiega che la droga è gestita dalle mafie, che le mafie distruggono la democrazia e che quindi è bene legalizzare le droghe leggere. Nel frattempo, però, chi compra droga finanzia le mafie.

«Il contatto milanese che la fornisce a me sostiene che l’erba venga da coltivazioni meneghine in appartamento».

Ci credi?

«È quello che mi racconta. Che ne so?».

Fibra dice che in realtà nei suoi testi non si parla dell’erba come di una figata, ma come di una cosa che lui subisce. Una sorta di antidoto alla vita che fai quando hai successo. Gli domando se abbia un gruppo grande di amici, un famiglione, che lo difende dalle insidie della notorietà. Replica che sono le persone con cui lavora: «Quando mi chiedono se la fama è brutta…».

Che cosa rispondi?

«Che non è brutta. È brutto che tutti ti rompano i coglioni. Tutti chiedono qualcosa: i passanti una foto mentre stai mangiando al ristorante, gli amici un prestito, le fighe quel che puoi immaginare… Dopo un po’ smetti di avere rapporti umani normali».

Fibra si accende una sigaretta e con garbo si accosta a una finestra dello studio seminterrato. Comincia a raccontare le sue aspirazioni giovanili da grafico, il lavoro in fabbrica, quello per una cooperativa sociale a Pesaro, i primi freestyler ascoltati nei centri sociali bolognesi.

Come ti sei avvicinato al rap?

«Facevo graffiti in giro per Senigallia. La gente mi fermava per strada e mi diceva “Pensi di essere a New York?”. Giravo in skate. Un giorno ho visto il video di Frankie Hi NRG Fight da faida. Te lo ricordi? Padre contro figlio…».

«…Fratello su fratello, partoriti in un lavello come carne da macello…».

«Fu un’illuminazione, si accese un fuoco. Andavamo in giro cantando sulla base strumentale… Basta una busta nella tasca giusta/in quest’Italia così laida, you gotta fight da faida… Mi sentivo rivoluzionario».

Il rap ti ha arricchito economicamente?

«Per lo Stato italiano sono ricco. Pago circa il 46% di tasse».

È vero che i soldi sono arrivati al terzo album insieme al primo contratto con la Universal?

«No. Ho cominciato a stare bene con il secondo contratto Universal. Col primo, si sa, diventi famoso, ma resti povero».

Quando hai capito che avresti campato con il rap?

«Quando sono fallite le altre opzioni. Il rap era decisamente il piano B».

Categorie : interviste
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