Claudio Martelli (7 – Gennaio 2020)
0 commenti(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 24 gennaio 2020)
Claudio Martelli è stato il numero due del Psi travolto da Tangentopoli, vice premier di Giulio Andreotti e ministro della Giustizia molto vicino a Giovanni Falcone. Nella piccola guerra civile che divide gli italiani tra chi rimpiange Bettino Craxi come uno statista costretto all’esilio e chi lo considera un delinquente morto latitante, lui appartiene ovviamente alla prima categoria. Ha appena scritto un libro (L’antipatico, Nave di Teseo) per ribadire i meriti craxiani e per denunciare la coalizione di poteri che si adoperò per plasmare il mito nero del leader socialista e per favorirne la caduta. L’intervista si svolge nel suo appartamento romano. Il citofono non funziona e Martelli è costretto a scendere quattro piani per aprire il portone. Si accende un piccolo dibattito sulla totale assenza di manutenzione che avvolge la Capitale e sulle differenze con Milano, dove lui è nato e cresciuto, e dove vive metà della settimana. Lo sfogo prosegue sulla politica di oggi: ministri incompetenti, aggressioni sui social-network, nessuna riflessione o visione di lungo periodo: «Si salva poco».
Che cosa si salva?
«Situazioni come quella dell’attuale Pd milanese, dove è nato un gruppo di giovani
che non ha nulla a che fare con la storia del PSI, del PCI o della DC. E poi
Beppe Sala. È bravo».
Nel Pd milanese c’è anche la sua compagna,
la deputata Lia Quartapelle. Avete quasi quarant’anni di differenza.
«Eheh, che ci posso fare? Succede, quando uno ne ha settantasei come me».
Come e quando vi siete conosciuti?
«Un paio di anni fa, a Milano, alla presentazione di Revolution il libro autobiografico di Emmanuel Macron».
È vero che le è capitato di darle una mano
nella stesura di un discorso parlamentare sui migranti?
«È una balla. Un falso. Non ne ha proprio bisogno».
Parliamo dei leader negli anni del “Si
salva poco”. Il premier Giuseppe Conte…
«Abile nelle mosse e nel gioco tattico. Certo, in campo internazionale il
difetto di leadership fa paura».
Il ministro degli Esteri è Luigi Di Maio.
«Non si impara in un giorno a guidare la diplomazia italiana. Tra l’altro,
grazie al populismo del signor Di Maio e dei suoi urlatori, la mia pensione da
parlamentare è stata tagliata del 57,9%: ridotta a duemiladuecento euro. In
politica l’onestà consiste nella capacità. E di capaci se ne vedono davvero
pochi».
Il nome di un capace?
«Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia. La sua esperienza nel Parlamento
europeo lo ha reso di sicuro competente. Però mi chiedo se sia chiaro un punto
che Craxi aveva evidenziato già nel 1993: il trattato di Maastricht va
rinegoziato».
Nel suo ultimo libro lei sostiene che gli
ex comunisti italiani si siano consegnati all’europeismo liberista.
«È così. Complice l’ubriacatura per la Terza via blairiana, la sinistra
italiana di governo ha abbracciato un riformismo puramente liberale e una
costruzione dell’Europa che difetta in solidarietà sociale. Il Pd si è fatto establishment.
Identificandosi principalmente con l’Unione europea e dimenticando la nazione,
i democratici hanno spalancato un’autostrada elettorale a Matteo Salvini».
Discute mai della linea euro-lib del Pd
con Quartapelle?
«È un continuo. Viviamo insieme!».
Voterà Pd per quiete domestica?
«Non lo so. Dipende da che cosa proporrà il Pd».
Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti…
«Se la sua idea di rinnovamento della sinistra è un ritorno alla Ditta, ci
saranno sorprese amare. Lui non è un leader, è il segretario, l’amministratore.
Il Pd è la scuola dei bravi amministratori emiliani. Zingaretti ha frequentato
la versione romana, con alle spalle il genio oscuro di Goffredo Bettini».
Bettini è stato per anni il dominus dei dem capitolini.
«Sono andato una volta a trovarlo, a casa della madre. Era scalzo. Mi sembrava di essere tornato in India, quando durante un lungo viaggio mi portarono a trovare un guru che se ne stava stravaccato su un divano».
A quando risale questo viaggio in India?
«Al 1994, quando è crollato tutto. Ci sono rimasto tre mesi. Sono anche andato
a trovare Madre Teresa di Calcutta. Mi fece sedere accanto a lei e la prima
cosa che mi disse fu: “Come sta il mio amico Giulio Andreotti?”. Poi mi fissò e
chiese: “And you? Why are you so unhappy?”. Le spiegai che era crollata la
Prima Repubblica e che ero sotto processo. Lei scosse la testa e insistette:
“Perché sei così infelice? Dimmi, hai mai ucciso qualcuno?”. Replicai che
ovviamente non avevo mai tolto la vita a nessuno. E lei, più insistente: “Hai
mai spinto la tua compagna ad abortire?”. A quel punto capii che era meglio
interrompere il colloquio».
Perché?
«Avevo già tanti guai, non volevo subire pure un’invettiva perché da ragazzo
una mia fidanzatina era ricorsa all’aborto. Quando io avevo diciannove anni non
si faceva tanta prevenzione».
Martelli si accende un sigaro. Lo invito a
un piccolo Amarcord sugli esordi giovanili in politica. Il primo incontro con
Craxi…
«Non avevo ancora vent’anni, frequentavo i giovani repubblicani. Ero in piazza
Cavour, a Milano, con Antonio Del Pennino…».
Esponente storico del PRI milanese.
«Aspettavamo sotto il palazzo dei Giornali i risultati elettorali delle
elezioni politiche del 1963. Si avvicinò questo signore alto, calvo. Era Craxi.
Del Pennino me lo presentò e lui cominciò a farmi molte domande: studi, romanzi
preferiti… Alla fine sentenziò: “Hai letto troppo Cesare Pavese e troppo poco
Gian Burrasca”».
Lei è stato per molti anni il delfino di
Craxi.
«Dal 1976, anno in cui Bettino diventò segretario, al 1983, quando arrivò alla
presidenza del Consiglio, abbiamo vissuto sette anni a Roma in simbiosi
mutualistica».
Tra di voi ci sono stati anche momenti di forte
contrapposizione.
«Decisamente. Nel 1986, quando mi impegnai per i referendum sulla giustizia e
provai ad allineare il Psi su posizioni anti-nucleariste, Bettino mi mandò a
dire, tramite Cornelio Brandini, che la mia testa era già tagliata e che se avessi
fatto un passo in più sarebbe rotolata. Poi nel 1987…».
«NON CONTRASTAI BETTINO QUANDO DISSE CHE
VOLEVA
ANDARE A HAMMAMET. CAPIVO CHE ERA UN ERRORE
MA STAVA MALE E SAPEVO CHE SE FOSSE RIMASTO IN ITALIA LO AVREBBERO MASSACRATO.
L’ULTIMA VOLTA CHE GLI
PARLAI ERA LA VIGILIA DI NATALE DEL 1999: ERA STANCO»
Che cosa accadde?
«Era caduto il governo Craxi e io ero andato a trattare il sostegno del Psi a
un governo Andreotti. Andreotti nel suo studio di Montecitorio ci promise, tra
le altre cose, una forte apertura al presidenzialismo. Tornai entusiasta in via
del Corso…».
Sede storica del Psi.
«… Ma Craxi respinse l’accordo fulminandomi: “Non ti immischiare”. Da parte
sua fu un errore clamoroso. L’incarico venne dato ad Amintore Fanfani e dopo
due mesi si andò a elezioni. La tragica verità è che dal 1987 in poi Craxi non
ne ha più azzeccata una».
Lei ha raccontato una conversazione a tre, con Craxi e Marco Pannella, in Transatlantico, durante la quale il leader radicale sconsigliò a Craxi di partire per la Tunisia.
«Io invece non lo contrastai. Capivo che era un errore, ma Bettino stava male e sapevo che se fosse rimasto in Italia lo avrebbero massacrato».
È mai stato a Hammamet sulla tomba di
Craxi?
«Sono corso a Hammamet il giorno della sua morte. Ho visto la scena
insopportabile del suo corpo rannicchiato in una bara troppo piccola. E poi ci sono
tornato negli anni successivi, anche con il mio figlio più grande, Giacomo.
Craxi ci giocava quando era bambino. E mi ha chiesto di lui pure durante la
nostra ultima conversazione».
Quando vi siete parlati per l’ultima
volta?
«Una telefonata alla vigilia del Natale 1999. Era molto stanco. Gli dissi che
sarei andato presto a trovarlo e lui mi chiese di aspettare perché si era
operato da poco. Morì qualche settimana dopo».