Sergio Cofferati (7 – Settembre 2019)
0 commenti(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 6 settembre 2019)
Lui lo nega, ma c’è stato un momento in cui l’allora consistente popolo della sinistra guardava la sua barba come quella di un re taumaturgo, capace di risollevare le sorti del centrosinistra. Era il 2002. Nanni Moretti, riferendosi ai leader ulivisti, tuonava: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Sergio Cofferati, da segretario generale della Cgil, poche settimane dopo portò al Circo Massimo una marea di militanti. La leggenda narra che fossero tre milioni. Quando gli chiedo un ricordo di quel giorno, replica sornione: «Che cosa è successo al Circo Massimo?». In seguito Cofferati è stato sindaco di Bologna ed europarlamentare dem, per due mandati.
Ora che cosa fa?
«Niente».
Niente?
«Il lavoro a Strasburgo è finito a luglio. Al momento mi occupo di Edoardo, il mio secondo figlio».
Avuto nel 2007 da Raffaella Rocca, la sua seconda moglie.
«Il primo, Simone, ha quarantasette anni, conosce sei lingue e vive a Monaco di Baviera. Si arrangia da solo».
Lei è uscito dal Pd nel 2015, in polemica con la candidatura della renziana Raffaella Paita alla presidenza della Regione Liguria, vincitrice di primarie molto discusse. Ora che il Pd vive il nuovo corso zingarettiano è pronto a rientrare?
«No. Dopo l’uscita dal Pd ho partecipato alla nascita di Sinistra italiana, una forza politica che oggi è quasi ininfluente. Ora la sinistra ha bisogno di una rappresentanza che abbia un programma e una coerenza nel gestire le sue proposte».
Il Partito Democratico…
«Non è più un partito di sinistra».
Neanche con Zingaretti segretario?
«Non vedo ancora nei programmi del Pd grandi elementi di novità. Ci sono molte persone in quel partito che difendono il Jobs Act con determinazione: parliamo di provvedimenti che non hanno nulla a che spartire con una cultura di sinistra. Credo che sia giunto il momento di un cambiamento sul versante della rappresentanza».
Traduciamo.
«Sui diritti individuali e collettivi, gli ultimi governi hanno cancellato molte conquiste della sinistra storica. Si è perso il rapporto con una parte importante di popolazione. Ora dovrebbe nascere una nuova forza politica rosso-verde: difesa dell’ambiente e delle condizioni sociali vanno di pari passo. Per esempio: serve qualcuno che cominci a pensare che tra poco i robot sostituiranno le persone in molte attività».
Gianroberto Casaleggio aveva immaginato il reddito di cittadinanza pentastellato anche per questo motivo.
«Quota 100 e Reddito di cittadinanza affrontano in maniera sbagliata due problemi veri. Lega e M5S stanno illudendo chi li ha votati, ma almeno loro si sono mossi. Chi era prima al governo non ha fatto alcunché».
Salvini ha convocato al ministero dell’Interno le parti sociali.
«Fantascienza».
Lo dice da lettore appassionato di Philip Dick.
«Quella di Dick è fantascienza bella. Con Salvini resta solo una trama angosciante».
È pronto a sbarcare di nuovo nell’agone politico per aiutare la sinistra a sconfiggere Salvini?
«Ho rifiutato una candidatura alle scorse Europee perché credo che il rinnovamento vada praticato, e non solo predicato. Dopodiché bisogna mettere a disposizione la propria esperienza, senza pretendere ruoli primari. Ci vuole generosità. Non ne vedo tanta in giro».
Lei, tra sindacato e politica, ha già partecipato a una cinquantina di anni di vita pubblica. Facciamo il gioco delle decadi: un’immagine per ogni decennio vissuto. Da zero a dieci.
«La mia infanzia a Sesto ed Uniti, cittadina del cremonese, tra l’osteria di nonno e il mulino dove sono nato. L’arrivo del mosto nei tini per me, bimbo spettatore, era un appuntamento imperdibile».
Dai dieci ai venti anni.
«Il trasferimento a Milano…».
Con la militanza nel Movimento Studentesco di Mario Capanna.
«Ero nella Squadra Cinque, che si occupava della zona NiguardaBicocca. Da giovane estremista feci anche il militare nell’artiglieria contraerea».
Un controsenso.
«Ci fu una falla nel sistema. L’esercito, prima di arruolarmi, mandò i Carabinieri a casa mia per chiedere informazioni. E la portinaia gli raccontò un sacco di bugie».
Venti-trenta.
«Il mio secondo giorno alla Pirelli, stabilimento cavi. Era il 10 giugno 1969. Fu anche il mio primo giorno di sciopero».
Lei era cottimista, in pratica controllava la produttività di chi lavorava alle macchine.
«Ha presente il film di Elio Petri La classe operaia va in Paradiso? A un certo punto Gian Maria Volonté esce da un capannone tenendo per un orecchio un ragazzo con il camice bianco e dice: “Cheschì è un sanguisuga”. Ecco, io facevo il mestiere del sanguisuga. Poco dopo sono entrato nel consiglio di fabbrica della Bicocca».
È vero che durante il suo primo intervento pubblico inciampò?
«Non in senso metaforico. Congresso della Cgil del 1973, mentre mi avvicinavo al palco inciampai e tirai giù tutto l’arredo floreale. Luciano Lama scoppiò a ridere».
Dai trenta ai quaranta.
«L’immagine è affollata. A Brindisi, stabilimenti Montedison. Io facevo parte della segreteria del sindacato dei chimici. Ci fu una vertenza durissima e all’incontro parteciparono duemila operai con le loro famiglie. Strappato l’accordo venne giù il mondo».
Quaranta-cinquanta.
«1992-1993. L’Italia era messa malissimo, come la Grecia di qualche anno fa. Io avevo la responsabilità dei settori produttivi della Cgil. L’immagine di quegli anni sono i tavoli a Palazzo Chigi con Ciampi, persona straordinaria».
Lei nel 1994 divenne Segretario Generale della Cgil.
«In quegli anni, anche nella sinistra di governo, si seguiva la linea blairiana che puntava sulla riduzione dei costi e dei diritti. Io preferivo l’idea di Jacques Delors secondo cui il cuore del modello produttivo doveva essere la conoscenza e non il costo».
Ebbe uno scontro durissimo con Massimo D’Alema.
«Durante il congresso del Pds del 1997, Walter Veltroni, che era vicepremier, criticò la Cgil accusandola di avere poco coraggio. Io replicai. E D’Alema, segretario del partito mi attaccò nelle conclusioni. Malgrado l’asprezza del confronto, tra noi non ci fu mai neanche un insulto. Ecco, oggi la sinistra dovrebbe ripartire anche dal linguaggio e dal rispetto della persona».
Dai cinquanta ai sessanta, l’immagine è scontata: lei, soprannominato il Cinese, sul palco del Circo Massimo. Ora lo può dire: perché allora non puntò apertamente alla leadership del centrosinistra?
«Quell’ipotesi non c’è mai stata. Avevo il supporto di molte persone, ma ero un sindacalista e pensavo che l’ingresso in politica dovesse passare attraverso un turno elettorale. Nel 2001 avevo rifiutato di fare il candidato della mozione che poi propose come segretario la bellissima figura di Giovanni Berlinguer».
Ultimo decennio.
«L’Europarlamento. Un punto di osservazione importante. Mi dispiace di non aver potuto fare più cose nel secondo mandato».
Che cosa glielo ha impedito?
«Mi sono frantumato una spalla cadendo per strada. Rotta in diciannove pezzi. Poi ho avuto un problema cardiaco».
Lei è padre settantunenne di un pre-adolescente.
«Mentre ero a Strasburgo la lontananza è stata colmata dalla tecnologia. E poi ci sono sempre stati dei fine settimana molto intensi».
Intendevo: a settantuno anni sarà complicato star dietro a un undicenne.
«Ho anche qualche problema alle ginocchia».
Suo figlio Edoardo che sport pratica?
«Tennis».
Giocate insieme?
«No, no… lo guardo».