Peppe Provenzano (7 – Settembre 2019)
0 commenti(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 27 settembre 2019)
Saluta: «Ciao, sono Peppe». Poi srotola la sfilza di nomi che la madre gli ha affibbiato alla nascita: «Giuseppe, come mio nonno. Luciano, per omaggiare Santa Lucia protettrice degli occhi, dato che mio padre fabbro, li aveva spesso infuocati con le scintille delle saldature. E Calogero, il santo nero. Perché sono nato con l’ittero e mamma sperava che prendessi presto colore». Peppe Provenzano, trentasette anni, neo ministro per il Sud e la coesione territoriale, rappresenta l’ala più gauchista del Pd nel governo giallo-rosso. Mentre parliamo spuntano varie definizioni di quel che dovrebbe essere secondo lui la sinistra. La prima è pre-politica: «Lo spirito di contraddizione di fronte a qualcosa che non va». Poi quella palingenetica: «L’alternativa a un modello di sviluppo che non solo rischia di compromettere la sorte del pianeta, ma che sta generando anche risentimento sociale e infelicità».
Provenzano è alfiere del Green New Deal. Vive a Roma con la compagna Valentina e ha due figli, Giovanni di 5 anni e mezzo e Caterina di 21 mesi. È responsabile del Lavoro nella segreteria del Pd zingarettiano ed è stato vicedirettore dello Svimez. Da un breve esamino “de sinistra” emerge che il ministro è favorevole ai matrimoni tra le coppie gay, alla liberalizzazione delle droghe leggere («Come battaglia per la legalità e contro le organizzazioni criminali») e non usa le app “sfrutta rider” per la consegna a domicilio di cibi e beni assortiti perché spesso violano i diritti fondamentali dei lavoratori. L’intervista si svolge il giorno della scissione renziana dal Pd.
Teme per la tenuta del governo?
«No. Mi preoccupa che c’è molto da fare. Avevamo iniziato a concentrarci sui
problemi del Paese e ora la discussione rischia di diventare tutta
autoreferenziale».
Lei e Renzi…
«Con lui segretario sono sempre stato nella minoranza».
Nel 2017 ha avuto la tentazione di uscire
dal Pd insieme con Pierluigi Bersani e Roberto Speranza?
«No. Il momento in cui sono stato più vicino ad andar via è stato quello
dell’approvazione del Jobs Act. Ne contesto soprattutto il valore simbolico, la
carica ideologica di una riforma concepita contro il sindacato».
Al referendum renziano sulla riforma
costituzionale del 2016 che cosa votò?
«No. E non perché la considerassi una riforma autoritaria, era semplicemente
una riforma confusionaria».
Da chi ha ricevuto la notizia che era
diventato ministro?
«Dalla voce del premier Conte: ero davanti alla tv con mia figlia Caterina e
con mia madre. Come un bel pezzo del gruppo dirigente del Pd, ho avuto molte
perplessità sull’avvio di questa esperienza».
Perché?
«Sono consapevole dei rischi che avrebbe determinato andare a elezioni, ma
credo che ci fosse bisogno di più tempo per portare avanti il processo di
cambiamento del Pd».
Come deve cambiare il Pd?
«Non più il partito che dal centro irradia tutti con la sua ideologia, ma il
partito che raggiunge sui territori il protagonismo sociale di sinistra per
tirare le fila di un’idea di società in cui ci si può riconoscere».
Il contrario della cosiddetta
disintermediazione tra il leader e il popolo.
«La disintermediazione è la morte della democrazia».
Lei quando ha cominciato a occuparsi di
politica?
«Il primo sentimento politico l’ho avvertito con la strage di Capaci, nel 1992.
Le maestre inserirono nella recita di fine anno l’uccisione di Giovanni
Falcone. Crescere sotto le bombe di mafia ti segna. Il primo sciopero l’ho
organizzato alle medie: la lotta per i termosifoni contro mio zio sindaco. Poi
al liceo venni eletto al Consiglio d’Istituto in rappresentanza dei fuori sede.
Venivamo dai paesini e non era facile raggiungere Caltanissetta».
Il suo paesino…
«Milena. Dicono che non c’è nulla e invece c’è tutto. Ho trascorso l’adolescenza
immaginando come poter fuggire da lì e gli anni dopo l’università a pensare
come poter tornare. È un tema forte anche della mia azione di governo: la cura
delle periferie e delle aree interne abbandonate, la lotta contro l’emigrazione
dei nostri giovani: c’è una mancanza strutturale di occasioni di lavoro
qualificato. Servono investimenti concreti».
Lei ha frequentato l’Università a Pisa,
Istituto Sant’Anna.
«Mi iscrissi nell’estate del 2001. Ero partito di nascosto per raggiungere il
G8 di Genova…».
Di nascosto?
«Mai far preoccupare la mamma. Non ci fecero entrare in città. Con mio fratello
passammo da Pisa e ci iscrivemmo. L’11 settembre ci fu la prova scritta: quando
uscii oltre che la mia vita era cambiato il mondo».
La prima tessera di un partito?
«A Pisa con i Ds. Durante gli studi ho cominciato a collaborare con l’Unità di
Concita De Gregorio e con le Ragioni del socialismo …».
La rivista fondata da Emanuele Macaluso,
storico dirigente del Pci. Lei è considerato orlandiano, cioè vicino al vice segretario
del Pd Andrea Orlando.
«Sono stato nella minoranza Pd prima con Gianni Cuperlo e poi con Orlando. Con
lui ho lavorato anche quando era ministro. La vera accelerazione del mio
percorso politico, però, è avvenuta con le elezioni del marzo 2018».
Rinunciò alla candidatura perché la
capolista del Pd era Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Dc-Pd,
Salvatore.
«Una scelta obbligata per chiunque si batta da sempre contro il familismo e il
trasformismo. Il mio “preferirei di no” non era una rinuncia, ma una scelta di
lotta. Non vorrei che venisse frainteso come è successo con Bartleby lo
scrivano di Herman Melville».
Ministro studioso e citante. Le sue
letture da ragazzo?
«Ho scoperto il mondo leggendo Leonardo Sciascia».
Un titolo?
«Morte dell’Inquisitore. Con l’eretico sociale Diego La Matina che alla fine ammazza il suo inquisitore».
Un bel finale?
«Beh, dai, l’Inquisizione! Credo sia giusto ribellarsi».