Gianni Cuperlo (7 – Ottobre 2019)
0 commenti(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 25 ottobre 2019)
Gianni Cuperlo sta lavorando alla Costituente delle idee del partito democratico zingarettiano, che si terrà a Bologna a metà novembre. Nella storia trentennale che ha portato il Pci a trasformarsi in Pds e poi in Ds e poi in Pd, lui c’è sempre stato. Candidato segretario Dem, responsabile della comunicazione dei Ds fassiniani e ghost writer di Massimo D’Alema. Nel 1997 fu sua l’idea di piazzare al terzo anello del palazzetto dello sport dell’Eur, dove si teneva il congresso del partito, una citazione a caratteri cubitali del poeta boemo Rainer Maria Rilke: «Il futuro entra in noi molto prima che accada». Il 9 novembre 1989, quando cadde il Muro di Berlino, aveva ventotto anni ed era il leader della Federazione dei giovani comunisti italiani, la Fgci. Cuperlo: «In quell’organizzazione, tra gli altri, all’epoca militavano Nicola Zingaretti, che era il segretario dei giovani romani, Roberto Gualtieri, attuale ministro dell’Economia, e Stefano Fassina. Si viveva in una sorta di comunità permanente, insieme dalla mattina presto alla notte». Cuperlo aveva la sua stanza da segretario dei comunisti junior al primo piano della sede storica del Pci in via delle Botteghe Oscure. Sul muro la foto di Enrico Berlinguer che l’Unità pubblicò il giorno dopo la sua morte.
Che cos’è stato per lei il 1989?
«Ci sono date spartiacque. Ci sono quelle del calendario privato, quando ti
nasce un figlio o quando perdi un amico. Ci sono quelle del calendario civile
che possono cambiare il destino di una città, di una generazione o di una
nazione. Il 2 agosto 1980 per i bolognesi o l’11 settembre 2001 per gli
americani. Poi esistono date che cambiano il corso della storia. Sono più rare,
però esistono. Il 9 novembre 1989 è una di quelle: c’era un mondo di prima e,
dal giorno successivo, un mondo del dopo. Per noi, giovani comunisti, quel
momento ha un antefatto».
Quale?
«La rivolta di Tienanmen e la repressione brutale da parte del governo cinese.
Un passaggio che influì molto, anche emotivamente, sul clima di quei mesi».
Giugno 1989.
«Andammo sotto l’ambasciata cinese di via Bruxelles per protestare. A luglio
partecipammo con una foltissima delegazione all’ultimo festival della Gioventù
Democratica, a Pyongyang, in Corea del Nord. Viaggio con aerei sovietici e
coreografie olimpiche al cospetto di Kim Il-sung. Quando toccò a noi italiani
sfilare, sfoggiammo una fascetta sulla fronte e una maglietta per ricordare la
protesta degli studenti cinesi. Eravamo una generazione che non aveva veramente
nulla da spartire con l’Unione Sovietica e i miti che avevano caratterizzato la
generazione precedente alla nostra».
Lei era mai stato oltre la “cortina di
ferro”?
«Sì, certo. Ero stato a Mosca per incontrare il mio omologo, cioè il segretario
del Komsomol. E ho attraversato il Checkpoint Charlie berlinese pochi giorni
prima che crollasse il Muro».
Perché era a Berlino?
«C’erano dimostrazioni affollate in favore della libertà di stampa. Chiedemmo
di incontrare i dirigenti dell’organizzazione giovanile della Repubblica
Democratica Tedesca: volevamo capire la percezione che avevano loro di quelle
proteste».
Lei poi tornò a Roma…
«Quando arrivò la notizia della caduta del Muro cogliemmo tutta la potenza
liberatrice dell’evento. Le racconto un altro viaggio che si tenne poche
settimane dopo».
Dove?
«In Cecoslovacchia. Insieme con Giovanni Berlinguer partecipammo a una grande
manifestazione nelle piazze praghesi. La sera incontrammo riservatamente
Alexander Dubcek…».
Padre della Primavera di Praga del 1968…
«Ci chiarì l’andamento degli eventi. L’impressione su di me, su di noi, fu
enorme: ci sembrava di muoverci tra le pagine di un manuale di storia
nell’istante stesso in cui veniva scritto. E in effetti era esattamente quello
che stavamo vivendo. Alfredo Reichlin, durante la commemorazione di Pietro
Ingrao, per definire la politica usò un’espressione felice: la storia in atto.
Ecco, in quei giorni noi vedevamo la storia in atto».
Il Muro crollò di giovedì. Quattro giorni
dopo, di domenica, il 12 novembre, Achille Occhetto, diede il via alla Svolta.
Il cambio del nome del Pci.
«Venni convocato da Piero Fassino, che era il responsabile dell’organizzazione
del Pci. Mi spiegò che cosa sarebbe successo nei tre mesi successivi».
La sua Fgci era favorevole o contraria
alla Svolta?
«Per noi fu come un risveglio brusco e ci precipitò nel cuore della discussione
più aspra e appassionata della nostra esperienza politica».
Molti giovani vennero a protestare sotto le finestre di Botteghe Oscure.
«Dicevi: “Superamento del Pci”, e di nuovo avevi l’impressione di evocare qualcosa di enormemente più grande di te. L’idea di condividere con altri una pagina destinata a ribaltare certezze che, a torto, avevi ritenuto molto più solide di quella realtà che ti si presentava davanti. Sono rimasto abbastanza turbato dall’impatto dell’evento. Mi resi conto, soprattutto nei mesi successivi, che non ero stato all’altezza del mio compito e del mio ruolo».
Perché “non all’altezza”?
«Non riuscimmo ad elaborare fino in fondo le ragioni che determinavano una
svolta di quel genere. La Fgci, in quegli anni Ottanta, era un’organizzazione
molto proiettata sui movimenti: il pacifismo, l’ambientalismo, la mobilitazione
degli studenti… Ci mancò una capacità di analisi più puntuale di quello che
stava succedendo nella dimensione profonda delle società, dell’economia, degli
orientamenti valoriali. Era il decennio della destra lib-lib-lib e noi guidammo
i ragazzi in una dimensione abbastanza superficiale, sottovalutando invece la
penetrazione che aveva l’ideologia thatcheriana. Eravamo in ritardo con
l’analisi della realtà e questo ha contribuito anche a non cogliere fino in
fondo la dimensione e la portata della Svolta che aveva come obiettivo di
collocare un pezzo di storia fondamentale della sinistra italiana nel tempo
storico che avevamo davanti».
In quel 1989, sotto le macerie del Muro e
all’ombra della Svolta, si spaccarono anche molte famiglie comuniste e si
ruppero amicizie. È capitato anche a lei?
«Per me fu doloroso un biglietto scritto a quattro mani da Nichi Vendola e
Franco Giordano: diceva, più o meno, che le nostre strade si separavano e che
avrebbero combattuto la battaglia contro la Svolta fino in fondo. Per fortuna
il tempo ricongiunge anche ciò che gli eventi più bruschi separano».
È vero che svitò la targa storica della
Federazione e la portò via?
«Il giorno dopo lo scioglimento del Pci andai a Botteghe Oscure con un
cacciavite portato da casa. L’ho fatta pure restaurare. Le racconto come finì
il mio 1989?».
Prego.
«A Natale andammo a Gerusalemme per “Time for peace”, una marcia pacifista
attorno alle mura nel segno della parola d’ordine: “Due popoli, due Stati”. La
messa di Natale fu celebrata dall’arcivescovo Desmond Tutu. La sera, rientrati
in albergo, vedemmo su un piccolo televisore le immagini della fucilazione di
Nicolae Ceausescu e della moglie Elena. Ricordo la scena del medico che misura
la pressione di colui che di lì a poco sarebbe stato giustiziato. In quelle
settimane straordinarie, un po’ è finita la nostra giovinezza».