Roberto Maroni (7 – Agosto 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della sera il 2 agosto 2019)

Fa il lobbista e l’avvocato. Spiega: «Mi occupo di Public & Government Affairs. Ho più tempo per le mie cose». Roberto Maroni è un leghista poco barbarico, ex ministro degli Interni, ex vice premier, ex leader del Carroccio ed ex presidente della Regione Lombardia. Lo incontro il giorno dopo una lunga sessione di prove con la sua soul band. C’è un concerto in vista all’Università di Varese. Domando: «Suona ancora l’organo Hammond con i Distretto 51?». E lui: «Certo. La nostra musica è quella di Wilson Pickett. Lo sa che l’ho conosciuto?». Quando? «Nel 1995. Al Soul Festival di Porretta Terme. Indossava una maglietta con sopra scritto Radio Mafia. L’organizzatore me lo presentò e gli disse: “Roberto era ministro”. Wilson replicò: “Fanculo, mi prendi in giro?”».

«Letta efficace, Appendino capace e concreta»

Da un paio di anni Maroni coordina anche i contributi dei big al corso di Pragmatica Politica dell’Università di Pavia. I relatori più efficaci? «Gianni Letta, ovviamente. E Chiara Appendino. Non do un giudizio positivo sulla sua sindacatura, ma ha capacità, profondità e concretezza». Chiedo a Maroni se, da quando nel 2018 ha abbandonato l’agone politico, stia coltivando di più l’antica passione per la vela. Comincia a raccontare con orgoglio la traversata atlantica in catamarano dell’anno scorso: «Eravamo in sei. Ventidue giorni senza telefono. Quando siamo arrivati a Santa Lucia, nei Caraibi, ho riacceso il cellulare e ci sono rimasto male». Perché? «Mi sono accorto che in quelle tre settimane il mondo è andato avanti anche senza di me». Lo riporto alle beghe italiane. Sul Russiagate è un po’ vago. Dichiara: «Conosco bene sia Gianluca Savoini sia Claudio D’Amico, posso immaginare che cosa sia successo». Aggiunge: «Da ex ministro dell’Interno ho una mia idea sulla vicenda, ma la tengo per me». Sull’affaire “autonomie”, invece, dice di essere sorpreso del fatto che Matteo Salvini non abbia fatto suo l’accordo firmato da Maroni stesso e da Luca Zaia con il precedente governo dem: «Abbiamo ottenuto che non potesse essere modificato in Parlamento, come un trattato internazionale».

L’accordo del 2018 con il premier Paolo Gentiloni è più leghista di quello portato avanti dal governo giallo-verde?
«Più nordista. Prevedeva molte risorse aggiuntive. Credo che la prudenza di Matteo Salvini sull’autonomia sia dovuta alle pressioni che riceve dalla Lega del Sud».

Maroni è stato uno dei fondatori della Lega Nord. Avendo partecipato alla dichiarazione d’indipendenza della Padania, nel 1996 a Venezia, è stato processato per depressione del sentimento nazionale. Nel 2012, da leader leghista, introdusse lo slogan «Prima il Nord».

Ora Salvini urla «Prima gli italiani», cancella il Nord dal simbolo e parla ai meridionali. Ha snaturato il Carroccio?
«Non è un cambio di natura. È un’evoluzione. Una scelta coraggiosa. Le urne gli stanno dando ragione».

Il segreto del successo di Salvini.
«Ha innovato la comunicazione ed è bravo. Non ha un’opposizione degna di questo nome fuori dal partito. E rispetto all’altro Matteo, cioè Renzi, non ha un’opposizione interna».

La Lega monolitica del leader Salvini.
«Sembrerà stravagante come interpretazione, ma credo che Salvini oggi sia una sintesi tra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Entrambi aspiravano al partito egemone. Di Bossi ha il fiuto e la capacità di guardare avanti».

E di Berlusconi…
«L’uomo solo al comando, il partito virtuale, leggero».

Parlando della Lega salviniana, Maroni inizia a raccontare di voci che circolano tra i militanti che temono un cambio antropologico anche troppo profondo: «C’è chi sostiene che potrebbe non esserci più il SOM».

Che cos’è il SOM?
«Il socio ordinario militante, quello con diritto di elettorato attivo e passivo. Si diventa SOM dopo una lunga trafila e una serie di valutazioni. E ogni anno la qualifica viene messa in discussione. Questa selezione ha garantito alla Lega di sopravvivere a mille tempeste. L’avevamo immaginata io e Bossi tra il 1986 e il 1987 per evitare l’assalto alla diligenza leghista da parte di ex di altri partiti. Credo che Salvini ora pensi: “Il consenso lo porto io, non i militanti o le sezioni”. E poi destrutturare un partito strutturato vuol dire evitare troppi conflitti interni».

Lei quando ha conosciuto Salvini?
«Le dico quando è entrato nella mia top ten dei leghisti».

Quando?
«La sera di venerdì 13 gennaio 2012. Una premessa: in quel momento ero stato accusato dal Cerchio magico bossiano di aver spifferato al Secolo XIX la storia dei diamanti. Era falso. Ma il Consiglio nazionale della Lega lombarda, di cui Giancarlo Giorgetti era segretario, su suggerimento di Bossi, decise che non avrei più potuto partecipare alle feste e ai comizi della Lega. La fatwa. Quel venerdì Salvini mi chiamò e disse: “È una follia. Ci penso io”. Cominciò a organizzare incontri coi militanti, invitandomi. A quello di Varese parteciparono trentamila persone. Indovini chi era l’unico leghista mancante?».

Chi?
«Giorgetti».

Ora Giorgetti è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Lei di lui ha detto che non ha coraggio. È in fondo alla sua classifica dei leghisti preferiti?
«Giorgetti si piegò alla linea del Cerchio magico, di Rosy Mauro, di Mauro Belsito. Poteva opporsi e invece ne avallò le decisioni. Mi ha messo due dita negli occhi…».

Nell’autunno 2013 lei contribuì a far eleggere Salvini leader della Lega.
«Ero diventato presidente della Regione Lombardia e convocai il congresso per trovare il mio successore alla segreteria federale. Bossi si candidò. Io introdussi le primarie. Prima del voto, però, depennai alcune candidature: mi sembrava giusto che lo scontro fosse tra il vecchio, Bossi, e il nuovo, Salvini. In quell’occasione pur essendo leninista mi sono comportato da stalinista».

Lei si considera leninista?
«Il partito prima di tutto».

Come sta Bossi?
«Non voglio parlare delle sue condizioni di salute».

Vi conoscete dal 1979. Quarant’anni.
«La prima manifestazione insieme è del 1980. A Como».

Il comizio all’hotel Como con tre persone ad ascoltare, una delle quali era un fascistone che aggredì Bossi.
«Bossì schivò il colpo e gli spaccò il naso con un pugno. Con noi c’era anche Bruno Salvadori dell’Union Valdôtaine, che aveva promesso di finanziarci. Bossi, saputa questa intenzione, aveva cominciato a spendere e spandere: il giornale Nord Ovest, una sede in centro a Varese… Salvadori, però, a giugno del 1980 morì in un incidente stradale e a noi restarono i debiti».

Chi li pagò?
«Bossi ha raccontato di averli pagati lui. In realtà ci pensò mio padre».

È vero che Bossi la chiamava a qualsiasi ora della notte?
«Sì. Quando rientrava dai suoi giri sul territorio, verso le due o le tre. Una volta, ‘91, mi buttò giù dal letto perché la polizia stava sgombrando una nostra occupazione di un cantiere dove si costruivano barriere autostradali. Per quindici giorni avevamo convocato militanti da tutte le regioni».

La Lega come i No Tav.
«Eheh. Eravamo lì per protestare contro i pedaggi. Volevamo che la Varese-Milano fosse gratis».

Lei prima di essere leghista votava Democrazia Proletaria, Bossi il Pci. Ora il suo terzogenito, Fabrizio, 21 anni, si è presentato con una lista di sinistra a Lozza, il paese del Varesotto dove vivete.
«Ha preso più voti di tutti. Ho letto molti articoli che dicevano “Maroni Junior contro la Lega”».

È rimasto contrariato?
«No. Io sono per la libertà assoluta. L’importante è che rimanga milanista».

Visto il DNA di sinistra di Bossi e suo, non le dà fastidio il successo di Salvini tra gli esponenti di ultradestra di tutta Europa?
«Bossi sin dall’inizio disse che la Lega non era né di destra né di sinistra, perché era del Nord. Ricordiamoci che da noi arrivò Mario Borghezio».

Storico europarlamentare leghista.
«Beh, se vogliamo dirla tutta, in confronto a Borghezio quelli di CasaPound sono dei dilettanti».

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