Achille Occhetto (7 – Luglio 2019)
0 commenti(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 26 luglio 2019)
Entroterra maremmano. Casale incastonato tra querce e ulivi: zero lusso, molto silenzio. Achille Occhetto è con la moglie Aureliana Alberici, il figlio Malcolm, la sorella Paola e la nipote Carlotta. Buen retiro familiare. Racconta: «Tre anni fa ho festeggiato qui anche i miei ottant’anni. Vedo che molti si auto-celebrano. Il mio è stato un brindisi senza clamore». Gli ricordo il clamore causato dalle foto scattate a pochi chilometri da qui, a Capalbio, nell’estate 1988, quando lui era appena diventato segretario del Partito comunista italiano ed Elisabetta Catalano lo immortalò mentre baciava la consorte. Su quel bacio si scatenarono dibattiti giornalistici e referendum (più o meno scherzosi) tra militanti. Occhetto venne accusato di essere un narciso. Sorride: «Quando sentii i vetero-babbioni del partito che criticavano quelle immagini, ne difesi la pubblicazione. In realtà, però, non le avevamo concordate».
Niente paparazzi, era il lavoro di una celebre ritrattista
Elisabetta Catalano era una celebre ritrattista, non una paparazza. «Finito il servizio fotografico ufficiale, posato, ci disse, “Ora faccio qualche scatto personale, per voi”. Ridendo siamo stati al gioco. È stata furba». Occhetto nega che quel bacio sia stato uno dei primi momenti in cui la politica italiana ha virato verso la personalizzazione. Dice: «È Berlusconi, nel 1994, ad aver introdotto il modello del leader risolutore, insieme con il primato della comunicazione politica. E così si sono spalancate le porte a quel populismo che viviamo in maniera esacerbata. Ora si intravede un’altra pagina del tutto inedita della politica italiana: la democrazia illiberale. Sono preoccupato». Da qualche anno il Leitmotiv dell’ex segretario del Pci e del Pds è la creazione di una grande convenzione aperta a tutte le sinistre per mettere al centro alcune grandi idee-forza. Ne ha scritto anche nel suo ultimo saggio La lunga eclissi.
Nicola Zingaretti, segretario del Pd, ha
parlato di una Costituente delle idee.
«Ho colto con favore l’iniziativa. Zingaretti si dovrebbe porre come obiettivo
quello di uscire dal male oscuro delle divisioni interne. E le alleanze… Oggi
l’alternativa è tra le forze che credono nella liberaldemocrazia e quelle che
vogliono introdurre una democrazia illiberale».
Sta parlando di Salvini?
«Esiste un’Italia che mal sopporta gli elementi di mussolinismo salviniano.
Anche se non mi pare che ci sia ancora molta consapevolezza. È inaudito il modo
in cui manda al diavolo contemporaneamente l’Onu, il Papa e il Presidente della
Repubblica. Un tempo, se un leader avesse sbeffeggiato le istituzioni come fa
lui, ci sarebbe stata una rivolta morale e politica».
“Un tempo” lo scontro politico era anche
più duro di quanto non lo sia oggi.
«Ma il patto Costituzionale era ancora forte. Si sentiva il dovere di educare
il popolo italiano alla democrazia. Sia la Dc sia il Pci sapevano che a destra
e a sinistra pulsa un sovversivismo che va combattuto e non accarezzato».
Cominciamo a parlare della formazione delle classi dirigenti. Tra il momento in cui Occhetto entra nel Comitato Centrale del Pci e la prima elezione in Parlamento trascorrono una quindicina di anni. Un’eternità. Racconta: «Uno degli incarichi che mi inorgoglì di più prima di entrare alla Camera fu quello di responsabile dell’amministrazione della mia sezione: scalinata per scalinata, pianerottolo per pianerottolo, andavo nelle case degli operai a chiedere i soldi per il bollino della tessera. Si parlava, ci si conosceva. Quella era la nostra università politica». Occhetto in vena di Amarcord. Gli propongo il gioco delle decadi: un’immagine per ogni decennio vissuto.
Da zero a dieci anni? È vero che Cesare
Pavese le correggeva i compiti?
«Succedeva a Forte dei Marmi. Ma non è quella l’immagine indelebile della mia
infanzia».
Qual è?
«Io che vengo portato sul balcone per vedere i piccoli carri armati che escono
dalla Fiat col Tricolore e con le bandiere rosse. L’inizio dell’insurrezione
del 25 aprile 1945. L’abitazione torinese dei miei genitori era una specie di
sede clandestina della sinistra cristiana frequentata da partigiani di tutti i
colori, che io consideravo come apostoli».
Da dieci a venti.
«La classe in cui discutevamo la linea editoriale del Rudere, il giornale del liceo Beccaria di Milano. Lo diressi all’inizio degli
anni Cinquanta».
L’immagine dai venti ai trenta.
«Il dibattito al circolo Banfi, che era la sezione degli universitari
comunisti, su un articolo che avevo scritto contro l’intervento sovietico in
Ungheria nel 1956».
La radiarono dal Pci?
«No. Il partito aveva ben altre preoccupazioni. Il pezzo venne pubblicato sul
numero zero di Nuova Generazione, la rivista della Fgci che allora era diretta da Sandro Curzi. Titolo: “Il
furore alberga nel cuore dei giovani comunisti”. Aggiungo un ricordo: il
viaggio con Giancarlo Pajetta, nel 1965, inviati in Oriente dal segretario
Luigi Longo, e la cena coi cinesi durante la quale emerge la rottura tra Pci e
Pcc. All’epoca guidavo la Fgci».
Dai trenta ai quaranta.
«C’è il Sessantotto. Portammo i massimi dirigenti del Movimento Studentesco
romano a un colloquio con Longo. E lui si rivelò aperturista».
Quaranta-cinquanta.
«È il decennio tra il 1976 e il 1986. Troppa roba».
Chiuda gli occhi. La prima immagine…
«Marzo 1978. L’edicola vicino casa. Ci arrivo ripassando il discorso con cui in
direzione mi sarei dichiarato contrario ad appoggiare il governo Andreotti.
Chiedo l’Unità e
l’edicolante sbuffa: “Questo giornale ormai è vecchio”. Domando: “Perché?”. E
lui? “Ma come, non lo sa? Hanno rapito Aldo Moro”. Mi allontanai ripensando il
discorso da fare in direzione: era il momento dell’unità nazionale per
combattere il terrorismo. Nel 1984…».
È l’anno della morte di Enrico Berlinguer.
«Io ero responsabile della propaganda. Mentre era in coma, lo sostituii in un
comizio a Comiso, in Sicilia. La notizia del decesso l’ho avuta mentre
rientravo a Roma».
Berlinguer. Pierluigi Bersani sostiene che
avesse uno sguardo insostenibile.
«La sua serietà e il suo modo di essere schivo ti mettevano un po’ in
imbarazzo. Ma… io da giovane ho incontrato Palmiro Togliatti, che era
considerato un Dio».
Racconti.
«Nel 1959 mi ricevette perché avevo chiesto di fargli leggere un numero di
Nuova generazione, di cui ero direttore. Eravamo molto critici con il XXI
congresso del Partito Comunista Sovietico, perché non c’era stato il
rinnovamento atteso».
Togliatti come reagì?
«Bene. Mi chiese di diffondere l’articolo».
Torniamo al 1984. La leggenda narra che
dopo il funerale di Berlinguer lei e Massimo D’Alema vi siete messi d’accordo
per una staffetta alla segreteria del Pci: prima lei, poi D’Alema. Viene
chiamato “il Patto del garage”.
«Quel patto se lo è letteralmente inventato D’Alema. Non c’è mai stato».
D’Alema, qualche settimana fa, su 7, ha
detto pure che nel 1990 fu lei a inviare lui e Walter Veltroni sul camper di
Bettino Craxi durante la conferenza programmatica del Psi, a Rimini.
«Una balla anche questa. Io ero in Spagna e non considerai una cosa bella
quella visita voluta da Craxi. Ma è vero che, caduto il Muro, lavorai per
raggiungere una nuova unità delle sinistre. Ho sempre pensato che se non ci
fosse stata la Svolta della Bolognina, Craxi, dopo il crollo del Muro di
Berlino, si sarebbe mangiato mezzo Pci».
La Bolognina. Novembre 1989. Il decennio
tra i suoi cinquanta e i suoi sessant’anni. Tra poco c’è il trentennale. Lo
festeggerà?
«Cercherò. La cosa curiosa è che quelli che mi hanno seguito in quella scelta,
non hanno mai contribuito ai festeggiamenti. Ho sempre fatto tutto io. Il
rapporto di una parte della classe dirigente del mio partito con la Bolognina e
con la mia persona è una pagina infame della storia politica italiana».
Fuori i nomi.
«Ma no, basti la sostanza: io volevo che la Bolognina fosse un’uscita a
sinistra dalla crisi. Invece dopo di me, si sono assunte posizioni distorte,
inciuci, compromessi: è il processo che ha portato alla degenerazione della
Svolta e ha aperto la strada al renzismo».
Passiamo al decennio Sessanta-Settanta.
«Ho avuto la sensazione che si stesse aprendo una nuova fase di corruttela e
che stesse riemergendo la questione morale. Alle Europee del 2004 mi alleai con
Antonio Di Pietro. Fu un errore».
L’immagine di quel periodo?
«È una brutta immagine. Quella della damnatio
memoriae nei miei confronti, messa in atto dagli
epigoni del mio partito. È una damnatio che ha sporcato anche il decennio
successivo. Per molti, anche grazie alla complicità di alcuni ex comunisti, c’è
stato Berlinguer, poi il buio, e poi Renzi. E viene dimenticato quel processo
intermedio senza il quale non ci sarebbe stato né l’Ulivo né la nascita del
Pd».
Lei con chi parla della Bolognina?
«Oggi? Non parlo più con nessuno. Faccio prima».
Intendevo… Con chi ne parlò? C’è chi le
ha rimproverato una scelta troppo personale e poco condivisa.
«Io avevo creato una serie di premesse che aprivano la strada al processo: la
celebrazione del monumento dedicato a Togliatti, a Civitavecchia, in cui
dichiaro che il Migliore è stato parzialmente colpevole dei delitti di Stalin;
il viaggio a Budapest con l’omaggio a Imre Nagy; la manifestazione sotto l’ambasciata
cinese dopo Tienanmen durante la quale dico che il comunismo è finito… Forse
qualcuno non ha voluto sentire. Io ho preparato il terreno, poi quando è caduto
il Muro ho reagito e ho proposto di cambiare nome al Pci. Alla mia proposta è
seguita una discussione».
Nanni Moretti ci ha girato un film: La
cosa.
«La discussione più democratica che ci sia mai stata in un partito. Persino
troppo democratica».