Susan Levenstein (Doppio Binario – 7 – Aprile 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera l’11 aprile 2019)

ANNO 1979. Corsia di un ospedale romano. Nuvola di aspiranti medici in camice bianco al seguito del megaprofessore galattico. Si passano in rassegna i malati. Fermo e tronfio davanti a un’anziana sofferente, il primario suggerisce una cura. Partono i mugolii d’approvazione di rito. Dal gruppo di tirocinanti si alza una mano. Viene sussurrata un’obiezione: «Veramente il New England Journal of Medicine ha pubblicato uno studio, già otto anni fa, che dichiara questi trattamenti inefficaci». Gelo tra le barelle. Attimi di tensione. Si passa silenziosamente al degente successivo. Doppio Binario con Susan Levenstein, newyorkese, specialista di medicina interna nella Capitale e ricercatrice in malattie psicosomatiche. L’obiezione al primario era sua. E la scena viene raccontata nel suo libro Dottoressa: An American Doctor in Rome, che è un affresco ironico di come una donna anglosassone abbia vissuto quarant’anni di professione medica in Italia tra inefficienze burocratiche grottesche e slanci umani commoventi. Un inusuale occhio straniero (esterno?) che ha vissuto da dentro la macchina della salute italiana. L’intervista si svolge a Roma, nel chiostro dell’ospedale trasteverino dove Susan trovò rifugio dopo essere stata fulminata dallo sguardo del primario a causa della sua avventata obiezione. Un colonnato del Duecento fa da cornice a una struttura fatiscente. Ogni trenta minuti ci passa davanti una dipendente che spinge faticosamente sulla ghiaia un carrello con minuscole ruote. Domando a Susan come mai, malgrado lei viva in Italia dal 1978, quando parla degli italiani scrive “loro”. Replica: «Un immigrato che arriva adulto negli Stati Uniti può diventare profondamente americano, ma nessuno venendo da fuori può diventare italiano. Io sono un’eterna straniera, anche se ho il passaporto italiano».

Decidiamo di rimandare alla fine del nostro incontro le considerazioni sui muri trumpiani e i blocchi navali del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Appena le faccio notare che il libro è decisamente impietoso nei confronti della sanità nostrana, Susan si affretta a chiarire che non era sua intenzione apparire come una “miss so tutto io”, che molti tra quelli che hanno letto il suo racconto sostengono che sia un atto d’amore nei confronti dell’Italia e degli italiani e che, ovviamente, anche i nostri medici si sono notevolmente evoluti da quando ha cominciato a scriverne 35 anni fa. Spiega: «Cito una vasta aneddotica di eventi pittoreschi perché li ho segnati su un taccuino ogni volta che me ne è capitato uno. L’atto di appuntarli mi calmava».

Visite mancate, incuria, primari in vacanza e reparti bloccati. Sono capitati anche casi recenti?
«Un mio paziente rimandato a casa malgrado avesse il bacino rotto in quattro punti e un altro a rischio infarto. È successo un paio di mesi fa. La sanità italiana ha tre problemi fondamentali».

Quali?
«Mancanza di soldi. Una preparazione del personale troppo teorica e troppo poco pratica…».

In che senso?
«Si studia più sui libri che sui pazienti. Quando sono arrivata qui ho incontrato uno specializzando al quarto anno che non aveva ancora mai toccato un malato».

Nel frattempo le cose sono cambiate.
«Sì, ma resta sempre tutto troppo teorico. E poi c’è un terzo problema. E qui sarò dura».

Si accomodi.
«Non esiste il concetto di professionalità».

Boom.
«Sto generalizzando, ovviamente, ed è pieno di medici fantastici. Ma se un medico va in ferie e smette di rispondere al telefono, se un altro manda a casa un paziente palesemente malato di leucemia, solo perché lui non sa come curarlo… c’è un problema di professionalità. A cui si aggiungono le assunzioni fatte per scelta politica o clientelare, i piccoli e grandi episodi di corruzione. Ne ho viste di tutti i colori. Un medico ha anche perso il lavoro per gli errori fatti con una mia paziente».

Racconti.

«C’era un’anziana suora inglese che dava letteralmente i numeri. Sussurrava: “Ottanta, tre, dieci”. Le sue colleghe mi chiamarono perché volevano farle una siringa di Valium e rimandarla tranquillamente a Londra. C’era un’alta probabilità che fosse un caso di meningo-encefalite. La spedii in ospedale. Ma lì a nessuno venne nemmeno in mente di farle la puntura lombare. È morta dopo tre giorni. A pochi chilometri, sempre a Roma, ma in un altro ospedale, una mia giovane paziente in dieci minuti è stata sottoposta alla puntura lombare e ha ottenuto un’immediata diagnosi e una cura adeguata».

Morale.

«Quando entri in un ospedale italiano fai un tiro di dado. Un altro esempio: lo shock anafilattico in 5 casi su 6 viene affrontato correttamente somministrando adrenalina. Ma c’è anche il caso del medico che non “crede” nell’adrenalina e quindi prescrive solo il cortisone».

È un problema di aggiornamento? 

«No. È da più di mezzo secolo che lo shock viene trattato con l’adrenalina. C’è un problema culturale: ogni medico sembra avere una sua verità. Sul modello dello stregone. Negli Stati Uniti, invece, i medici sono divinità, spesso pieni di difetti umani, ma che pretendono di interpretare una stessa verità, anche se la “verità” può cambiare radicalmente con la pubblicazione di nuovo articolo di ricerca».

Negli Stati Uniti non si entra in un Pronto Soccorso senza avere in mano una carta di credito. 

«Con l’ Obamacare le cose sono un po’ cambiate. Ma non sarò certo io a difendere quella disgrazia abominevole che è il sistema sanitario americano. In Italia la dote principale è l’accesso alle cure gratuite e universali.

In America l’accesso è un problema e i prezzi per curarsi sono esorbitanti». Mi può fare un esempio? 

«Nell’ultimo capitolo del libro cito qualche cifra. Due pasticche per curare gli ossiuri, i vermetti intestinali dei bambini, in Italia costano un paio d’euro, negli Stati Uniti possono arrivare a 780 dollari».

Scherza? 

«No. Ho letto di una signora in vacanza a New York, visitata da un medico in hotel, a cui è stato presentato un conto di quindicimila euro».

In Dottoressa, lei elogia lo stile di vita italiano, come fonte di benessere. 

«L’Italia non ha una società drogata come quella statunitense. Gli americani abusano di farmaci pesantissimi, mangiano schifezze e hanno un livello di alcolismo altissimo. Il paradiso della salute è dove i finanziamenti, gli ospedali e l’educazione dei medici sono americani, e lo stile di vita e l’accesso alle cure sono italiani».

Ci spostiamo dal chiostro del Duecento a un porticato del Cinquecento. Susan confessa di aver ridotto il numero dei suoi pazienti, anche per curare di più la propria passione per il pianoforte. Scopro che il suo attuale marito è Alvin Curran, compositore americano: «Ma non suono mai i suoi pezzi. Frequento i classici. Bach, Beethoven, Mozart… Ho qualche difficoltà a trovare altri dilettanti con cui duettare. In Italia o si suona da professionisti o non si suona».

Quando cominciamo a parlare di come si sia avvicinata alla professione medica, scopro che il percorso è stato piuttosto tortuoso. Mi racconti la sua infanzia. 

«Mio padre era un assistente sociale comunista, mia madre una psicologa. Ho vissuto per molti anni nei quartieri popolari di Manhattan. Poi ci siamo trasferiti a Long Island. E lì è finita la pacchia».

Perché? 

«Tutto ordinato. Tutte le casette uguali. Tutti composti al banco. Io venivo da una famiglia anticonformista. A scuola organizzai anche delle proteste individuali».

Università? 

«Harvard. Ho cominciato con la matematica, un grande amore, ho proseguito con la filosofia e all’ultimo ho sterzato sulla psicologia».

Con l’idea di fare l’analista? 

«Sono finita a lavorare in un ospedale psichiatrico. Ha presente il film Qualcuno volò sul nido del cuculo? L’ambiente era quello. Pazienti con una permanenza media di dodici anni, persone che entravano depresse e uscivano lobotomizzate. Con il mio capo provammo a modernizzare i metodi di cura. Creammo unità terapeutiche di cui facevano parte anche i portantini. Tra l’altro io ero fidanzata con un portantino, ma questa è un’altra storia. Alla fine il primario mi consigliò di studiare medicina. Ma dato che odiavo i medici, prima di cominciare mi regalai un Grand Tour in Europa, nel 1970. E lì mi sono innamorata dell’Italia».

Quanto ci è rimasta? 

«Doveva essere un solo giorno per ascoltare un concerto di un’amica alla Piccola Scala di Milano, per poi fermarmi a Aix-en-Provence. Ci sono restata otto mesi: Firenze, Venezia, la Sardegna selvaggia, Roma… Sono tornata a New York e ho iniziato a studiare tantissimo».

La New York anni Settanta. Lo Studio 54, sesso, droga e rock ‘n roll. 

«Macché. Studio e ricerca, ricerca e studio. Io tra l’altro facevo parte di un gruppo marxista leninista che respingeva l’uso della droga, malgrado adorassi la marijuana».

Nel 1978 si trasferì in Italia. 

«Un anno prima mi ero sposata con Andrea, italiano. E sono stata io a insistere per trasferirci. Lui sarebbe rimasto volentieri a New York».

Nei primi capitoli del libro racconta l’impatto con la burocrazia italiana. 

«Una giostra folle di documenti, carte e fotocopie, un rimbalzo kafkiano continuo da un ufficio all’altro. E nessuno che sapesse davvero di che cosa ci fosse bisogno per dare l’abilitazione a un medico americano. Inizialmente ero un medico disoccupato non occupabile. Poi sono venuti gli anni di ricerca e di tirocinio gratuito, i sotterfugi, le piccole umiliazioni… Alla fine riuscii ad aprire il mio studio medico: il primo mese, un paziente…il secondo, quattro».

Alla fine a quanti pazienti è arrivata? 

«Circa duemila all’anno».

Chiacchieriamo delle molte serie tv che hanno fatto conoscere agli italiani la sanità statunitense. Susan sostiene che il più veritiero resta E.R. Domando: e Grey’s Anatomy? «Un’idiozia». Per strada c’è un cassonetto che sputa monnezza. Chiudiamo con un giudizio su Roma.

Lei l’ha vista evolversi negli ultimi quaranta anni. Come trova Roma oggi? 

«Ripetono tutti che Roma fa schifo. Mi pare che la spazzatura e la corruzione ci fossero anche prima dell’amministrazione di Virginia Raggi. Io ho visto Roma diventare una città meno provinciale e più cosmopolita».

Cosmopolita? Fioccano episodi di razzismo e di xenofobia. 

«L’Italia si sveglierà presto da questo incubo. Il trumpismo e il bannonismo ( Steve Bannon è stato uno degli strateghi della comunicazione di Trump, ndr) hanno aiutato tutti i Salvini del mondo a crescere. Ma gli italiani non sono né razzisti, né violenti, al contrario degli americani».

Gli americani lo sono? 

«Beh, il Paese è stato fondato sull’eliminazione fisica di chi c’era prima e sulla messa in schiavitù di intere popolazioni. Valuti lei».

Categorie : interviste
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