Andrée Ruth Shammah (Doppio Binario – 7 – Marzo 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 7 marzo 2019)

SPARISCE DIETRO A UNA QUINTA, si infila in un piccolo corridoio, attraversa il foyer con passo svelto, distribuisce un paio di indicazioni a due ragazzi che indossano una tuta rossa, sale una scaletta e approda su un palco, saluta Pierfrancesco Favino che sta per cominciare il suo spettacolo, gli cambia la sedia che è l’unico elemento d’arredo. Lui sembra perplesso. Lei è un moto perpetuo. Rivolta a noi: «Andiamo a mangiare». L’uscita è chiusa, serve una chiave. «Io non ce l’ho». E chi ce l’ha? «Sono qui da quarantasei anni e non l’ho mai avuta. Mi piace questa provvisorietà». Doppio Binario con Andrée Ruth Shammah, madre-regina del Teatro Parenti, che non è solo un teatro. Spiega: «È un’agorà». Spettacoli, eventi, comizi, un giardino esterno con piscina (i Bagni misteriosi) che d’inverno diventa pista di ghiaccio per pattinare. Nel periodo del Salone del Mobile la zona intorno al teatro diventerà anche Parenti District, spazio di incontro tra le arti performative e il design. Andrée è inarrestabile. Si siede a tavola. Prende il telefono e mi fa vedere una sua fotografia in bianco e nero: «Ero carina e nessuno me lo ha mai detto. Se lo avessi saputo mi sarei goduta di più la vita, ahahah». Ha compiuto da poco settant’anni e ne approfitto per proporle il gioco dei decenni.

Chiuda gli occhi e pensi a un’immagine o a un titolo che descrive ognuno dei decenni che ha vissuto.

«Andiamo a ritroso».

Dai settanta ai sessanta.

«La morte di Giorgio, il padre di mio figlio. La fine della vita in casa intesa come famiglia e come possibilità di invecchiare accanto a qualcuno. E poi la piscina del Parenti, l’enorme lavoro per realizzarla».

Sessanta-cinquanta.

«Io femmina».

In che senso?

«Ho pensato: se non viene fuori ora la femmina poi sarà troppo tardi. Sono stati anni di grande fantasia erotica».

Cinquanta-quaranta.

«Le vacanze nei grandi alberghi invece che nei festival teatrali. La maternità con le sue difficoltà iniziali: mio figlio Raphael Tobia è nato prematuro, dopo sei mesi di gravidanza».

Quaranta-trenta.

«Franco Parenti. Il comune impegno, profondo, e la nascita di questo teatro».

Trenta-venti.

«Il mio approdo al Piccolo Teatro, la formazione di un caos che poi si è organizzato».

Venti-dieci.

«Paolo Grassi…».

… ex sovrintendente della Scala di Milano e co-fondatore con Giorgio Strehler del Piccolo…

«…che balla su un tavolo. Io che decido di non frequentare l’École Normale Supérieure a Parigi e scelgo il palcoscenico».

Dieci-zero.

«Le gonne e i guantini che non volevo indossare. Io, maschiaccio, arrampicata sulle rocce dei Giardini Montanelli».

SHAMMAH STA PER METTERE IN SCENA I Promessi Sposi alla prova, rivisitazione di Giovanni Testori del testo manzoniano. Mentre parliamo di politiche culturali e di come sia cambiata la sua natura professionale negli anni, dice: «C’è una battuta di Manzoni formidabile, sul male come elemento che riesce a pervertire l’animo di una persona». Individua il momento in cui anche il suo animo ha subìto una mutazione perversa: «A un certo punto, io donna di teatro, mi sono dovuta reinventare come imprenditrice: sono diventata una che cerca soldi per mandare avanti il Parenti, per salvarlo. Mi hanno costretta».

Chi l’ha costretta?

«La politica. La logica del finanziamento pubblico per cui non basta essere bravi, sperimentare, riempire le sale. Per ottenere contributi pubblici c’è chi grottescamente studia i gusti dei ministri, corteggia gli assessori… Ho subìto qualche umiliazione anche quando il politico in carica era amico».

Politici amici. Lei è stata craxiana.

«E quando ci fu la spaccatura tra Bettino Craxi e Claudio Martelli, Margherita Boniver mi fece sapere che, caduto Bettino, sarebbero caduti anche i contributi. Anni dopo con Gabriele Albertini…».

… sindaco di Milano dal 1997 al 2006…

«… è arrivata un’altra batosta. Con lui avevo un buon rapporto, ma a causa del fatto che, secondo il suo assessore alla Cultura, Salvatore Carrubba, c’erano altri teatri da aiutare, mi disse: al massimo ti posso dare un euro per ogni euro che riesci a raccogliere dai privati. Così ho cominciato a fare fundraising. Ho avuto anche delle sorprese».

Che tipo di sorprese?

«Marzio Tremaglia, figlio di Mirko. Era assessore alla cultura della Regione Lombardia. Io ebrea, lui fascistone. Poteva finire male. Invece lui mi disse: “Io voglio valorizzare le persone che hanno qualità”. Fu un ottimo assessore».

USCIAMO DAL RISTORANTE. Pioviggina. Shammah negli ultimi anni ha messo spesso in scena spettacoli di autori ebrei come Hanoch Levin. Per questo sono arrivate minacce, insulti e persino una richiesta, su Facebook, di annullarle i finanziamenti pubblici. Appena glielo ricordo fa partire un lungo flusso di coscienza sulla cultura ebraica, torna sulla natura del male, passa in rassegna l’odio di quei gilet gialli che a Parigi hanno urlato «Fuori gli ebrei dalla Francia», e approda al senatore Cinque Stelle che recentemente ha rispolverato un pilastro dell’antisemitismo: la leggenda dei Savi di Sion. Conclude: «Capisce perché rivendico con forza sempre maggiore la mia identità di ebrea, italiana e milanese?». Un ragazzo africano sfreccia accanto a noi. Sulle spalle porta un cubo con dentro il pasto per qualche ufficio: «Alcuni giorni fa ho litigato con un tassista che insultava questi ragazzi. Gli ho detto: “Con gente come lei, preferirei che questo non fosse il mio Paese”». Cominciamo a parlare delle pulsioni xenofobe di molti italiani. Dice: «La stupirò».

La prego…

«Capisco quelli che ascoltano Salvini».

Davvero?

«Salvini non tira fuori solo il nostro peggio. Ha fatto emergere anche un dibattito che non c’è mai stato: quello su quanto sia sbagliato ragionare in termini di aperture indiscriminate, non ponderate e senza limiti. Bontà e solidarietà sono parole vuote se non vengono accompagnate da pratiche efficaci. Io per esempio penso che il dialogo è possibile se c’è un muro».

Si spieghi meglio.

«Se c’è un muro, posso decidere di costruire una porta e di aprirla. Posso comunicare. Se non c’è un muro c’è confusione e non si capisce chi è chi. E questa è la condizione in cui il centrosinistra si è trovato per molti anni».

Il centrosinistra. Lei è stata renziana.

«Ho molto amato Matteo Renzi. Ma in Italia regna la regola del pendolo: quando raggiungi una determinata altezza, ti portano giù. È successo anche a Bettino».

Ora ci sono Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

«Andremo a sbattere. C’è troppa incompetenza. Eppure è importante coltivare gli anticorpi: resistere alle manipo lazioni della propaganda, che prima avveniva coi megafoni e ora si muove sui social network. L’importante è che le élite non calino le braghe, non si limitino a replicare ai battibecchi ed elaborino un progetto di Paese». La maggioranza giallo-verde cavalca lo scontro élite contro popolo. «Io vorrei un popolo che si fa élite. Dopodiché non mi vergogno di essere élite e radical-chic. Ma questo non mi impedisce di essere attenta ai problemi delle persone che vivono in modo diverso dal mio».

MENTRE RIENTRIAMO AL PARENTI, Shammah assesta un altro colpo spiazzante. Le domando, pensando che sia d’accordo, se non sia folle il protrarsi di un bonus cultura per i diciottenni che permette ai ragazzi di andare al cinema a vedere i colossal americani. Replica: «No. Mi piace l’idea che nessuno si sia arrogato la prerogativa di decidere che cosa sia cultura e che cosa no, che cosa sia alto e che cosa sia basso. Qualche settimana fa sono andata a vedere Il Gabbiano di Anton Cechov, armata di tutto lo scetticismo possibile. Senza offesa, ma ho un’idea estetica del teatro un po’ diversa. Beh, il testo è pazzesco. Ho cominciato a riflettere sulla critica che ha sempre bisogno dell’ultima trovata e sui pregiudizi che ho anche io su che cosa sia nuovo e che cosa sia superato. Le grandi istituzioni culturali della città dovrebbero lavorare anche sulla grande tradizione invece di insistere come fa il Piccolo coi corpi nudi di Emma Dante».

Non le è piaciuto lo spettacolo di Emma Dante Bestie di scena?

«Emma è brava. Rifletto solo sul fatto che oggi la convenzione è rappresentata dal teatro sperimentale: tutti nudi».

A QUESTO PUNTO SHAMMAH comincia un elogio del teatro come arte del presente, un’arte preziosa per la sua unicità. Poi prende in prestito le parole di Giorgio Albertazzi per scolpire la sua definizione preferita di teatro: «È quella cosa per cui in una sala arrivano tante persone diverse, con culture e individualità distinte, si apre il sipario e quella moltitudine diventa una singola entità: il pubblico. Il teatro è effimero, si consuma di spettacolo in spettacolo. A me piace pensare di aver contribuito a costruire qualcosa, il Parenti, che resiste alla fine di ogni spettacolo come comunità. E resisterà anche quando io non ci sarò. Il teatro ti regala momenti magici di sospensione…”.

Un esempio di un momento magico di sospensione?

«Inizio anni Novanta, Adriana Asti in scena con la Maria Brasca scritta da Giovanni Testori. Testori è in sala, malato. Sembra quasi non avere più un corpo. Alla fine dello spettacolo sale sul palco e legge un pezzo dei suoi Promessi Sposi alla prova: «…Milano, città dove riposeremo un giorno la nostra stanca testa». In quel momento abbiamo vissuto una sospensione. Nessuno aveva il coraggio di rompere il silenzio con un applauso. Grandi momenti. Come quando a Taormina, Eduardo De Filippo ha chiamato sul palco il figlio Luca e gli ha passato il testimone, facendo intendere che non ci sarebbero state sue ulteriori apparizioni in pubblico».

Lei ha lavorato molto con Eduardo?

«Sì. Una volta eravamo a casa mia con amici e lui disse: “Sapete perché non vengo volentieri a Milano? Perché i teatri sono sotto terra. Ma adesso c’è a’ sciamm”. A’ sciamm ero io e in napoletano voleva dire la fiamma. Da quel giorno ho smesso di essere la figlia di mio papà, la compagna di Franco Parenti, la socialista vicina a Craxi… Benedetta da Eduardo, quel giorno ho conquistato la mia identità nel mondo del teatro. Eduardo non faceva televisione e all’epoca non esistevano i social, ma portava generazioni e generazioni di spettatori in teatro. Quando il Piccolo fece un accordo con il suo teatro di Napoli gli venne presentato Giorgio Guazzotti, che organizzava il pubblico. Lui si informò su quale fosse il ruolo di Guazzotti e quando glielo spiegarono chiosò: “Pensavo di essere io quello che porta la gente a teatro”.

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