Valerio Mastandrea (Doppio Binario – 7 – Febbraio 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 21 febbraio 2019)

UNA SETTANTINA DI FILM in un quarto di secolo, come attore. Un lungometraggio, Ride, come regista. Una vita di militanza politica, non partitica, poco esibita e di romanismo sfegatato. Il Doppio Binario con Valerio Mastandrea, 47 anni, è ricavato tra il giardinetto all’uscita della scuola del figlio e la ricerca (impossibile) di un parcheggio nel cuore del quartiere Testaccio: «La mattina alle 7.30 incontri padri e figli che si trascinano alla ricerca della macchina, parcheggiata il giorno prima chissà dove. Li incontri dopo 20 minuti e chiedi “Ce l’hai fatta?” E loro: “ancora no!”». Mastandrea sarà tra poco nelle sale con il film Domani è un altro giorno, ma prima di cominciare a parlare di cinema, gli rinfaccio alcuni tweet che ha pubblicato recentemente. Uno in particolare mi sembra stranamente minaccioso: «Occhio che quando vale tutto, vale tutto, eh». Domando: «A che cosa ti riferisci?» Replica: «Ai dietrofront di alcuni rappresentanti del governo in merito alle proprie vicende personali». Aggiunge: «La politica dell’ultimo anno sembra esclusivamente politica di vendetta: verso chi c’era prima e verso uno strato sociale identificato con la classe dirigente. L’unico vero cambiamento che si vede è il tenore del confronto, acido e violento, ma d’altronde le tecniche di rappresaglia sono queste da sempre». Parte una conversazione che si attorciglia tra la necessità di partecipare al dibattito pubblico e la ritrosia a usare politicamente la propria immagine di attore. Spiega: «La dialettica politica, oggi è quasi omicida. Credo che sia necessario sottrarsi. Oggi usare certi contesti, come i talk show, serve solo a chi ha il fucile in mano e spara sentenze, non a chi vorrebbe approfondire tematiche e valori epocali, come il restare umani».

In qualche raro caso, però, è capitato anche a te di frequentare i talk. Sei stato ospite di Otto e mezzo, da Lilli Gruber.
«E balbettavo. Mi sentivo come un preadolescente in pieno sviluppo, alla prima visita dal pediatra, che deve parlare delle sue polluzioni notturne a qualcuno che non conosce».

Non sei a tuo agio nel confronto dialettico?
«Non sono a mio agio se sento che devo mediare, che devo essere diplomatico. Non mi va di essere strumentalizzato. E puntualmente io stesso finisco per banalizzare il mio pensiero».

La tv banalizza e strumentalizza?
«Impacchettare in categorie è la caratteristica di un certo tipo di giornalismo. In questo modo si evita l’approfondimento dei temi e delle persone. Un giorno mi hanno chiamato perché apparivo in una lista di supporter dei Cinque Stelle stilata dalla redazione di un quotidiano. Mi avevano scambiato per Claudio Santamaria. Lo hanno ammesso solo dopo avermi chiesto se ero d’accordo con le parole del leader sui migranti africani. Poi ci sono quelli che ti chiedono una battuta su Roma: ma davvero c’è bisogno della mia faccia per parlare di buche e di monnezza? Vuoi la verità?».

Prego.
«Quel tweet “Occhio che quando vale tutto, vale tutto, eh”, vuol dire anche molto altro. Soprattutto una cosa».

Che cosa?
«Si riferisce al fatto che i ventenni di questo Paese finiscono sempre nello stesso modo: cambiano gli interlocutori, le dinamiche, i contesti, ma la violenza, la resistenza e la fine dei giochi è sempre la stessa».

Spiegati meglio.
«Per ogni piccolo Himmler che nasce ci sarà sempre un Dante Di Nanni che gli si parerà di fronte».

Di Nanni fu un partigiano che morì nel 1944 a Torino, assediato dai nazisti.
«Quello che ha insegnato la storia di questo Paese è che per lottare bisogna occupare gli spazi che il potere del momento dimentica. La strada, la politica dal basso, le persone che fanno le cose. Esiste un terreno che il potere inevitabilmente trascura. è li che bisogna stare. L’unico antidoto è fare le cose».

Firmare appelli non basta più?
«No. Non basta più, non credo che sia mai bastato».

Bisogna fare come Marc Gasol, campione della Nba che si è imbarcato su una nave di Open Arms senza dire nulla a nessuno?
«Esatto. Riconoscersi e fare».

Riconoscersi?
«Riconoscere con chi puoi lottare. Ti faccio un esempio: la piazza dei Sì Tav, con la sua conformazione di classe, con le sue ridicole motivazioni, è forse la più grande rappresentazione del fallimento di una certa politica e di un certo elettorato degli ultimi dieci anni. Non è con quella piazza che si trasporta il peso della resistenza in questo momento».

Stai parlando di una piazza piena di imprenditori e frequentata anche da esponenti del Pd.
«Appunto. Non capire le tematiche della lotta in Val di Susa è assurdo. Costi-benefici un cazzo! C’è la battaglia di un popolo da quelle parti. Chi c’è stato l’ha potuta respirare davvero. E poi neanche un bambino dell’asilo può credere che queste grandi opere possano avere la precedenza rispetto all’enorme lavoro di consolidamento e di manutenzione di un territorio già devastato».

Mastandrea fa quattro giri con l’auto intorno al suo palazzo. Alla fine trova un buco tra due utilitarie e ci si infila. Il suo flusso resistenziale arriva a toccare il rapporto tra arte, cultura e popolo: «Non sarebbe male fare un po’ di autocritica».

Chi dovrebbe fare autocritica?
«La perdita di contatto tra arte e popolo è stata favorita anche da un lavoro culturale che ha sottovalutato, se non rimosso, a chi e di chi si stava parlando. Anch’io mi sento responsabile per alcune scelte fatte in passato».

Di quali scelte parli?
«Aver partecipato a un cinema un po’ autoriferito con cui si parlava di se stessi, dei cazzi propri, come fossero l’unico sguardo possibile sulla realtà».

La tua opera prima da regista, Ride, parla di temi larghi (la libertà di soffrire e di star male come si vuole, il lavoro e le battaglie sindacali), con un linguaggio stretto: è pieno di silenzi, di interni poco luminosi…
«Sono contento anche dei difetti di quel film. Averli commessi e averli analizzati, mi servirà per il prossimo. Ride è un film anomalo. Non c’è lucro, non c’è nessuna seduzione e nessun aiuto nei confronti dello spettatore».

Ti pare un pregio?
«Uso canali di verità e di lealtà. Non sottovaluto il pubblico, lo rispetto e gli dico: quel silenzio, quella battuta li puoi interpretare tu da solo».

Ma allora perché hai partecipato a un film come Moschettieri del re, la commedia in costume che era nelle sale qualche mese fa?
«Perché non bisogna perdere il gusto per il divertimento. Una scelta leggera per tirare il fiato ci sta. Sarebbe bello avere la carriera di Takeshi Kitano, che faceva la tv comica e poi sfornava film come Sonatine».

Hai sempre detto: «Niente fiction, niente serie, niente pubblicità».
«Diciamo che a vent’anni ci ho sempre messo poco a dire di no ad alcune proposte. A trenta un po’ di più. A quaranta ancora di più».

Invecchiando si diventa più tolleranti?
«Si diventa solo ipocondriaci. Più si invecchia e più aumentano le incertezze. C’entra anche la genitorialità: non sei più solo, non esiste più solo il tuo narcisismo».

Appena entriamo in casa, Mastandrea prepara un tè. C’è un levriero muscolosissimo che scorrazza per casa. È Anna, il cane dell’attrice Chiara Martegiani, compagna di Valerio. Mastandrea torna a parlare di serie tv e di pubblicità: «In Italia siamo in ritardo, soprattutto con la scrittura». Gli chiedo se non sia preoccupato del meccanismo algoritmico di Netflix che ti spinge a vedere soprattutto film e fiction che si suppone ti piacciano. Come Spotify per la musica o Facebook per i post degli amici. L’attore scuote la testa: «No, anzi. È uno stimolo a tornare indietro, ad aprire gli occhi e a riprendersi la propria autonomia di spettatori».

Girerai mai una pubblicità?
«Come attore non credo. Però amo il linguaggio pubblicitario. Nel Nord Europa stanno sperimentando molto anche in quel settore. C’è un approccio sociologico: demoliscono il prodotto per fartelo piacere. Qualche idea ce l’ho».

Per un spot?
«Sì. Ho pensato a una pubblicità di un’auto elettrica. L’idea è quella di destrutturare il consumismo introducendo un aggettivo anomalo per un tema consolidato nell’immaginario».

Quale aggettivo e quale tema?
«La normalità e l’ambiente. Il tema dell’ambiente dovrebbe essere quotidiano, in tutte le scelte che facciamo. Compresa una bella macchina elettrica».

Mentre infila un biscottone nella bevanda calda mi parla di Domani è un altro giorno, l’ultimo film in cui duetta con Marco Giallini. è la storia di Giuliano (interpretato da Giallini) che decide di interrompere le cure contro il tumore e dei tre giorni che trascorre con il suo migliore amico Tommaso (Mastandrea). Si ride e si piange.

Sei stato protagonista di Linea verticale, Euforia e ora di Domani è un altro giorno. La malattia che impatta sulle vite.
«Sono cicli da personaggio».

Cicli?
«A ventidue anni periferia-disagio. A trentacinque lavoro-disagio. A quaranta genitore-disagio. E ora malattia-disagio. Finché ci sarà disagio posso continuare a fare questo mestiere».

C’è una scena in cui alcuni amici di Giuliano in un ristorante fanno finta di non vederlo. Lo trattano da appestato. Oggi, la malattia, come l’anzianità, viene nascosta?
«Non dico che siamo a Sparta, ma poco ci manca. E così il Terzo Settore, gli enti no profit che spesso forniscono welfare al posto dello Stato, sono snobbati dal dibattito pubblico».

Su Instagram le debolezze non vengono mostrate.
«E no. Lì solo la felicità. Spiattellata in faccia agli altri e con un effetto devastante di odio e depressione da parte di chi quella felicità non ce l’ha o non ha gli strumenti per raggiungerla».

Torniamo al film. Il regista di Domani è un altro giorno è Simone Spada.
«Simone è un amico e un grande professionista. È stato compagno d’armi in Non essere Cattivo. Quel film è anche molto merito suo. Ha fatto per anni l’aiuto regista, il sergente, quindi anche se era solo alla sua seconda regia non ha avuto problemi a gestire situazioni complesse e difficoltà improvvise».

Il primo film in cui hai duettato con Giallini risale al 1998, L’odore della notte di Claudio Caligari. Eravate uno a fianco all’altro anche in Buttafuori, nel 2006.
«Buttafuori è una delle cose più preziose che abbia mai fatto. Si parlava della profondità della vita in maniera unica».

Poi, sempre insieme, Perfetti sconosciuti.
«E molti altri. Io e Giallo giravamo insieme per teatri già a metà Anni Novanta».

Che tipo di spettacoli portavate in tournée?
«Ricordo un discutibilissimo Romeo e Giulietta del 1995».

Perché discutibilissimo?
«Per le mie performance. Giallini, invece, aveva già esperienza».

La tournée.
«Un giorno mentre stavamo per arrivare a Cervia, prima ci fermammo a correre con i kart e poi ci lanciammo col paracadute».

Era la prima volta?
«Sì, anche l’ultima. Ricordo la prudenza di Giallini. Era l’unico in possesso di un enorme telefono cellulare e chiamò la moglie per manifestarle la sua perplessità: “Aoo, questi so’ matti. Che faccio?”. Alla fine lo vedemmo uscire da un hangar vestito tipo top-gun e si buttò quasi per primo. Bei tempi quelli. Ma pure questi, eh, proprio perché belli non sono, possono diventare bellissimi».

Categorie : interviste
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