Francesco Rutelli (Doppio Binario – 7 – Gennaio 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 17 gennaio 2019)

LA MACCHINETTA ELETTRICA si avvicina silenziosamente al parcheggio di fronte all’ingresso di Villa Celimontana, a Roma. Zzz. Il conducente/intervistato scende, saluta e comincia a srotolare informazioni cultural-turistiche: «Qui dentro è nato il concetto di picnic: sei secoli fa san Filippo Neri organizzava merende sul prato per rallegrare i pellegrini in cammino verso le basiliche… Quella è la chiesa di Santo Stefano Rotondo, gli affreschi dei martiri rappresentano una specie di museo sadomaso delle torture… Quel porticato…». Doppio Binario con Francesco Rutelli, 64 anni, ex militante radicale, ex leader verde, ex segretario dei centristi della Margherita, ex ministro della Cultura ed ex vice premier del secondo governo Prodi. Ora è presidente di Anica, (l’associazione delle industrie cinematografiche), guida l’associazione “Incontro di civiltà” e presiede il “Centro per un futuro sostenibile”. Spiega: «Non faccio politica da sei anni, claro?». Claro. Una signora anziana chiede: «Dov’è la fermata dell’autobus?». Rutelli risponde sfoggiando un sorriso garbato. L’aggettivo romano “piacione”, cioè persona a cui piace piacere, è entrato nei dizionari della lingua italiana grazie a lui. Durante la nostra conversazione verrà fuori che Rutelli è anche padre di molti neologismi. Zzz. Scivoliamo ronzando sull’asfalto. L’ex sindaco comincia a parlare della diplomazia culturale, dei suoi progetti per salvare le opere di Palmira dall’integralismo islamico e delle professionalità da coltivare nel mondo dell’audiovisivo. A un certo punto, mentre sta descrivendo la potenza produttiva di Netflix, dice: «Lo sa che i registi dei film e delle serie di Netflix consegnano i ciak appena girati per sottoporli al giudizio di un algoritmo? La tendenza planetaria digitale è quella di assecondare i gusti degli spettatori. È successo anche in politica».

Cioè?

«La politica, da strumento per realizzare idee e organizzare il consenso intorno ad esse, è diventato uno strumento di compiacimento immediato ed effimero dell’elettore. L’elettore viene blandito dal dominio della narrazione. E quando la narrazione non coincide con i frutti della propria azione politica, si procede con una nuova endovena di narrazione».

Obietto sostenendo che l’operazione non riesce sempre. E che quando la realtà è troppo distante dalla cosiddetta narrazione, gli elettori si ribellano.

Renzi…

«La narrazione di Renzi a un certo punto è andata proprio fuori sync rispetto alla realtà. Come direbbe Totò: “Era agli antìtopi”, cioè agli antipodi. Il Pd non si è accorto del fenomeno più rilevante degli ultimi anni: l’esaurimento delle classi medie».

Lei è stato uno degli scopritori del Renzi politico…

«Le sue doti di leadership sono indiscutibili».

Perché non lo ha mai sostenuto quando era leader del Pd?

«Perché considero strutturalmente e irreversibilmente sbagliato costruire un partito personale».

Con Matteo Salvini, leader della Lega, la personalizzazione funziona alla grande.

«Credo in un altro tipo di politica, dove l’agire è collettivo. Ma Salvini ci azzecca, attenzione, da politico puro. E a proposito di narrazione, la cosa che funziona dell’attuale maggioranza giallo-verde è che i due partiti di governo, Lega e M5S, oltre che gestire il potere, assorbono il sentimento di malessere profondo che attraversa molte società europee». Zzz, la piccola auto elettrica scorre quasi muta sull’asfalto. Mentre procediamo Rutelli racconta: «Lo sa che alcuni autori del Dizionario Treccani dei Neologismi mi hanno appiccicato l’etichetta di politico più prolifico nell’inventare parole nuove?».

Un esempio?

«“Condonite”. Parola che usai per descrivere il continuo ricorso ai condoni di Silvio Berlusconi. Mi pare attuale. Poi “oggicrazia”, il potere senza memoria. Oppure “élitometro”, ideata tre anni fa».

Che cosa sarebbe?

«Il misuratore dell’avversione alle élite. Anche le prossime elezioni europee si giocheranno con questo strumento: vincerà chi risulterà meno assimilabile alle élite».

Il neologismo di cui va più fiero?

«“Post-bipolarismo”. Coniato nel 2010. Il bipolarismo tradizionale, centrodestra-centrosinistra, stava per esaurirsi. Con le elezioni del 2013 si è passati alla tripolarizzazione Pd-M5S-Centrodestra. E la cosa assurda è che il Pd ha affrontato le ultime politiche del 2018 come se non ci fosse stato questo cambiamento».

Si spieghi meglio.

«Il Pd nel 2013 ha preso meno voti del M5S, ma ha governato per cinque anni simulando una egemonia e una vocazione maggioritaria che non aveva più. Per evitare che Grillo e i suoi vincessero le elezioni del 2018, poi, è stato ideato un sistema proporzionale che avrebbe obbligato qualsiasi forza ad allearsi per andare al governo. Beh, il Pd ha affrontato il suo cammino senza farsi una domanda fondamentale».

Quale sarebbe?

«Qual è il mio progetto di Paese? E, visti i sondaggi che davano il M5S in forte crescita: Con chi mi posso alleare dopo le elezioni? Le domande che il Pd non si è fatto sono tante».

Ce ne dica qualcun’altra.

«Con quale tipo di attenzione bisogna porsi di fronte alle classi popolari che stanno soffrendo?. E soprattutto: che cosa vuol dire essere democratici, dov’è il potere del popolo, nel Ventunesimo secolo?. Cioè, come si rappresenta e si organizza il consenso dei cittadini nel 2019? L’attuale governo ha grandi consensi, oltralpe i gilet gialli hanno esordito con la simpatia del 70% dei francesi… Tu, Pd, stai ascoltando queste voci? Se continui a dire che questo è il governo più fascista della storia dimostri solo disprezzo. E la scelta di dividere il mondo tra i barbari al governo e i civilizzati all’opposizione è suicida. Il Pd sembra non aver fatto i conti con il tempo che cambia. Sarebbe urgente darsi un’identità anche partendo da temi molto concreti».

I gilet gialli sono considerati antiecologisti.

«Il compito della politica oggi dovrebbe essere quello di porre il tema del cambiamento climatico, ma allo stesso tempo ascoltare chi ti dice che le politiche di contenimento dell’inquinamento rischiano di non far arrivare a fine mese i cittadini. Quindi cercare di legare una moderna ecologia con la creazione di posti di lavoro. Il mondo è complesso, ma il compito della politica è proprio gestire la complessità. Anche per questo sono contro i personalismi: perché i problemi complessi vanno gestiti con squadre ampie e preparate».

Sembra la linea di Nicola Zingaretti, candidato segretario del Pd al prossimo congresso.

«Rispetto tutti i contendenti, ma non entro in queste vicende. Mi limito a dire che andrebbero evitate le scorciatoie. Possibile che un partito come il Pd non abbia una linea di sintesi su un tema complesso come l’immigrazione? Possibile che ci si abbassi al derby “sbarchi sì, sbarchi no”? Il problema è che cosa succede prima degli sbarchi – il traffico di esseri umani – e dopo gli sbarchi, con l’indispensabile, faticoso, sistema di integrazione».

Siamo di fronte al Colosseo. Ci dirigiamo verso un bar per una pausa caffè. Un gatto nero ci taglia la strada. Rutelli sui gatti è piuttosto superstizioso. Aspettiamo che qualcuno attraversi la traiettoria del micio. Accanto all’ingresso del locale staziona un bel cumulo di monnezza.

La Capitale è ridotta male.

«Non è bello che un ex sindaco si metta a pontificare».

Lei rifarebbe il sindaco?

«No, grazie. Un giorno potrei dare una mano a formare una nuova classe di dirigenti: Roma avrebbe bisogno di cento persone, di primissimo ordine, ultra preparate».

Dia un consiglio alla Raggi.

«Si circondi di persone più brave di lei nei diversi settori. Di orientamenti diversi. Senza badare al colore politico. Servono i migliori».

Lei da sindaco fece così?

«Certo. Roma era messa malissimo nel 1993, peggio di oggi: degrado, corruzione… Nominammo un direttore alle concessioni edilizie del Msi, perché era integro e competente. All’Atac misi un falco della destra confindustriale. Al Palazzo delle Esposizioni un gauchista come Renato Nicolini… Nessuno aveva paura di avere accanto uno più bravo. Dai più bravi si impara».

In quelle amministrazioni capitoline al suo fianco c’erano i Rutelli Boys: Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti, Michele Anzaldi e Filippo Sensi. Sono diventati tutti ultrarenziani.

«È così rilevante? Ho allevato classi dirigenti che avevano idee lontanissime dalle mie: il mio vicesindaco, Walter Tocci, era comunista, l’assessore al Bilancio, Linda Lanzillotta, era una liberista… L’elenco è lungo». Usciamo. All’ennesima vecchietta che ci chiede informazioni per strada Rutelli mi comunica di essere binonno. Comincia un po’ di amarcord politico-familiare. Quando gli domando se tra lui e sua moglie, Barbara Palombelli, per anni cronista politica, ci sia mai stato un conflitto di interessi, replica: «Il massimo del conflitto di interessi lo abbiamo raggiunto qualche anno fa, quando ho fatto il battitore della tombola durante la festa natalizia della trasmissione Forum».

Rutelli ha iniziato a fare politica a metà degli anni Settanta con i radicali.

Il primo incontro con Marco Pannella?

«Nel 1973, ero studente di architettura. Avevo letto un articolo sul Messaggero intitolato La fronda radicale e avevo pensato: “Io con questi sono d’accordo su tutto”. Presi il motorino e andai nella sede storica di via di Torre Argentina. Bussai, ma non mi aprì nessuno. Ribussai e alla porta si presentò Pannella. All’epoca faceva tutto lui, puliva anche per terra. Mi consegnò un po’ di opuscoli e di volantini e li portai a casa, dove vennero accolti come se fosse materiale satanico».

Prese subito la tessera del partito?

«No, mi iscrissi una volta raggiunto il diritto di voto, che era ancora a ventuno anni».

Il primo congresso?

«Nel 1975. Allora ero fidanzato con una ragazza che abitava all’Eur, nello stesso palazzo di Pier Paolo Pasolini. Un giorno lo incontrai sul pianerottolo e un po’ intimidito gli dissi: «So che parlerà al congresso dei Radicali. La verrò ad ascoltare». Lui mi rispose che aveva già scritto il discorso. Due giorni dopo venne ammazzato all’Idroscalo di Ostia. Il discorso di Pasolini fu letto al congresso dei Radicali da Goffredo Bettini, Ferdinando Adornato e Gianni Borgna, tre giovani dirigenti dei comunisti italiani vicini al poeta corsaro».

L’insegnamento di Marco Pannella…

«Se vuoi ottenere un risultato devi mettere in conto dei rischi. Quella radicale è una storia che andrebbe raccontata a tutti i ragazzi che oggi si lamentano dicendo che la società gli nega il futuro».

Non è così?

«Sì, ma bisogna rendersi conto che non esistono soluzioni facili a problemi complessi. Io vengo da una famiglia borghese e per molti anni ho buttato nel cesso i privilegi della mia condizione sociale. Si andava in prigione per difendere le proprie idee».

Lei è finito in galera?

«Mi sono fatto arrestare, in occasione di una protesta che portò alla chiusura della centrale nucleare di Latina nel 1980. In realtà non mi volevano ingabbiare, ma l’arresto serviva per dare visibilità all’azione politica, quindi organizzammo un escamotage».

Quale escamotage?

«Con il mio avvocato, Giandomenico Caiazza, ci presentammo al poligono militare situato di fronte alla centrale. Lì consegnai un volantino al carabiniere che piantonava l’ingresso».

Che cosa fece il carabiniere?

«Se lo mise in tasca senza guardarlo. Allora Caiazza lo esortò a leggerlo. C’era stampato l’invito a lasciare la postazione e disobbedire alla legge. E quell’invito era un reato. Appena il carabiniere ebbe compulsato il foglio, Caiazza si mise a urlare: “Ora deve arrestare Rutelli, altrimenti è denunciabile per omissione di atti di ufficio”. Alla fine mi feci tre giorni nel carcere di Latina».

Categorie : interviste
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