Ferzan Özpetek (Doppio Binario – 7 – Febbraio 2019)
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UN ENORME QUADRO che raffigura un ragazzo nudo incombe sul salotto. Tre vasi pieni di grandi rose rosse testimoniano il recente festeggiamento. Doppio Binario nell’appartamento del regista Ferzan Özpetek nei giorni del suo sessantesimo compleanno. Visto che è stato chiamato a fare il giudice del Festival di Sanremo cominciamo a parlare di musica. Mi dice che alcune canzoni lo fanno piangere ogni volta che le ascolta. Un esempio? «Mina». Gli domando se sia vero che lui ha un ottimo rapporto con la Tigre di Cremona e che nel suo prossimo film ci potrebbe essere una sua canzone. Özpetek sorride e con discrezione dribbla: «Cominciamo a girare a maggio. È una pellicola sull’Italia di oggi. Ad aprile, invece, porto Madama Butterfly al San Carlo di Napoli». Vista la cifra tonda, gli chiedo di fare un gioco, e cioè di chiudere gli occhi e di pensare a un’immagine che descriva ogni decennio della sua vita. Lui si assesta sulla poltroncina, strizza le palpebre e comincia a srotolare ricordi. Ogni tanto si perde, divaga e parte per tangenti riflessive.
Da zero a dieci anni.
«Ho circa nove anni, sono nel giardino della mia casa di Istanbul, all’ombra di due grandi tigli. È in corso un trasloco. In quel momento finisce un periodo della mia vita. L’abitazione successiva è quella dei tre tavoli…».
I tre tavoli?
«Un tavolo in cucina, uno in salotto e l’altro in terrazzo. Sempre apparecchiati. Mia madre e la signora Diamante, che ci aiutava, ai fornelli. Ma qui siamo passati al decennio successivo».
Quello dai dieci ai venti.
«La prima esplorazione della sessualità, le prime prove teatrali…».
A diciassette anni arrivi nella Capitale.
«Una meraviglia».
Roma anni Settanta: cortei e scontri di piazza, montagne di droga in circolazione…
«Ho un’altra immagine in testa. È un flusso di libertà. Io in trattoria a Trastevere con accanto il poeta spagnolo Rafael Alberti o per strada durante una perfomance con il living theatre di Julian Beck. Il sesso senza confini, un’amica che mi dice che suo marito vuole provare ad andare con un altro uomo, una fidanzatina conosciuta a un corso di moda che mi porta nel vicolo più stretto della città per fare l’amore. La scoperta della religione attraverso le chiese gonfie d’arte. E le cene. L’amico meccanico del rione Monti che aveva sempre in casa qualche intellettuale».
Dai venti ai trenta.
«Cinema, cinema, cinema. Ero iscritto a Lettere e frequentavo l’Accademia Silvio D’Amico…».
Come ti mantenevi?
«All’inizio grazie alla generosità di mio padre. Poi ho cominciato a fare l’aiuto regista».
L’immagine di quegli anni?
«Oltre alle terribili bottiglie di vino Lancers e Mateus che portavo a casa degli amici? Io che esco dagli studi cinematografici De Paolis. Sono da solo, è buio e realizzo la magia del cinema».
Che ci facevi da solo in uno studio cinematografico?
«Ero assistente alla regia nel film Scusate il ritardo di Massimo Troisi. Alle cinque gli portavo il tè coi biscotti. Quel giorno però mi diedero la responsabilità di chiudere il set. Avevamo girato per ore un interno giorno, con luci sparate. Quando uscii, era notte. Venni travolto dalla malinconia. Ma poi pensai: il cinema è proprio questo, la finzione di una giornata di sole, quando in realtà è buio e piove».
Dai trenta ai quaranta.
«Il set di Hamam…».
Titolo italiano Il bagno turco.
«Il mio primo film. Prodotto da Marco Risi, fatto con due lire. I costumi erano presi dal mio armadio, sul set cucinava mia madre e molti oggetti di scena venivano da casa di mia nonna. Quattro settimane meravigliose. Mille difficoltà, un milione di problemi. Riaffronterei volentieri tutto, anche domani». Ne avresti la forza? «Certo. Io dopo dodici ore sul set, torno a casa e preparo una cena per otto persone».
QUI SI APRE una parentesi culinaria. Ci spostiamo in cucina. Il tavolo da pranzo è quello del film Saturno contro. Özpetek si dichiara «genio della cottura» della pasta. Quando gli chiedo se sia un fan dei cooking show che imperversano nella tv italiana fa una smorfia di disgusto: «Ti dirò una cosa populista: detesto i piatti fighetti da ristorante stellato. A me piace l’Amatriciana. E sono un maestro di frittate». Poi torna al suo film d’esordio: «Il bagno turco è rimasto molti mesi in cantina. Il festival di Venezia non lo aveva preso. Da Berlino era arrivato quasi un insulto: «Non sei capace». Stavamo per perdere le speranze. Poi è arrivato a Roma Pierre-Henri Deleau per scegliere i film italiani per la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Stava per ripartire a mani vuote quando un proiezionista gli consigliò di vedere la mia pellicola. Dopo qualche giorno arrivò la telefonata: eravamo stati selezionati. La mia vita è cambiata quel giorno».
Il successo vero è arrivato più tardi. Tra i quaranta e i cinquanta.
«Anni d’oro. A 42 ho conosciuto Simone, la cosa più bella della mia vita».
Vi siete uniti civilmente in Campidoglio. Hai mai pensato alla paternità?
«No. Un’amica ci aveva anche proposto di aiutarci, ma non fa per me. È un discorso complesso che non amo affrontare. Il mio compleanno dei 40…».
Racconta.
«Pensavo a me stesso come un fallito».
Perché?
«Avevo girato solo due film, Hamam e Harem Suare. E uscivo da una relazione devastante. Mi vedevo vecchio. Avevo paura di dormire a casa da solo. Poi è girato tutto…».
L’immagine di quegli anni
«Io seduto sul pavimento di casa con Stefano Accorsi, beviamo, ascoltiamo musica e parliamo delle Fate ignoranti. In quel periodo mi sono fatto anche le prime canne… Oddio, si può dire?».
Certo.
«Frequentavo un giovane assicuratore e lui una sera mi fece fumare. Ci divertimmo parecchio. Quando cercai di procurarmi da solo un po’ di erba scoprii che la signora che faceva le pulizie in casa aveva un figlio che si occupava di questo commercio. Una sera però mi sono sentito male, quindi ho praticamente smesso».
Nel decennio quaranta-cinquanta, hai realizzato anche La finestra di fronte, Cuore sacro e Saturno contro.
«E ho preso coscienza di essere un regista, di saper “mettere in scena”. Prima pensavo che i film mi venissero così, quasi per caso. Il mio analista mi diceva: “Non puoi non sapere di essere un bravo regista”. In realtà sono ancora convinto di fare un lavoro che non è un lavoro. E non so mai che cosa uscirà fuori da una giornata di riprese. Per questo vado in giro con questi affari».
FERZAN SI ALZA E SVUOTA LE TASCHE. In quella sinistra, appeso a una catenella, c’è un minuscolo involucro che contiene un piccolo papiro giapponese. In quella destra c’è una miniatura delle ampolle del sangue di San Gennaro. Il regista mi invita a osservare un tavolo vicino a una finestra. È pieno di busti e statuine di San Gennaro. Ce ne sono anche su una mensola nel corridoio e sopra un armadio.
Özpetek e San Gennaro.
«Ero a Napoli per ritirare il premio San Gennaro. È successa una cosa che non mi ha rovinato la vita solo perché il patrono di Napoli mi ha protetto».
Che cosa è successo?
«Questo non lo posso dire, davvero».
L’ultimo film che hai girato è proprio Napoli velata.
«Un giorno ero al cinema Barberini e ho visto che in fila per vederlo c’era l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’indomani mi ha chiamato un’amica di un quotidiano per dirmi che il Quirinale cercava il mio numero. Poco dopo è squillato il telefono: “Pronto? Le passo il Presidente”. Napolitano mi ha detto che ho davvero capito Napoli, i suoi colori, i rumori, la luce delle strade. Gli ho risposto che quei complimenti valevano un Oscar».
Che rapporto hai con la critica?
«So che quando si ha successo molti cominciano a detestarti».
Le critiche più dure che hai ricevuto?
«Per Cuore sacro. Dicevano che descrivevo una povertà che in realtà non esisteva. Ora forse se ne sono accorti».
Ci sono scene di tuoi film che gireresti in modo diverso?
«Sì. Qualcosa di Rosso Istanbul. Mentre ero sul set mi sono accorto che non mi emozionavo e se non mi emoziono io, so che non si emozionerà nemmeno il pubblico. Ora, per esempio, mi capita di piangere pensando a un dialogo che ho immaginato per il prossimo film».
Qual è lo stato di salute del cinema italiano?
«A me piacciono molto Matteo Garrone, Paolo Sorrentino, Matteo Rovere. Registi attenti all’estetica, alla bellezza dell’immagine e alla costruzione del personaggio. Non mi piace vedere sullo schermo la luce biancastra e i personaggi poco profondi. Purtroppo però la maggior parte dei film in circolazione è così, roba piatta. Vince la banalità».
CI METTIAMO A PARLARE di stereotipi globalizzati, di Netflix («Ho fatto con loro un paio di riunioni, ma i progetti non coincidevano») e della sua esigenza artistica di raccontare e di condividere emozioni, prima ancora di fare botteghino. Quando lo invito a darmi l’ultima immagine a occhi chiusi, quella del decennio tra i cinquanta e i sessanta, Özpetek introduce il tema della morte: «In realtà non amo la parola “morto”, preferisco “andato via”». Il regista negli ultimi anni ha perso la madre e un fratello: «Qualche giorno fa se ne è andata Raffaella Fioretta, amica cara e pilastro del mondo del cinema italiano. Ecco, ogni volta che una persona a cui tengo ci lascia, mi mancano le forze. È come se mi venisse a mancare un appoggio per affrontare le persone orribili che circolano in questo periodo».
Chi sono le persone orribili?
«I perennemente arrabbiati. I violenti. Gli incattiviti».
IL REGISTA COMINCIA a parlare del web, cita Umberto Eco: «Con i social network si dà voce a tutti gli scemetti che prima nei bar venivano zittiti appena aprivano bocca».
Frequenti i social network?
«Poco Twitter. Facebook in incognito. Instagram mi piace molto. Ma pensa che bello un mondo senza internet».
Come, scusa?
«I rapporti umani si ammorbidirebbero, ci si incontrerebbe di più di persona e forse si placherebbe anche la sensazione che la vita scorre in fretta».
Senza internet: meno comunicazione, meno servizi, meno informazione.
«Informazione? Molti politici hanno fatto la loro fortuna attraverso informazioni false circolate sul web».
I politici oggi…
«Molti sono terrificanti. Ascolto con amarezza le loro dichiarazioni sciatte».
Tu sei immigrato in Italia dalla Turchia quando avevi diciassette anni. Oggi gli immigrati sono un bersaglio. Siamo diventati razzisti?
«Il sultano dell’Oman non viene accolto da insulti. E nemmeno le principesse centroafricane che alloggiano negli hotel a cinque stelle. Il razzismo è nei confronti dei poveri. Il povero-diverso fa paura. Abbiamo perso il contatto con l’umanità. Abbiamo esaurito l’empatia. Hai visto il disegno di Makkox che raffigura il ragazzo affogato nel Mediterraneo che si era cucito la pagella nella tasca interna della giacca? A me quell’immagine fa piangere».
ÖZPETEK si mette effettivamente a piangere. Poi continua: «Ho inviato quel disegno ad alcuni amici e mi hanno risposto: “Dovremmo aiutarli a casa loro”. Ma vaffanculo! Sono stato tentato di cancellare i loro numeri. E con questo non voglio negare che ci sia un problema di integrazione, anzi…».
Anzi.
«Quando non riconosco più i negozi sotto casa, quando non sento più parlare italiano, perdo l’orientamento».
Stai prendendo una piega sovranista.
«Ma no, è solo che se mi perdo io, figuriamoci chi non ha studiato o non si può informare. Ho capito che c’erano problemi seri quando ho visto l’insegna di un negozio che diceva “pizza-kebab”».
Perché “pizza-kebab” è un problema?
«Io sono un sostenitore del confronto tra le culture, delle ibridazioni, ma non si può arrivare ad annullare la propria identità. Da questo punto di vista probabilmente sono più italiano di te, sono più attaccato alle tradizioni italiane di quanto non lo sia tu. Non è un caso che io viva nello stesso palazzo romano da più di trentanove anni».
Roma.
«È la mia città».
La sindaca Virginia Raggi.
«Non è più il mio sindaco».
Da quando?
«Da quando ha cambiato l’illuminazione stradale. Se a Roma togli il calore giallo delle lampade e metti le luci al LED bianche, io non ti perdono più».