Carlo Lucarelli (Doppio Binario – 7 – Gennaio 2019)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 31 gennaio 2019)

APPENA entriamo nel locale, la barista Gisella da dietro il bancone comincia a sventolare una maschera di carta con le sembianze dell’intervistato. Gli occhi sono perforati. Sembra il souvenir macabro di un rito vudù, invece è il ricordo di un festeggiamento per la consegna dei diplomi della scuola di scrittura “Bottega Finzioni”. Doppio Binario sotto i portici bolognesi con Carlo Lucarelli, gran cerimoniere della letteratura noir e maestro di suspense. Cinquantotto anni e una sessantina di volumi pubblicati, Lucarelli è padre di due gemelle di sette anni, Angelica e Giuliana, e di un manipolo di personaggi letterari che a volte si sono evoluti in star della fiction: il Commissario De Luca, il Capitano Colaprico, Coliandro… Il grande pubblico lo conosce per come ha raccontato in tv i fatti di cronaca e i misteri d’Italia: assassini, stragisti, saponificatori, serial killer e delinquenti assortiti. Vi ricordate? Lui che si aggira, look total black, tra sagome di cartone e prove del delitto tenendo le mani congiunte. Fabio De Luigi gli ha dedicato un’imitazione esilarante in cui concludeva ogni frase dicendo: «Paura, eh!». Lucarelli dice: «Quella caricatura mi ha cambiato la vita. Ci sono parole che non posso più pronunciare. Se dico la parola “paura” ormai la gente ride». Dopo le trasmissioni Rai Mistero in blu, Blu notte, Lucarelli racconta e La tredicesima ora, lo scrittore è passato a Sky e ha messo in onda Profondo nero e Muse inquietanti. Ora su Sky Arte tocca agli Inseparabili (in onda il martedì, dal 29 gennaio). Cioè le storie di chi ha fatto la fortuna dei geni restando un po’ nell’ombra: Mary Austin, l’amore della vita di Freddie Mercury, Alma Reville, la moglie di Alfred Hitchcock, Dino Valdi, la controfigura di Totò. Spiega: «Il gioco di specchi tra Totò, che nella realtà era il principe De Curtis, e Dino Valdi, che è lo pseudonimo di Osvaldo Natale, è incredibile. Dato che il principe non arrivava sul set prima di mezzogiorno, a Dino toccava girare di mattina tutte le scene da lontano. Senza di lui Totò non avrebbe mai realizzato tutti quei film». Mentre camminiamo verso il cinema Lumière cominciamo a parlare della narrazione e di come questa parola, narrazione, sia diventata protagonista anche della politica italiana. Lucarelli: «La narrazione è lo strumento con cui si sintetizza la complessità e con cui si rende familiare un fatto». Il nostro incontro si svolge nei giorni delle polemiche sul “Franco coloniale” e sulle navi cariche di migranti. Lo scrittore suggerisce una riflessione su una narrazione mancante, quella sul colonialismo italiano: «Se nel Secondo Dopoguerra ci fosse stata una narrazione seria e completa, non ideologica, sui nostri comportamenti nelle colonie, oggi certi meccanismi deplorevoli sarebbero più familiari. Noi siamo stati anche colonizzatori razzisti, cattivi, feroci. Non solo in epoca fascista. Abbiamo rimosso e costruito il mito degli “italiani, brava gente”. Oggi diciamo “aiutiamoli a casa loro”, ma molti non sanno nemmeno dov’è casa loro». Lucarelli vive a Mordano, cittadina della provincia bolognese, con sua moglie Yodit, che è american-eritrea: «Mi fa paura l’idea che qualcuno per strada possa maltrattare mia moglie per le sue origini. L’ho conosciuta in Italia, ci siamo sposati qui. Lei sarebbe andata a vivere volentieri nella sua New York, sono io che non sono voluto emigrare. Le mie figlie sono meticce e quando siamo ad Asmara per loro usiamo i nomi eritrei Manna e Abeba…».

A scuola hanno mai subito discriminazioni?
«No, no. A Mordano ci sono bambini di tutti i tipi e tra di loro stanno benissimo. Temo di più gli adulti».

Alle ultime elezioni amministrative di Imola, Lucarelli si è offerto come consulente della candidata di centrosinistra per le questioni legate alla sicurezza.

Il centrosinistra ha perso. Il M5S ha conquistato il municipio e la Lega è cresciuta a dismisura, anche grazie a una narrazione anti-immigrati. 

«Basta pensare che molti bolognesi hanno paura e sono convinti che la loro città sia invivibile, pericolosa e insicura. I quotidiani e le statistiche dicono altro. Ma la narrazione della paura fa presa».

Come la si contrasta?
«Non basta sciorinare dati e dare dello scemo a chi ha paura. Le paure sono legittime anche quando sono prive di fondamento. Vanno capite. Qualche anziano avrà paura perché vede facce straniere e non riconosce più il quartiere, qualcun altro perché le città sono anche degradate. Bisogna ascoltare e poi proporre integrazione, armonizzazione, conoscenza. Sarebbe utile parlare dei pericoli reali e di quelli percepiti».

Mi fa un esempio?
«Sono presidente di una fondazione regionale che si occupa di vittime di violenza. Conosco le statistiche e sono un’infinità le persone malmenate ogni giorno».

Per strada?
«No, soprattutto in casa. A chi dice che per la sicurezza delle città andrebbero aumentate le telecamere e il numero di carabinieri in circolazione, rispondo che le telecamere andrebbero messe nelle camere da letto e i carabinieri in cucina. Perché è lì che si annidano le violenze italiane. Quelle frequenti dei mariti contro le mogli, che non sono appannaggio degli extracomunitari. C’è anche la violenza sotto i portici, certo, ed è un problema che va risolto, ma le statistiche dicono che i dati più rilevanti riguardano fattacci casalinghi: il maschio che usa violenza per prendersi qualcosa che crede sia un suo diritto è molto comune».

Anche sulle violenze domestiche manca una narrazione adeguata?
«Noi la facciamo. Andrebbe sviluppata di più a livello istituzionale».

Servirebbe una serie tv.
«Sì, ma andrebbe fatta bene. A volte le serie italiane sono un po’ edulcorate: il maschio mostro, la vittima costruita a modo e nessuna possibilità che il telespettatore si immedesimi nell’assassino. In una fiction sul femminicidio mi dovrei riconoscere nel maschio violento e alla fine di ogni episodio dovrei pensare: “Cavolo potrei essere io quel violento, potrebbe essere mio fratello, il mio babbo…”».

Passiamo da un portico squadrato a uno con la volta a botte, ci fermiamo di fronte a una locandina che annuncia la proiezione di Uccelli di Alfred Hichcock. Comincia una discussione sul fatto che nella tv italiana appena ci si allontana da un pasto catodico nazional-popolare apparecchiato con preti investigatori e con carabinieri paffuti, scoppiano le polemiche sul rischio di emulazione. È successo con il Capo dei capi, con Romanzo Criminale, con Gomorra, tutte serie accusate di descrivere i malvagi in modo troppo attraente. Lucarelli: «L’accusa di essere criminogeni ci viene fatta di continuo. Sa qual è il film più disastroso da questo punto di vista?».

Quale?
«Il padrino. Se dovessimo puntare il dito sul film che descrive i cattivi nel modo più affascinante, Il padrino andrebbe censurato, e Mario Puzo sarebbe dovuto finire in galera. C’è una visione della mafia talmente epica! Ma possiamo togliere Il padrino dalla storia del cinema? No, perché dal punto di vista artistico è un capolavoro. I Soprano…».

… serie cult sulla mafia italo-americana del New Jersey sceneggiata da David Chase…
«… è un’altra cosa. I mafiosi sono sfigatissimi. Io mi sono commosso quando è morto il personaggio Bobby Baccalà, ma non avrei mai voluto essere lui. Sono favorevole alla totale libertà artistica, ma poi sarebbe bene parlare di più dei film e delle serie tv…».

Urge un ampio e approfondito dibattito?
«Perché no? Oppure la messa in onda di trasmissioni che spieghino il contesto in cui si muovono i personaggi». Torniamo nella sede di “Bottega finzioni”, la scuola di scrittura fondata dallo stesso Lucarelli. C’è un gruppo di studenti che ha appena terminato una lezione. Le pareti sono gonfie di librerie. Dvd con film gialli, noir e horror ovunque. Su un tavolo di legno spicca il cofanetto della serie X-Files. Da una porta fa capolino un signore anziano. È Loriano Macchiavelli, decano dei giallisti bolognesi. Lucarelli comincia a descrivere i meccanismi narrativi con cui si costruisce la suspense, le pause, il crescendo che porta alla paura.

Lei di che cosa ha paura?
«Dei granchi e delle aragoste».

Davvero?

«Li mangio, ma se me li ritrovo vivi davanti… credo sia una fobia legata alla mia infanzia. Quando ero piccolo andammo a vivere per un anno a Boston. Lì le aragoste non costavano nulla e ricordo una volta che ho aperto il frigorifero ed era pieno di crostacei arancioni».

Lei ha frequentato Bologna alla fine degli anni Settanta. Ha mai fatto politica? 

«No. Ero il classico studente apolitico di Faenza. Sono famoso tra gli amici per una storia comica che poteva rivelarsi tragica».

La racconti.
«11 marzo 1979. A Bologna c’era la manifestazione per l’anniversario della morte di Francesco Lorusso…»

. …il militante di Lotta Continua ucciso dalle forze dell’ordine nel ’77… 

«… si prevedevano scontri. Allora con i miei compagni di Università decidemmo di tenerci alla larga e invece di prendere i mezzi pubblici andammo all’Università con la mia macchina. Io lasciai persino a casa un piccolo coltellino, per non rischiare nulla. Quando rientrai a Faenza e mia madre mi vide sulla Ritmo, si mise a ridere».

Perché?

«Perché il giorno prima l’auto era stata usata dal suo compagno, Gaetano. Professione: rappresentante per una ditta d’armi. In pratica ero andato a Bologna, nel giorno del corteo, con un baule che conteneva due pistole e tre fucili. Se mi avessero fermato, probabilmente mi avrebbero arrestato e avrebbero buttato la chiave».

L’amarcord lucarelliano prosegue con le immersioni fumettistiche, le prime letture noir e il gruppo punk di cui era cantante (i Progetto Kappa).

Lei quando ha pubblicato i suoi primi lavori?
«Ho cominciato a mandare manoscritti alle case editrici a quattordici anni. Per molto tempo allegavo alle mie opere una lettera in cui annunciavo: “So che non è un granché, ma sono giovane…”».

Che libri erano?
«Ho sperimentato molto. Storie che si svolgevano all’estero, ispirate ad Agatha Christie, poi a Raymond Chandler. Una volta letto Giorgio Scerbanenco mi decisi ad ambientarle in Italia. Alla fine degli anni Ottanta feci un piano di invio del manoscritto di Carta bianca…».

… il primo romanzo della serie del Commissario De Luca, ambientato negli anni della Repubblica di Salò…
«… studiavo Storia contemporanea, ero fuori corso a Lettere».

Come si manteneva?

«Scaricando frutta, facendo un po’ di lavoretti».

Torniamo al piano di invio del manoscritto.
«Avevo previsto di inviarlo ogni tre mesi a tre case editrici. Le prime tre furono Mondadori, Sugarco e Sellerio. Dopo qualche giorno mi chiamò Elvira Sellerio».

Proprio lei?
«Sì. Ero a casa. Risposi al telefono e sentii la sua voce: “Pubblichiamo il suo romanzo, è contento?”. E io gelido: “Sì, certo”. Ero convinto che fosse qualche amico che mi faceva uno scherzo. Invece…».

Quanto ci mette a scrivere un romanzo?
«Dipende. Agli editori dico sempre una data precisa di chiusura, ma in realtà non ne ho idea».

Possibile?

«Essendo uno scrittore di gialli so che il meccanismo che sto costruendo a un certo punto dovrà quadrare. Ma io procedo a tentoni. Scopro giorno dopo giorno quel che succede. Appendo sulla porta del bagno di casa una fila ordinata di post-it su cui segno quel che ho già scritto e sotto attacco a macchia di leopardo tutte le idee che vorrei inserire, i particolari che mi vengono in mente. Perdo molto tempo a osservare quella porta».

Lo scrittore Maurizio De Giovanni sostiene che quella gialla sia la vera letteratura sociale.
«Lo diciamo da tempo. Raccontiamo quello che non funziona sul territorio. Lo abbiamo fatto anche quando negli anni Ottanta e Novanta la grande narrativa italiana era tutta minimalista e intimista».

Giallisti. Siete una marea, ma non vincete un premio.
«Siamo cresciuti nel ghetto della critica. Ci siamo fatti per anni gli affari nostri e questo ci ha permesso anche di fare gruppo».

Il titolo di un volume di un giallista che meriterebbe lo Strega?
«Alcune cose scritte da Andrea Camilleri. E poi, senza vantarmi, qualcosa di mio». Tipo? «L’ottava vibrazione. Mi scoccia abbastanza che non sia mai stato preso in considerazione. Il premio più ambito dai giallisti comunque è il Franco Fedeli, viene assegnato a Bologna da poliziotti scrittori e lettori».

Che cosa pensano le forze dell’ordine delle avventure dei suoi poliziotti? 

«Una volta alla presentazione di un libro della serie di Coliandro mi si è avvicinato Maurizio Matrone, poliziotto e romanziere e mi ha detto: “Hai scritto un sacco di boiate”».

Come ha reagito?
«Ho cominciato a frequentare di più la questura».

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