Antonino Cannavacciuolo (Doppio Binario – 7 – Dicembre 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 6 dicembre 2018)

IL PESCIOLINO DI METALLO si muove sul fondo scodinzolando. L’acqua è limpidissima. Le grosse dita fanno ondeggiare la canna. Il filo si tende: «L’hai preso!». Poi la delusione: «Niente. Fa troppo freddo, i lucci restano in profondità». Doppio Binario a pesca con Antonino Cannavacciuolo, cuoco bistellato e star della tv mangereccia. Siamo sul Lago d’Orta, in Piemonte, su un pontile a pochi passi da Villa Crespi: un castelletto con minareto e architettura moresca che ospita il ristorante dello chef. Cannavacciuolo ha 43 anni e frequenta le cucine da sempre. Ci diamo del tu. Anche suo padre era cuoco. Quando gli chiedo se ricorda il momento in cui ha deciso che avrebbe vissuto pure lui tra le pentole, racconta: «Ho in mente una fotografia. Io che, a sette anni, entro nella cucina di papà, i fumi dei bollitori che invadono l’aria e la brigata di omoni con mestoli e coltelli che mi sorridono e mi vengono incontro per salutarmi. Una magia. Eppure i miei genitori non mi avrebbero voluto cuoco».

Perché?
«Una volta ho sentito mia madre dire alle sue amiche: “Io sono vedova”».

In che senso?
«Mio padre lavorava dalle sette di mattina all’una di notte. Mamma andava da sola ai matrimoni e ai festeggiamenti di famiglia. Papà non c’era mai. Ora io, oltre ai fornelli, ho pure la tv. Mi porto dietro questo lavoro sempre, qualsiasi cosa faccia».

Non esagerare.
«L’unico momento in cui la bastarda non sta in mezzo è quando vengo a pesca».

La bastarda sarebbe la cucina?
«Eh sì».

La cucina è la tua fortuna: sei il reuccio dei cooking show.
«Per la cucina ho perso la gioventù e ora mi sto perdendo i momenti migliori della mia famiglia».

Da quando sei in tv con MasterChef e con Cucine da incubo il fatturato del tuo ristorante si è quintuplicato.
«Guadagnavo bene anche prima e avevo un po’ più di tempo libero, e quello è il vero tesoro contemporaneo. Questa settimana ho promesso a mio figlio Andrea, che ha sei anni, di portarlo a pescare, ma non sono ancora riuscito: sono appena finite le riprese dell’ottava edizione di MasterChef, che andrà in onda a gennaio».

Cannavacciuolo, nato e cresciuto a Vico Equense, accanto a Sorrento, parla con fortissima cadenza campana. Durante tutta l’intervista alterna momenti di romanticheria malinconica a brusche accelerazioni finto burbere, che generalmente in tv si chiudono con una potente pacca sulle spalle dell’interlocutore. Mentre racconta della sua indole da gigante buono del lago («Rilascio sempre liberi i pesci pescati e se becco qualcuno che usa le reti, gli vado contro») torno un po’ sul suo ruolo di padre.

Hai già insegnato a cucinare ai tuoi figli?
«Il piccolo taglia bene, usa coltelli professionali. La grande, Elisa, undici anni, pensa soprattutto a studiare».

Tuo padre è stato un buon maestro?
«Mi ha iniziato subito all’uso delle lame: per pelare le patate, per dividere le bestie quando arrivavano intere. Dovevo selezionare spezzatino, braciole, filetti. La manualità, insomma. Il ristorante di cui papà era chef in certi giorni faceva anche diciotto banchetti. Si correva. Da ragazzo, quando non ero in cucina con lui, giravo per i boschi, a caccia, o andavo a pesca. Tiravo su un polpo dopo l’altro, facevo l’orto con mio nonno, ho fatto nascere parecchi vitelli… A Vico la mia vita era così. Poi a un certo punto dopo un paio di anni che lavoravo in cucina, mio padre mi ha cacciato».

Cacciato?
«Mi ha invitato a non lavorare più con lui. Diceva sempre: “Il cuoco vive con la valigia pronta”».

Dove sei andato?
«Sono venuto in questa zona».

Come mai?
«C’è una tradizione di chef secolare. Nella brigata di Auguste Escoffier, uno dei padri della cucina moderna, c’erano molti cuochi di Armeno, a pochi chilometri da qui. Prima entrai nella cucina di un hotel cinque stelle e poi in quella dell’Approdo, proprietà dei genitori di mia moglie».

Cinzia Primatesta. È anche la tua socia.
«È più tossica di lavoro di me».

La vulgata ti vuole allievo di Gualtiero Marchesi e temprato sin da giovanissimo tra i fuochi di grandi ristoranti francesi.
«Marchesi era consulente dell’Hotel Quisisana di Capri mentre ci lavoravo io. All’estero ho cominciato ad andare durante le stagioni di chiusura di Villa Crespi. Quest’anno tra l’altro per la prima volta resteremo aperti tutto l’inverno».

Le stagioni all’Auberge de l’Ill di Illhaeusern e al Buerehiesel di Strasburgo.
«Era come stare al luna park. Le preparazioni, la mentalità, il ritmo. Lavoravo e pensavo che sarei voluto diventare bravo come loro. Con quelle attrezzature…».

Le attrezzature?
«Certo. Quando ho aperto Villa Crespi nel ‘99 avevo una cucina arrangiata che non mi permetteva di affrontare certi obiettivi. Anno dopo anno ho cominciato a comprare macchinari».

Nel 2003 è arrivata la prima stella Michelin e nel 2006 la seconda. Compri ancora macchinari?
«Ora sto cercando degli affumicatori norvegesi».

Come mai?
«Voglio lavorare sull’acidità delle verdure e sulle affumicature che fanno parte della mia tradizione, delle mie radici campane».

Le radici in cucina. Pensi mai di aprire un locale nella tua Vico Equense?
«Lo sto già facendo. Nella vita, non mi vergogno a dirlo, ho pensato soprattutto al business. Ora voglio aprire un luogo dedicato solo al benessere di chi lo frequenta. Le radici e la memoria comunque sono una chiave culinaria fortissima. Sto pensando di accogliere i clienti del mio ristorante con un’esplosione emotiva del passato».

Realizzata come?
«Riproducendo con una tartelletta la sensazione della scarpetta fatta con il pane nella pentola dove è stata cucinata una genovese: carne, cipolla…».

Ci allontaniamo dal pontile. Non abbiamo preso neanche un girino. Smontiamo le canne. Provo a fare qualche domanda sulla politica italiana. Lo chef mi stoppa: «La politica non mi appartiene proprio. Credo che al momento servano soprattutto buoni cittadini». Torniamo sulla cucina. Cannavacciuolo mi mostra un foglio scarabocchiato: disegnetti, figure geometriche, liste di ingredienti. Legge: «Piccione, mirtillo, rape, puttanesca. Le idee me le appunto così». Parliamo di come è cambiata la cucina negli ultimi venti anni: «Oggi nel piatto ci deve essere un’identità e gli ingredienti devono essere riconoscibili». Mi chiede se voglio assaggiare qualcosa. Replico: «Qualcosa di tuo, tipico». Mi fulmina con gli occhi: «Tipico?». Io: «Intendevo, un tuo piatto forte». Lui: «Qualcosa con carne e pesce insieme? Oppure… La triglia». Vada per la triglia. Gli propongo un gioco.

Chiudi gli occhi e pensa al piatto della tua infanzia.
«Il ragù napoletano. La domenica mi svegliavo e la casa era invasa dal profumo. Mia madre allora prendeva ‘o culurc…».

Che cosa prendeva?
«Il culetto del filone di pane. Lo svuotava dalla mollica, lo riempiva con carne e sugo e ritappava tutto con la mollica. Io mi mettevo sulle scale a mangiare».

La colazione del campione.
«Un racconto di felicità. Un’emozione bellissima, una goduria. Mangiare deve essere questo. Un cuoco deve far godere ed emozionare».

Tu come riconosci un talento in cucina?
«Lo guardo negli occhi».

Boom. Gualtiero Marchesi diceva che gli bastava vedere come un ragazzo accendeva il fuoco sotto una pentola.
«La tecnica si impara, la dolcezza emotiva no. Se uno è ‘nu piezz’ ‘e mierd, trasmetterà nel piatto solo merda, te lo assicuro. E poi c’è la capacità di stare in gruppo».

Il gruppo. La brigata quanto è importante per uno chef?
«È tutto. Considero Villa Crespi anche una piccola scuola. Qui ci si forma. Ho due angeli custodi: Simone e Gabriele».

Simone Corbo e Gabriele Tratzi, i sous chef di Villa Crespi.
«Mi confronto continuamente con loro. La squadra mi permette di avere standard altissimi per tutti i tavoli, anche quando non ci sono».

Ti capita spesso di non esserci?
«No. Da un paio di anni sono tornato tutte le sere in cucina. Ma all’inizio dell’esperienza in tv mi sono un po’ distratto».

Hai due stelle. Come si ottiene la terza?
«Con un po’ di fortuna e mantenendo gli standard alti. Io credo di poter migliorare molto sul racconto da fare al cliente, ci sto lavorando con il manager di sala Massimo Raugi».

Che rapporto hai con la critica?
«È uno stimolo. Dopodiché noi dobbiamo soprattutto avere rispetto per il cliente: facciamo da mangiare, non salviamo la vita alla gente».

Hai mai subito attacchi dolorosi da parte della critica?
«Sì. Quando i Nas hanno sollevato una questione legale sugli asterischi del menù relativi alla freschezza del pesce nel mio locale di Torino, sono usciti articoli in cui si sosteneva che prendessi in giro i clienti. Mi hanno fatto male. Alla fine il giudice mi ha dato ragione».

È vero che molti clienti vengono nel tuo ristorante più per farsi un selfie col giudice di MasterChef che per mangiare i piatti di Cannavacciuolo?
«È stato così nei primi anni in cui facevo tv. E un po’ mi dispiaceva. Ora so che vengono per i piatti, anche se a fine pasto ci facciamo una foto insieme».

MasterChef. Qualche anno fa, il tri-stellato Massimiliano Alajmo disse proprio a 7 che i cooking show hanno più a che fare con la competizione che con il cibo e la cucina.
«Massimiliano è uno degli chef che stimo di più. Però su MasterChef bisogna decidersi. I telespettatori vedono solo la gara e i quarantacinque minuti del montaggio finale. Io vedo i concorrenti lavorare tanto e studiare. Nella mia brigata, ai primi, c’è un ragazzo che ho conosciuto a MasterChef. E tra i partecipanti di quest’anno, ce ne sono tre o quattro che porterei volentieri in cucina».

Oltre agli show in tv ti concedi anche agli spot commerciali: gorgonzola, caffè, pasta…
«Tutti prodotti che apprezzo davvero».

Un grande chef che sponsorizza prodotti industriali.
«Che male c’è? Spesso la grande industria multinazionale si può permettere il meglio».

Multinazionali. Se tua figlia ti viene a chiedere di festeggiare il compleanno in un fast food…
«Provo a comprare il locale per poi dargli fuoco, ahahah. Lo sai che una grandissima catena di hamburger era disposta a sborsare due milioni di euro per farmi progettare tre panini?».

Pecunia non olet.
«E invece sai che cosa ho fatto? Ho declinato l’offerta».

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