Pietro Valsecchi (Doppio Binario – 7 – Ottobre 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 24 ottobre 2018)

SCENDE CON PASSO INCERTO: ha un’ernia da operare e Platone, un minuscolo bassotto a pelo ruvido, in braccio. Le scale che portano da Castel Sant’Angelo al fiume sono piene di monnezza e puzzano di pipì. «La vetrina della Capitale!», esclama lui. Arriviamo al barcone: «Salpiamo». Doppio Binario sul Tevere con Pietro Valsecchi, 65 anni, cremasco, produttore di cinema e tv. Da trent’anni occupa le prime serate delle reti Mediaset con storie di truci mafiosi, eroi borghesi, poliziotti gigioni e pontefici assortiti. Da dieci anni porta nei cinema Checco Zalone, personaggio spaccabotteghini, che con quattro film ha incassato circa 170 milioni di euro. Ora Valsecchi, insieme con la moglie Camilla Nesbitt, sta sbarcando a Parigi: ha appena portato nelle sale francesi Le jeu, remake di Perfetti sconosciuti e sta lavorando alle versioni transalpine dei film di Zalone. Domando: «In quanti hanno tentato di sottrarglielo?». Replica: «Ci hanno provato tutti. Aurelio De Laurentiis la scorsa Pasqua ha proposto a Luca una vacanza a Miami con tutta la famiglia. Lui ha declinato l’invito».

PIETRO VALSECCHI HA DUE FIGLI, Virginia e Filippo, e coccola Luca Medici – il vero nome di Checco Zalone – come se fosse il terzogenito. Chi frequenta la sua casa di Palazzo Borghese sostiene che siano frequenti i loro duetti canori.

Checco Zalone manca dalle sale da molto tempo.

«Da quasi tre anni. A gennaio torna sul set».

Qualche anticipazione?

«Il film sarà un viaggio molto personale tra l’Africa e l’Italia».

Checco Zalone sulle orme dei migranti?

«Non rovino la sorpresa. Luca è poetico e precisetti. Meticoloso fino a diventare un cacadubbi. Si mette continuamente in discussione. Scrive, cancella, gira, rigira…».

Il regista non sarà quello storico di Checco Zalone, Gennaro Nunziante.

«Un piccolo disguido caratteriale. Non ci siamo trovati. Luca si dirigerà da solo».

VALSECCHI HA FAMA DI BURBERO ruvidissimo, capace di scenate scorticanti. Glielo rinfaccio. Sorride: «Il lupo cattivo ha perso un po’ del suo pelo. Non sono un orco».

È stato l’unico a portare in giudizio Bernardo Bertolucci.

Ride. «Bernardo era il produttore. Ci rimasi male perché decise di doppiare la mia performance nel film Sconcerto Rock. Ero giovane. Un giovane attore cane».

Ha sottratto con l’inganno un Orso d’argento a Marco Bellocchio.

«Glielo chiesi in prestito per un servizio fotografico e non lo restituii. Me lo meritavo: avevo prodotto il suo La condanna. Spendendo e perdendo parecchi soldi. Voleva cambiare continuamente scene e attori. Diciamo che con Marco ho imparato a fare il produttore».

Con Roberto Faenza ci furono problemi sul set del film tv Il delitto di via Poma.

«Ma no, chiesi solo di girare qualche scena in più. E mica gratis».

Un produttore interviene spesso sul lavoro di un regista?

«Può succedere. Ma mai come quanto accade ora con Netflix. Netflix impone un linguaggio. Stanno fagocitando tutto. Il rischio è che tra dieci anni avremo perso l’identità dei nostri film. Rischia di diventare tutta una pappa omologata».

Come ci si difende?

«Creando brand forti».

Un esempio?

«Gomorra. È un brand. Io e Camilla stiamo realizzando una serie sulla moda italiana. Anche quello è un super brand».

LO PROVOCO: MEGLIO l’omologazione di qualità che le nostre serie tipo Distretto di polizia, con poliziotti bonaccioni e sketch semicomici. Mi fulmina. Distretto è un successo tv a cui è legatissimo: «Diciotto anni fa, quando è nata la serie, era un prodotto molto innovativo…». Ride.

Perché ride?

«Mi è tornato in mente come scelsi Marco Marzocca, l’attore che interpretava uno dei poliziotti più buffi».

Racconti.

«Un giorno Corrado Guzzanti mi venne a trovare a Sabaudia con Marzocca, che avrebbe gradito una parte. Dopo pranzo accesi un sigaro e Marco, che non aveva mai fumato, me ne chiese uno. Dopo qualche minuto cominciò a vomitare in mezzo al salotto. Beh, quella vomitata me lo rese simpatico e lo scritturai per Distretto».

Con Guzzanti ha mai lavorato?

«Poco dopo quel pranzo a Sabaudia firmammo un contratto che lo legava a me per il suo primo film».

Film mai realizzato.

«L’ansia e i dubbi di Guzzanti non ci aiutarono. Dopo quaranta versioni della sceneggiatura Corrado si arrese e abbandonò il progetto. Trascorso qualche mese mi arrivò una busta con un assegno da ottanta milioni di lire. Erano i soldi che avevo pagato per opzionare Guzzanti e lui me li restituiva. Un gesto di grande signorilità».

COL BARCONE PASSIAMO ACCANTO a una baracca galleggiante simile a quella dove si svolge la trasformazione in supereroe di Claudio Santamaria in Lo chiamavano Jeeg Robot. La indico. Valsecchi commenta: «Quello è stato uno degli ultimi film italiani con un’idea nuova. Il nostro cinema rischia di morire. Anzi è morto per mancanza di idee. Abbiamo attori, registi, ma di sceneggiatori capaci ce ne sono pochi». Mi chiede polemicamente: «Quale grande pellicola italiana ha atteso con ansia di vedere alla Festa del Cinema in corso a Roma?». Si risponde da solo: «Si vedono solo film pesi piuma».

Lei quale regista aspetta con ansia nelle sale?

«I soliti: Paolo Sorrentino e Matteo Garrone».

L’attore migliore in circolazione?

«A parte Luca Medici?».

Checco Zalone a parte.

«Kim Rossi Stuart».

Ci ha mai lavorato?

«Certo, l’ho scoperto io».

Come?

«Ero in macchina sul Lungotevere all’altezza di Ponte Milvio, ho visto questo ragazzino bellissimo e gli ho detto: “Vorresti fare un provino?”. Raccontata così sembra la storia di un maniaco rimorchione. In realtà all’epoca ero aiuto regista sul set del film di Marcello Aliprandi I ragazzi della valle misteriosa. Kim fece il provino e prese la parte».

Valsecchi aiuto regista.

«Odiavo andare sul set la mattina all’alba. Ero pessimo».

Attore cane, pessimo aiuto regista.

«Penso di essere un buon montatore, però. Colgo l’emozione».

Lei è anche un bon vivant: la sua casa è un porto di mare. La leggenda narra di un Robert De Niro brillo…

«Una sera il regista Giovanni Veronesi, che stava girando con De Niro, lo portò a cena da me. Lui appena entrato si scusò perché era stanchissimo e quindi sarebbe rimasto solo una mezz’oretta. Alla fine se ne è andato alle due di notte dopo essersi bevuto con noi una verticale di vini straordinari. Mi piace mettere insieme le persone. Condividere pensieri. Negli Anni 60 e 70 a Roma, nell’ambiente del cinema ci si scambiavano idee e progetti, ci si aiutava. Ora regna un individualismo asfissiante. Ci sono più idee sul futuro e più creatività nel mondo dell’arte che nel cinema».

Lei è un collezionista d’arte: la prima opera acquistata?

«Un piccolo Fontana».

L’opera dei sogni?

«Sempre di Lucio Fontana: La fine di Dio. Ma è un po’ caro. È stato battuto all’asta per più di venti milioni di euro».

SCIVOLIAMO SULL’ACQUA. Passiamo sotto a un paio di ponti. Si intravedono i murales di William Kentridge realizzati sugli argini e ora mangiati dallo smog. Appena Valsecchi scorge un isolotto formato da bottiglie di plastica che galleggia tra i cespugli, si mette a urlare: «Guarda che schifo. Fotografate lì, maledizione!».

Vive a Roma da quarant’anni. La trova molto peggiorata?

«È peggiorata come tutte le cose che non vengono curate. Di notte, dalle finestre di casa mia vedo gente che getta gli elettrodomestici nel Tevere. La sindaca Raggi avrà pure le sue responsabilità, ma i romani ci mettono il loro».

La Raggi…

«Roma ha miliardi di buffi, di debiti. Essendo un patrimonio dell’umanità sarebbe giusto mettere insieme un gruppo di mecenati».

Lei è disposto a mettere i suoi soldi per Roma?

«Tra circa un anno aprirò la Galleria degli Specchi di Palazzo Borghese a tutta Roma. E poi non mi dispiacerebbe contribuire a ripulire la città».

Come?

«Per esempio organizzando meglio tutti gli immigrati che si vedono girare per le strade. Coordinandosi con l’amministrazione capitolina si potrebbe, no? Qualche giorno fa parlavo con Giuseppe Sala…».

Il sindaco di Milano. Che cosa le ha detto?

«Che per risollevare Roma ci vorranno una ventina di anni. Il guaio è che non si vede una classe dirigente capace di guardare oltre il consenso immediato. E questo riguarda anche la politica nazionale. Servono ragazzi capaci di immaginare il futuro, che abbiano al massimo qualche grande vecchio alle spalle che dia loro qualche consiglio. Il Pd…».

Il Partito Democratico.

«Ripropone sempre le stesse facce. Girano a vuoto, sono per aria, distanti dalle esigenze dei cittadini».

Ora il candidato più forte alla segreteria del Pd è Nicola Zingaretti.

«Io lo voterei pure. Ma il Paese lo voterà? Il mio sogno è che tutti facciano un passo indietro per dare il partito, e poi il Paese, in mano a mille trentenni super cazzuti e super laureati».

Chi dovrebbero essere i grandi vecchi di questo Pd?

«Walter Veltroni, Dario Franceschini, Carlo Calenda…».

Calenda ha quarantacinque anni. Pochi per un grande vecchio.

«Calenda dovrebbe candidarsi a sindaco di Roma. È così ovvio. Perché non lo fa?».

VALSECCHI È UN ISTINTIVO. E i suoi ragionamenti sulla politica hanno il piglio imprenditoriale del «la penso, la dico, la faccio». Se gli si fa notare che non funziona così, sbuffa: «Io almeno qualche idea cerco di farmela venire». Gli chiedo come si informi. Replica: «Oltre alla lettura mattutina dei quotidiani la sera guardo gli approfondimenti su La7». Aspetta qualche secondo, riflette sul fatto che lavora principalmente per Mediaset e chiarisce: «Oh, Canale5 in casa mia è sempre accesa, eh».

STIAMO PER ATTRACCARE. In lontananza si vede il Cupolone. Valsecchi nel 2015 ha prodotto Chiamatemi Francesco, praticamente un instant movie su Papa Bergoglio.

Lo ha conosciuto?

«Durante la proiezione in Vaticano. Alla presenza di cinquemila poveri».

Lei nel 2005 ha realizzato anche un film su Papa Wojtyla.

«Lo incontrai quando era già malato. Sapeva che avrei fatto un film su di lui. Mi guardò con sguardo severo».

E che cosa le disse?

«Non sbagliare!».

Categorie : interviste
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