Marek Hamsik (Doppio Binario – 7 – Settembre 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 20 settembre 2018)

SCATTA SULL’ERBA, salta, corre lungo un pendio, ma la cresta di capelli resta immobile. Sembra plastificata. Sorride e mi viene incontro. Indossa delle scarpe da ginnastica che hanno attaccato ai lacci un buffo cartellino di plastica rosso: è un’edizione limitata che ne sestuplica il prezzo rispetto al modello in commercio tra i comuni mortali. Doppio Binario a bordo campo con Marek Hamsik, capitano glam e slovacco del Napoli. Poche parole, molte reti. Ha trentatré anni, tre figli e una nuvola di tatuaggi su tutto il corpo che racconta la sua vita: le date di nascita dei suoi piccoli, Christian, Lucas e Melissa, le coordinate geografiche della sua città natale, Banská Bystrica, un K, di King, con un cuore. Spiega: «Mia moglie Martina ha la Q di Queen». E poi dei dadi, una rondine, una geisha sul polpaccio, alcuni ideogrammi cinesi… Spiega: «Ho anche imparato a tatuare». Ci diamo del tu. Hamsik gioca nel centrocampo degli azzurri partenopei da undici anni. Quando gli chiedo che cosa desidererebbe per il suo Napoli, non esita. Dice: «Uno stadio bello» e lascia intendere che le condizioni del San Paolo siano davvero pessime. Lui ha superato per numero di gol fatti il dio del calcio napoletano, Diego Armando Maradona, e in passato ha respinto le sirene tintinnanti del Milan e della Juventus. Per questo si è meritato un enorme murale che raffigura il suo volto in una via di Napoli e parecchi entusiastici tributi musicali. Un rapper lo ha santificato così: «Marekiaro, parlo chiaro / e non guardo il denaro». Marekiaro è il soprannome di Hamsik, un gioco di parole tra il suo nome di battesimo e quello di un borghetto del quartiere Posillipo. È anche il titolo dell’autobiografia che il centrocampista ha appena dato alle stampe per Mondadori. La prefazione è dello scrittore Maurizio De Giovanni che definisce Hamsik «il Capitano di una città». C’è una pagina da vero capitano in cui Marek racconta che la più grande gioia calcistica non è arrivata dopo un suo gol, ma dopo la rete segnata dal compagno Kalidou Koulibaly l’anno scorso durante una sfida contro la Juventus, mentre lui era in panchina: «Il gol della vittoria e del sorpasso sui bianconeri. Lì abbiamo creduto davvero di poter vincere lo scudetto. Ha esultato tutta Napoli. La settimana dopo, quando contro la Fiorentina lo stesso Koulibaly venne espulso, ci cascò il mondo addosso».

Quest’anno dopo una manciata di giornate i calcio-dipendenti sono già tutti in allarme perché non è emersa la squadra anti-Juve.

«Esiste, esiste. Credo che ci siano più squadre…».

Quali?

«Noi, la Roma, l’Inter. La Juve è forte ma prima o poi qualcuno la dovrà battere. Ancora non è uscita fuori la vera potenzialità di tutte le squadre».

Carlo Ancelotti è il sesto allenatore del Napoli con cui hai avuto a che fare.

«Mi piace molto. È un ex calciatore che capisce le nostre esigenze».

È vero che Francesco Calzona, il vice di Maurizio Sarri, ti regalò la biografia di Ancelotti, Leader calmo?

«Sì, ma non ho ancora finito di leggerlo. Anche io mi considero un leader calmo».

Un aggettivo per ognuno degli allenatori che hai avuto a Napoli. Edy Reja…

«Tranquillo. Abbiamo un ottimo rapporto».

Roberto Donadoni…

«Un’occasione persa. È restato pochissimo e non siamo riusciti a esprimere in campo le sue idee».

Rafa Benitez…

«Boh. Non saprei… Europeo?».

Maurizio Sarri…

«Maniacale. Ha contribuito molto alla mia crescita».

Walter Mazzarri…

«Un padre».

Ti ha dato la fascia da capitano. La fascia viene conferita dall’alto o ci deve essere un accordo tra tutti i giocatori?

«In Italia contano anzianità, esperienza e partite giocate. In Slovacchia il capitano viene votato dai compagni». Mazzarri ha detto: “Hamsik sa sempre che cosa fare. È già un allenatore, lo sa, e infatti quello sarà il suo futuro”».

È così?

«Me lo ha scritto recentemente anche Walter Gargano, marito di mia sorella…».

…ed ex centrocampista del Napoli.

«Potrebbe succedere, più in là, tra qualche anno. Potrei trasferire in Slovacchia tutta l’esperienza fatta in Italia». Siamo nel centro sportivo degli azzurri a Castel Volturno, territorio tragicamente sgarrupato che Vincenzo De Luca, presidente della Campania, ha definito particolarmente problematico anche a causa di una forte presenza della criminalità nigeriana. Quando è arrivato al Napoli, nel 2007, Hamsik ha preso casa qui. Ora il Comune di Castel Volturno gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Dice: «Lo so, è un posto che in Italia viene descritto in modo negativo».

Con quello che guadagni avresti potuto avere una casa meravigliosa a Posillipo con vista spettacolare sul golfo di Napoli.

«Quando sono arrivato avevo vent’anni e volevo stare vicino ai campi d’allenamento. Poi mi sono trovato bene e sono rimasto».

Parli in dialetto?

«Capisco l’80% di quel che mi viene detto in napoletano stretto, ma non lo parlo. Mia moglie Martina è più brava di me».

Che cosa ne pensi dei cori che vengono fatti negli stadi contro i napoletani?

«Quelle robe sul Vesuvio…».

… che dovrebbe lavare la città col fuoco…

«Sono cose che non capirò mai».

Persino il ministro dell’Interno Matteo Salvini, anni fa, è stato sorpreso a cantare slogan contro Napoli. Purtroppo negli stadi sono frequenti anche i cori contro i giocatori di colore.

«Gli ululati razzisti fanno schifo. Non li sopporto. Credo che l’arma che abbiamo a disposizione sia l’indifferenza».

È vero che il giorno in cui veniste presentati ai tifosi napoletani tu ed Ezequiel Lavezzi riceveste qualche fischio?

«Non sapevano chi fossimo. E dato che il Napoli veniva da anni difficili e si doveva riscattare, i tifosi avrebbero preferito l’acquisto di qualche grande campione e non di giovani come noi».

Nel libro Marekiaro racconti che tu e tua moglie avete subito anche un paio di furti a Napoli.

«Una volta mi presero l’orologio. Un’altra ci minacciarono con una pistola…».

Hai mai pensato di lasciare il Napoli per questo motivo?

«No».

Conosci la serie tv Gomorra?

«Sì certo».

C’è chi sostiene che in Gomorra la malavita sia descritta in modo troppo romantico e che ci sia un rischio emulazione da parte dei giovani napoletani.

«Speriamo di no. Trovo che tra i giovani oggi ci sia anche un problema di abitudini sbagliate: non si fanno più i giochi all’aria aperta che facevo io da ragazzino, ora è tutto smartphone o Play Station».

Tu, come molti tuoi colleghi, sei un mago della Play?

«No, non so proprio giocare. I miei figli mi battono, pensa tu».

Giochi spesso a pallone con loro?

«Sì. Anche se loro ormai hanno una squadra e si allenano quattro volte a settimana».

Quando giochi contro i tuoi figli li lasci vincere?

«Ogni tanto devo».

Con loro che lingua parli?

«Lo slovacco».

Il mito calcistico dei tuoi figli?

«Vedono me come punto di riferimento. Hanno un quadro grande quanto tutta la parete con la mia faccia. Fatto con lo spray».

I tuoi miti giovanili?

«Pavel Nedved su tutti. E Zinédine Zidane. Tra i centrocampisti apprezzo molto anche Andrés Iniesta. Ai ragazzi consiglio sempre di osservare i suoi movimenti».

Tu quando hai cominciato a giocare a calcio?

«I primi scarpini me li appesero in culla, come carillon. A quattro anni mio padre Richard, che aveva giocato nella seconda serie slovacca, me ne regalò un paio vero».

A scuola come andavi?

«Male, male».

Hai raccontato che i tuoi genitori hanno fatto molti sacrifici per farti giocare a calcio.

«Sacrifici enormi. Quando avevo quindici anni vendettero l’unica auto che avevano, una Skoda, e si indebitarono con gli amici per portarmi a Bratislava e farmi giocare nello Slovan. Se fosse andata male saremmo tornati a casa senza un euro».

È andata bene. A diciassette anni sei stato acquistato dal Brescia e a venti ti ha reclutato il Napoli.

«E sono riuscito a ripagare gli sforzi dei miei genitori. Con i primi guadagni ho comprato loro una casa per vederli tranquilli e senza pensieri».

Hai fama di essere un appassionato di auto.

«Ho una vecchia Fiat 500. E poi ci sono la rossa e la nera».

Cioè?

«Una Ferrari e una Lamborghini».

Hamsik lo schivo, Hamsik il timido, Hamsik raramente sopra le righe o ad alta voce. Anche parlando di auto conferma la sua fama di bravo ragazzo: «A tutti i giovani che mi seguono vorrei dire che rischiare in campo è doveroso, ma sulle strade è la peggiore delle tentazioni».

È vero che hai brandizzato tutte le tue auto?

«In Slovacchia si possono personalizzare le targhe. E allora… Hanno tutte il 17 dentro. Il mio numero di maglia».

In Italia il 17 non è esattamente un numero fortunato.

«Quando sono arrivato a Napoli avrei voluto il 7, ma Lavezzi mi anticipò».

Lavezzi e Hamsik, la notte e il giorno. Quando avete vinto insieme la Coppa Italia nel 2012 Lavezzi ha preso il rasoio e ti ha tagliato via la cresta.

«Ho pagato pegno, lo avevo promesso. Poi nello spogliatoio il Pocho Lavezzi mi disse: “Stasera non torni a casa”. E festeggiammo insieme a tutta la città. Su un autobus scoperto, in discoteca… Per la prima volta bevvi anche parecchio champagne».

Mi pare legittimo.

«Ma io non sono così. Non amo gli eccessi».

Durante quella finale di Coppa Italia segnasti il secondo gol.

«Il mio più importante. Il più bello invece lo feci al Milan nel 2008. Una corsa forsennata di settanta metri, una finta e via».

C’è un gol che hai visto fare ad altri e che avresti voluto fare tu?

«Prima o poi mi piacerebbe segnare da centrocampo».

Secondo te chi è il giocatore più forte di tutti i tempi?

«Eeeeeh…».

Devi dire per forza Maradona, altrimenti i napoletani si infuriano.

«Ahahah. Oggi il migliore è Leo Messi».

La squadra più forte che hai visto giocare?

«In generale quelle di Pep Guardiola. Fa un gran lavoro».

Tu hai una bestia nera? Un avversario che ogni volta ti mette in difficoltà?

«Un singolo giocatore, no. Una squadra».

Quale?

«Non mi piace affrontare l’Atalanta».

I giocatori dell’Atalanta picchiano?

«Picchiano e corrono tantissimo».

Ci sono portieri di cui soffri maggiormente il potere ipnotico?

«Non mi pare. Non ricordo. Però ricordo bene tutti i gol facili che ho sbagliato. Spesso mi rivedo le partite, mi piace analizzare i miei errori e capire come avrei potuto fare meglio».

Quando avviene questo rito di espiazione?

«Dopo le partite, quando non ho nulla da fare. Dopo i match serali torno a casa, non riesco a dormire…».

Per colpa dell’adrenalina da competizione?

«Eh sì, mi metto a riguardare la partita. E mi addormento alle cinque del mattino».

Categorie : interviste
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