Paolo Fresu (Doppio Binario – 7 – Agosto 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 2 agosto 2018)

ARRIVA NELLA HALL DELL’HOTEL con una mise multicolor: pantaloni a scacchi e camicia a fiori. Si aggira per la sala colazione parlando al cellulare. Bisbiglia, rivolto a me: «Ho perso il bagaglio. Dentro c’era anche il mio rack». Il rack? «È l’apparecchio elettronico con cui creo echi e suoni lunghi durante i concerti». Doppio Binario tra ascensori, terrazzi e minivan ad Arezzo con Paolo Fresu, tromba morbida del jazz italiano e musicista globetrotter. Ha 57 anni, da 35 è in perenne movimento, acclamato urbi et orbi e multipremiato: nel 1984 è stato il miglior nuovo talento jazz italiano, nel 1996 ha conquistato il Django d’oro come miglior jazzista europeo e dal 2017 è pure Commendatore della Repubblica. Tra i suoi e quelli a cui ha collaborato ha inciso circa quattrocento dischi: «Per quanto riguarda i concerti invece sono arrivato a cinquemila». Dice: «Per me la musica non è solo la performance serale». E per rendere l’idea srotola gli impegni di giornata: «Nelle due ore di viaggio che mi aspettano metterò mano al mio libro che esce a ottobre, Poesie jazz per cuori curiosi. (Per Rizzoli, ndr). Poi lavorerò al programma del concerto a L’Aquila e se avanza un po’ di tempo comincerò due arrangiamenti che ho in sospeso. Sull’aereo per Barcellona, dove mi devo esibire, se riesco scriverò qualcosa». Domando: «Scrive musica in aereo?». Replica: «Su un volo tra Parigi e Olbia ho ideato la colonna sonora per il film Ilaria Alpi. Il più crudele dei giorni, appuntando le note sui bordi di una rivista. La cosa più difficile è disegnare un pentagramma decente durante il decollo».

FRESU PARLA A VOCE BASSISSIMA, sussurra, con forte cadenza sarda. È nato e cresciuto a Berchidda, al confine tra la Gallura e il Logudoro e ha quell’attaccamento alla terra natìa che solo i sardi sanno dimostrare: «Anche quando suono in Cina mi capita qualcuno che dice: “Sono sardo anche io”. Un milanese lo farebbe?». Ogni anno organizza un festival del jazz proprio a Berchidda e quando ha compiuto cinquant’anni ha voluto festeggiare con un tour tutto sardo di cinquanta tappe: «Abbiamo suonato in mare, sui treni, in carcere e persino sugli alberi». Se non bastasse, sta lavorando a un dizionario emotivo per salvare le parole sarde in via di estinzione: «Il sardo è la mia prima lingua. Io penso in sardo». Descrive il suo rapporto con la terra, con la campagna, la poesia unita alla crudezza dei riti rurali. Racconta: «Il regalo più bello che ci potesse arrivare a Natale, era un agnello da parte del vicino. Gli mettevo un fiocco rosso al collo e diventava il mio compagno di giochi fino all’Epifania». L’agnello faceva una brutta fine. Continua: «Quando mio padre doveva sgozzare le nostre venti pecorelle, lo faceva davanti a me. Noi campavamo di quello. E l’uccisione del maiale era un momento atteso, crudo, ma unificante per la famiglia. In campagna non si muore per caso».

FRESU PENSA IN SARDO e parla con la musica. Afferra il suo flicorno, una specie di tromba con un suono caldo, e dice: «È la mia voce sul mondo. Questo è uno strumento che canta. È quello più vicino alla voce umana. A differenza del pianoforte o del contrabbasso, con la tromba il mezzo vibrante sei tu che suoni. L’emissione del suono è data direttamente dal tuo pensiero e da come sei, con le tue cavità, col tuo respiro». Cominciamo a parlare dello stato di salute del jazz in Italia. Spiega: «Siamo il Paese dove si produce più jazz in assoluto. La varietà di progetti è straordinaria. Questo perché il jazz fotografa il presente e il presente è quello di un Paese che si staglia dall’Europa verso l’Africa con una biodiversità incredibile, fatta di contaminazioni». Obietto: se continuiamo ad alzare muri culturali e a bloccare porti, la biodiversità e la contaminazione saranno a rischio. Sorride: «Lo so dove vuole arrivare».

Dove pensa che io voglia arrivare?

«Io mi espongo molto e mi becco anche parecchie contumelie. Quando ho digiunato in favore dello Ius Soli mi hanno inviato valanghe di improperi».

Lei, ironicamente, aprì il concorso su Facebook “vota l’insulto migliore”.

«Ne ho ricevuti parecchi anche qualche giorno fa perché sono salito sulla nave Aquarius».

L’Aquarius è l’imbarcazione che trasportava 600 migranti, che è stata respinta dai ministri Matteo Salvini e Danilo Toninelli e che alla fine ha attraccato a Valencia.

«Mi vergogno e sto male per quel che sta succedendo. Noi italiani non siamo così…».

Razzisti, xenofobi, intolleranti…

«Molti lo sono diventati per paura. C’è un abbrutimento legato alla paura di vivere. Le difficoltà ci sono, ma vanno affrontate senza riversare le responsabilità su chi ha la pelle più scura. Io credo nel valore positivo della musica proprio per la costruzione di rapporti tra i popoli. E sono certo che l’appiattimento culturale in corso contribuisca alla solitudine e alla chiusura degli italiani. La cultura ti permette di dialogare e di entrare in relazione con il prossimo. Questo è un momento in cui si deve combattere l’indifferenza. Parliamo di vite umane da salvare: chi ha un po’ di seguito oggi si dovrebbe esprimere».

A parte quelli notoriamente engagé, i musicisti e i cantanti generalmente evitano di esporsi, per paura di perdere fan.

«Sa che cosa ho risposto, in privato, a quelli che mi hanno scritto sui social network che non avrebbero comprato più un mio disco a causa delle mie idee sullo Ius Soli?».

Che cosa?

«Li ho invitati a non acquistare la mia musica. Anzi, gli ho detto di rispedirmi i dischi che hanno in casa, che poi avrei fatto loro un bonifico».

FRESU NEL 2007 venne reclutato da Walter Veltroni come testimonial delle sue liste per le primarie democratiche in Sardegna. Ora quando parla della mancata approvazione dello Ius Soli durante gli anni di governo del Pd, ammette di non riconoscere più quel partito. Dice: «Il Paese sembra allo sbando. E oltre alla vergogna c’è un profondo senso di impotenza». Obietto che il Pd non aveva i numeri per approvare lo Ius Soli e che c’era il timore di perdere voti. Chiosa: «Ne hanno persi comunque a carrettate. Se almeno avessero portato avanti lo Ius Soli ci sarebbe stato un punto identitario a cui aggrapparsi. Comunque non rinnego la mia esperienza col Pd. L’ho fatta utilizzando il mio tempo e il mio denaro. Il giorno dopo le primarie vinte da Veltroni sono tornato a fare musica».

Quando ha cominciato a suonare?

«Quando ero piccolo non c’erano Internet o YouTube. Per me la musica era la banda del paese. La vedevo passare e sognavo di farne parte. Ci sono entrato dopo aver iniziato a maneggiare una tromba abbandonata da mio fratello. Era custodita in una scatola nera di legno, avvolta nel velluto rosso. Aveva un fortissimo odore di olio lubrificante. Per me quello è ancora l’odore della musica. Ripassavo i movimenti delle dita nel tragitto da casa alla chiesa dove ero chierichetto. E appena potevo andavo a suonare da solo in campagna».

È autodidatta?

«No. Ma sono molto appassionato. Un giorno il maestro della banda mi diede la partitura della marcia Topolino e mi chiese di studiarla. Beh, io già la sapevo benissimo».

La banda…

«Dopo le cerimonie i più bravi si riunivano in un bar del centro e attaccavano a suonare i ballabili».

Lei era tra i più bravi?

«Ci finii dopo un po’. E formammo due gruppi Le Nuove Onde e Carnaval con cui suonavamo nelle feste di piazza e durante i matrimoni berchiddesi, che durano anche una settimana. Ero anche il tuttofare della band: facevo le pulizie in sala prove e chiamavo i comitati organizzatori delle kermesse per trovare serate».

Il repertorio?

«Il mambo di Pérez Prado, il liscio di Raoul Casadei, un po’ di Lucio Battisti…».

Fin qui il jazz non compare.

«E come avrebbe potuto? Io avevo un mangiadischi portatile verde pisello dentro cui infilavo i 45 giri usati del jukebox del bar. Ho cominciato ad ascoltare il jazz tardi, grazie a un amico pianista di un paesino vicino che aveva il padre dentista e in casa custodiva una collezione importante di dischi e un impianto stereo decoroso. Con lui provammo a mettere in repertorio i pezzi dei Nucleus, un gruppo jazz rock inglese, ma appena cominciavamo la gente smetteva di ballare e ci toccava riprendere col liscio. Nel 1982 decidemmo di seguire i seminari jazz che si tenevano a Siena. Lì conobbi il maestro Bruno Tommaso. È lui che mi ha procurato i primi ingaggi da jazzista a Roma».

È vero che ai suoi esordi ha lavorato anche con Pippo Baudo?

«Sì, mi volle a Domenica In. Durai poco».

Ha mai pensato di fare una sua trasmissione tv?

«Ci sto pensando ora. Vorrei raccontare la giornata di un jazzista e il suo mondo».

La giornata di un jazzista globetrotter come si concilia con la paternità? Lei ha un figlio, Andrea, di dieci anni.

«Appena posso lo porto con me. Suona la batteria, ma gli piace molto anche l’organizzazione dei concerti, osserva tutto. È venuto a Umbria Jazz… La nostra casa madre è a Bologna, dove tra l’altro sto realizzando un progetto per portare più musica nelle scuole».

FRESU AMA INSEGNARE. Ha cominciato col solfeggio proprio nelle scuole pubbliche. Poi nel 1989 ha creato un seminario in Sardegna sulla scia di quello che aveva frequentato a Siena, e lo ha diretto per venticinque anni. Sostiene di saper individuare subito se uno studente è predisposto a coltivare il proprio talento. Dice che la cosa più importante è trovare e curare il proprio suono.

Lei quando ha trovato il suo suono?

«Ricordo esattamente il momento. Ero nella mia stanzetta a Berchidda e tirai fuori una nota che per la prima volta mi sembrava andasse bene da sola».

Raccontata così sembra una magia.

«In realtà non era cambiato nulla nel mio modo di suonare. Era cambiata la testa. Da quel momento in poi, per quarant’anni, ho lavorato per approfondire e migliorare il suono, che è la cosa più importante della musica. Se penso ai protagonisti della storia del jazz, Miles Davis, Billie Holiday… non cito i titoli dei loro pezzi, ma il loro suono inconfondibile. Se il tuo suono è pregnante, anche una nota sbagliata diventa credibile».

Categorie : interviste
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