Tommaso Ragno (Doppio Binario – 7 – Maggio 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 31 maggio 2018)

SI PEDALA. Partiamo simbolicamente dalla Casa del Cinema, al centro di Villa Borghese. Doppio Binario in risciò con Tommaso Ragno, cinquant’anni, trenta dei quali vissuti da attore alternando teatro, cinema, tv e radio. Ragno ha una voce profonda, non ama parlare troppo di sé e non si sente parte del luccichìo sgargiante dello showbusiness. Dice: «Preferisco che mi si dedichi qualche riga perché so fare qualcosa, piuttosto che perché sono fidanzato». Quando accenno al caso Weinstein, chiedendogli un parere, risponde: «Non ho niente da dire. Nell’epoca del commento libero e della sua riproducibilità tecnica, non riesco ad avere un’opinione su qualsiasi cosa». Ci diamo del tu. Si scioglie pian piano nel corso dell’intervista, ma all’inizio della nostra conversazione mette in atto una sorta di negazione di sé come personaggio: «Non faccio battaglie sociali, non sono ecologista, non sono niente di niente». Lo provoco: «Ma almeno voti?». Risponde con un calembour: «Certo, ognuno porta e mette la propria croce». A un certo punto si lascia sfuggire che vive tra la Capitale e Berlino. Ma quando gli chiedo come mai sul suo sito campeggi la citazione intima e rivelatrice di Friedrich Nietzsche che grida «Bisogna avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante», Ragno fa subito un passo indietro: «L’ho messa in tedesco per far colpo sugli amici. In realtà le frasi motivazionali mi deprimono». Attualmente è nei cinema con Hotel Gagarin e a breve ci arriverà con Lazzaro Felice, film di Alice Rohrwacher applauditissimo a Cannes. Negli scorsi anni ha recitato nelle serie tv Distretto di polizia, Il tredicesimo apostolo e 1992. Ogni volta che cito un titolo a cui ha lavorato, si affretta a controcitare gli sceneggiatori, in una sorta di rispetto ossequioso del testo. Ora che interpreta il prete tossico e puttaniere di Il Miracolo dice che il merito del successo della serie va attribuito per il 90% a chi l’ha scritta: «Francesca Manieri, Francesca Marciano, Stefano Bises e Nicolò Ammaniti che è anche regista». Spiega che tra le grandi soddisfazioni di un attore c’è quella di vedere negli occhi di un regista la gioia quando una cosa è riuscita meglio delle aspettative. La leggenda vuole che durante una scena in cui il suo personaggio, Marcello, si pianta una forchetta in una mano, Ragno abbia lasciato a bocca aperta Ammaniti riuscendo a diventare rosso fuoco in faccia.

È vero?

«Preferirei raccontarti una gioia collettiva. Ho una specie di vanità al contrario». Gli chiedo quale sia la performance della vita, quella da lasciare ai posteri. Ragno si prende qualche secondo per pensare. Gli occhi si arrossano, si forma una patina umida, poi una lacrima, che l’attore cerca di ricacciare dietro alle palpebre buttando la testa all’indietro. «Scusa, mi è venuto in mente un episodio emozionante». Lo invito a raccontarlo. «Prima ti rispondo sulla performance. Le due cose sono collegate. Il processo di immedesimazione in qualcuno che non sei tu, che per convenzione chiamiamo “personaggio”, in una carriera si vive e dura poco più di un minuto. Il resto del tempo lo si trascorre cercando di non andare a sbattere sulle quinte».

A te quando è successo di immedesimarti?

«Di sicuro interpretando Guglielmo nella Trilogia del viaggiatore di Carlo Goldoni diretta da Toni Servillo».

Servillo, una superstar del cinema.

«Toni oltre a essere un grande attore è un pensatore di teatro».

Che cos’è un “pensatore di teatro”?

«Qualcuno che riflette sul proprio mestiere mentre lo fa. Con lui e con gli altri quindici della compagnia, per quattro anni di seguito, abbiamo portato Goldoni in giro per il mondo: New York, Parigi, Berlino… L’episodio emozionante è legato alla fine di quell’avventura».

Racconta.

«Eravamo in Sardegna. Poco prima che lo spettacolo finisse Toni ha fatto capire al pubblico che quella sarebbe stata l’ultima replica. E, senza citarle, ha caricato le sue parole di tutte le esperienze che avevamo vissuto insieme. In quattro anni di tournée si vivono insieme nascite, matrimoni, funerali… Ha creato un’attesa magica e con quell’omaggio ha consegnato al pubblico tutto il tempo che lo spettacolo aveva vissuto. Un po’ come accade alla fine de La Tempesta di William Shakespeare. Hai presente?».

No, lo ammetto.

«Quando Prospero dice: I nostri giochi sono finiti, questi attori erano tutti spiriti… e si sono dissolti nell’aria». Ascoltando Ragno viene fuori un’immagine dell’attore teatrale molto diversa da quella che Franco Branciaroli descrisse su 7 qualche mese fa, citando Denis Diderot. Branciaroli diceva: «Gli attori che trasmettono più emotività sono quelli che mentre recitano pensano a dove andare a mangiare dopo lo spettacolo. Se sei bravo a farti fotocopia di te stesso, mentre declami versi puoi anche guardare una partita di calcio su uno schermo nascosto dietro una quinta». Riferisco a Ragno il Branciaroli-pensiero. Replica: «Branciaroli è un bravissimo attore. Ma questa è una fregnaccia. O solo una provocazione. La nostra vita è fatta di ripetizioni continue, repliche. Ed è proprio ripetendo che impariamo ad apprezzare le complessità e facciamo diventare una lettura, o una lingua, o un testo parte della nostra vita. Il teatro, tra l’altro, non è riproducibile in video, non lo trovi sui social network. Ogni replica è un organismo vivente».

Addirittura?

«È un rapporto che si rinnova tra attori, il pubblico, il testo, lo spazio teatrale. Ti regalo una frase buona per i biscottini della felicità: “A teatro stabilisci tu il tempo”. Si vive l’esperienza dello spossessamento di sé, in una dimensione che ha una sua moralità».

Una volta hai detto che l’attore di teatro è un artigiano.

«Lo dico di me stesso. E non per falsa modestia, ma perché sono gli altri, o la storia, a dire se sei un artista e io ho conosciuto degli artisti veri».

Di chi parli?

«Luca Ronconi, Toni Servillo, Carlo Cecchi…».

Cecchi ti ha diretto una decina di volte.

«Nel 1994, a Milano, mentre stavamo provando Leonce e Lena di Georg Büchner, mi disse: “Rischia di essere cane”».

In che senso?

«Intendeva dire: non cercare di darmela a bere, rischia di non essere un attore».

Cioè, mettiti in gioco, oltre le capacità attoriali.

«Esatto. In un moto tra il grottesco e il consolatorio pensai che tutto sommato se Rin Tin Tin e Lassie ce l’avevano fatta, forse non era così catastrofico rischiare di esser cane».

Che cosa deve avere oggi un attore per colpirti?

«L’ostinazione, oltre al talento».

Vedi in giro grandi talenti teatrali?

«Il nostro Paese è pieno di talenti. Lo ha detto in modo commovente il grande Renato Carpentieri, premiato come miglior attore ai David, ringraziando per la fiducia che gli è stata data dal regista».

Tu come sei diventato attore?

«Studiando. Tra l’altro credo che si diventi davvero attore tardi, verso i trent’anni».

Ci sono attori molto più giovani.

«Non lo nego. Ma credo che lo studio sia importante e non andrebbe interrotto neanche in caso di successo precoce. Studiano per molti anni i musicisti, studiano per molti anni i cantanti, è opportuno che studino molto gli attori. Perché dovrebbero venire a vederti se non tenti almeno di offrirgli qualcosa che faccia la differenza tra quando entrano in sala e quando escono?».

Tu dove hai studiato?

«Alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, a Milano. Ci entrai a diciannove anni portando un brano di La macchina infernale di Jean Cocteau. C’erano seminari eccezionali con insegnanti che portavano in classe la loro esperienza sui palchi: Giampiero Solari, Mario Martone, Luca Ronconi…. Studiavamo anche dodici ore al giorno. Lì ho scoperto come usare il corpo, la voce».

È vero che qualche mese fa hai rischiato di perdere un lavoro per aver trascurato la tua voce?

«Sì, ero sul set de I peggiori, un film di Vincenzo Alfieri con Lino Guanciale. Devo aver preso freddo. Ho cominciato a sibilare fiocamente. Dopo qualche giorno iniziavano le riprese di Hotel Gagarin, diretto da Simone Spada, e ho temuto di non farcela. Mi sono imbottito di cortisone. È andata bene».

Dopo l’accademia, il tuo esordio in scena?

«Alla fine del secondo dei tre anni, Martone mi chiese di andare con lui in tournée con uno spettacolo che si chiama La seconda generazione – Neottolemo».

La tua prima battuta?

«Interpretavo Oreste e dicevo: “È questa la reggia di Neottolemo?”».

Ragno adolescente…

«A Piacenza. Molte serate vissute sulla via Emilia».

A scuola…

«Non ero un allievo particolarmente brillante. Più che il “che cosa” dicevano i professori, mi interessava il “come” lo dicevano. Senza saperlo coltivavo quella che viene chiamata intelligenza mimetica». Parcheggiato il risciò ci sediamo a un bar per un caffè. Ragno ha i capelli bianchi argentati. Si accorge che glieli sto fissando e spiega: «È il mio colore. Naturale. L’unico espediente che uso è lo shampoo viola». Lo shampoo viola? «Si usa nel cinema, per lavare le punte che si ingialliscono». Dato che ultimamente interpreta sempre personaggi un po’ unti e maledetti gli chiedo se anche nella vita durante le tournée persegua il cliché dell’attore alcolico. Replica, astuto: «Non bevo mai quando sono in servizio». Essendo quasi coetanei, ci mettiamo a parlare di miti giovanili. Cita Bobby Fischer, lo scacchista. Obietto che è una scelta poco giovanile e poco pop. Spiega: «In realtà Fischer è tutt’ora un mio mito».

Come mai?

«È stato un personaggio tragico, misterioso, onesto e altruista, ma assolutamente asociale. Dedito al suo lavoro fino a farne un’ossessione, ha deciso di abbandonare gli scacchi all’apice del suo successo. Agiva quasi sempre a suo svantaggio». Personaggi. Ci sono fiction che oggi fanno discutere anche perché alcuni personaggi la cui condotta andrebbe condannata vengono rappresentati come eroi: gli assassini della Banda della Magliana in Romanzo Criminale o i mafiosi campani in Gomorra. Si parla di rischio emulazione malavitosa. «Non scherziamo. Spero che queste serie funzionino come stimolo e come ispirazione per gli sceneggiatori e i registi. Ce ne fossero di quel livello! Se si dovesse seguire il bacchettonismo di chi vuole censurare queste opere, si finirebbe male: che si dovrebbe dire allora di Arancia meccanica di Stanley Kubrick o del Riccardo III di William Shakespeare?».

Categorie : interviste
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