Riccardo Donadon (Doppio Binario – 7 – Giugno 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 7 Giugno 2018)

A UN CERTO PUNTO, prima di una curva, mentre sta parlando della necessità di investire in nuove tecnologie, stacca le mani dal volante e l’autovettura comincia ad andare da sola: scivola con silenzio elettrico al centro della carreggiata e supera i tornanti. Doppio Binario hi-tech con Riccardo Donadon, pioniere del digitale italico e fondatore di H-Farm, la fattoria in cui l’uomo (l’acca sta per human) viene messo al centro. Che vuol dire? È un piccolo paradiso verde dove fioriscono (si incubano) idee e si finanziano progetti utilizzabili con un clic. Per chi, come il sottoscritto, ha sempre avuto il retro-pensiero novecentesco per cui le start up e gli incubatori delle medesime costituissero una bolla di fuffa, l’immersione nella fattoria di Donadon riserva qualche sorpresa. Lui ha cinquantuno anni, tre figli e più di cinquecento dipendenti. Parla quasi a bassa voce e si muove adagio. Siamo a Ca’ Tron, Roncade, in provincia di Treviso, ma piovono inglesismi. L’erba è tosata come il fairway di un campo da golf e gli edifici in mattoni hanno innesti di architettura contemporanea. Gli altoparlanti diffondono un sottofondo classic-jazz. Appena ci accomodiamo sui sedili Donadon comincia a srotolare le doti della sua autovettura e quelle del genio che l’ha creata, Elon Musk. La chiacchierata si sposta rapidamente sul rischio da parte dei pionieri digitali di essere in anticipo rispetto alle esigenze del mercato. È successo anche allo stesso Donadon quando nel 1996, lavorando per la famiglia Benetton, diede vita a Mall Italy Lab, uno dei primi negozi online con pagamenti elettronici: «Gli acquisti erano pochissimi, ma fortunatamente un grosso operatore della telefonia proprio in quel periodo doveva aprire un’area commerciale sul web e così gli vendemmo mall.it». Le porte dei casali si aprono tutte con un fruscìo. Saliamo in cima a un edificio di due piani e Donadon mi indica i confini della tenuta. Il terreno è quello che la Disney aveva scelto per il parco giochi in Europa: «Poi, grazie all’intervento del governo francese, prevalse l’opzione parigina». In lontananza, verso est, si vede il campanile di piazza San Marco, verso nord invece c’è lo spazio che dovrebbe ospitare il nuovo campus universitario di H-Farm. Il progetto si è incagliato in un groviglio di cavilli burocratici. Donadon: «La faccio breve. La nostra documentazione dimostrava che se dopo settimane di pioggia fosse esondato il Piave, con Venezia sommersa e l’idrovora senza energia per 48 ore, noi al massimo avremmo avuto quaranta centimetri d’acqua nel parcheggio. Non è bastato. In Italia si perde troppo tempo con la burocrazia, il mondo è molto più veloce e così si rischia di far fuggire gli investitori». Lo racconta con la stessa rassegnazione con cui mi risponde a una domanda sulla crisi politico-istituzionale in corso: «In realtà la cosa che mi spaventa di più è quando un governo fa qualcosa. È meglio quando resta immobile».

Nel 2012 Donadon ha collaborato con il ministro Corrado Passera alla task force dedicata alle start up.

«Siamo stati i primi a elaborare un provvedimento fantastico sul crowdfunding, poi è arrivato Giuseppe Vegas, presidente della Consob, e si è bloccato tutto». Nelle vene di Donadon scorre succo di imprenditoria veneta: suo zio Massimo, detto el Sorzon, il sorcione, ha sterminato ratti e pantegane di tutto il pianeta con i suoi veleni saporiti. Quando gli domando quanto della sua H-Farm si fondi sul bel racconto e sulla retorica del 2 o 3 punto zero, e quanto invece sia un vero business, mi stoppa e dice: «Mi sta chiedendo se il mio sia un messaggio vincente? Lo è». Mentre parla si piega per raccogliere una frattaglia di plastica che insozza l’erba. Poi una cicca, poi un bicchiere di carta. Dice: «Questa è la mia unica attività fisica». Commento: «A Roma con tutte le schifezze che ci sono per terra le verrebbe la gobba». Replica sorridendo: «Probabilmente se vivessi nella Capitale passerei le giornate potando le aiuole». Il giardinaggio è una fissazione di famiglia: «Anche mio padre amava tenere in ordine il verde. Io nel 2004, dopo aver realizzato un guadagno enorme vendendo la società E-tree, con cui realizzavo i portali delle principali aziende italiane, mi sono dato al giardinaggio e ai viaggi». E-tree divenne celebre anche perché Donadon l’aveva attrezzata con campi da bowling, palestre, biliardi, letti a castello accanto alle scrivanie… E perché lui aveva selezionato il personale facendo colloqui nelle fiaschetterie di Roma e di Milano.

Dopo quanti mesi di giardinaggio e di viaggi è tornato al lavoro?

«Dopo circa un anno. Nel 2005, con H-Farm appunto. L’idea era quella del giving back».

Restituire alla comunità un po’ della fortuna ricevuta.

«Aiutando i ragazzi ad avviare le loro idee. Per l’epoca era un’impresa da incoscienti. Finanziavo progetti in cambio del 10% della società che si sarebbe formata. Una roba da fuori di testa per gli standard industriali locali».

Quando ha realizzato che il piano avrebbe potuto funzionare?

«Nel 2009 dopo aver venduto a un grande operatore del customer care la HCare, una società con cui avevamo finanziato un progetto di assistenza virtuale online creato da un ragazzo».

Qual è la percentuale di incubazioni riuscite?

«Su cento idee finanziate quaranta vanno a gambe all’aria, una ventina si barcamenano e una quarantina costituiscono il nostro portfolio».

Quanto vale questo portfolio?

«È valutato una cinquantina di milioni di euro. Ma non è detto che oggi ci sia qualcuno disposto a comprare tutte queste start up. Il mercato qui è complicato».

Ci sono Paesi in cui la situazione è diversa?

«In Inghilterra fanno i fichi ma non stanno molto meglio. I mercati statunitensi e israeliani sono su un altro livello. In Israele l’industria bellica investe miliardi in tecnologia».

Mi fa un esempio di start up di successo nata e cresciuta dentro H-Farm?

«Depop».

Che cos’è?

«Una specie di Instagram su cui è possibile vendere la propria collezione di abiti. Una foto, un clic e via. Tra gli iscritti c’è anche Chiara Ferragni. Nel 2015, comunque, mi sono reso conto che questo modello di business da solo non funzionava, anche perché qui non ci sono defiscalizzazioni per chi acquisisce una start up e i ragazzi sono spesso sottofinanziati. Così abbiamo messo in piedi una farm di consulenza digitale…».

… che in pratica è quel che lei faceva con E-tree…

«…sì, e poi il settore education. Degli oltre cinquecento dipendenti che abbiamo, trecento lavorano nelle consulenze, centosettanta circa nell’education, un’ottantina nell’organizzazione tra food ed eventi, e solo una dozzina nella parte incubator».

Dall’auto-elettrica passiamo alle bici, rosse. Attraversiamo vialetti fioriti, incontriamo venti-trentenni che giocano a frisbee, adolescenti che scorrazzano sotto agli alberi. Siamo nella zona education: asilo, elementari, medie, liceo e una sede distaccata dell’Università Ca’Foscari per il corso di laurea in Digital Management. Donadon parte con la descrizione delle esperienze hi-tech che vivono i ragazzi e dei software per i tablet con cui monitorare i progressi degli studenti. Prosegue con l’elogio di un modello scolastico che non sia fermo allo studio dei Bizantini. Obietto: la scuola italiana è un’eccellenza, Bizantini compresi. Replica: «Oggi nelle strutture pubbliche il successo dell’esperienza scolastica ormai è determinato da due fattori. Il culo e la mamma. Cioè la fortuna di beccare una sezione con buoni insegnanti e una madre che ti segua se sei stato sfortunato. La tecnologia può diventare un fattore di crescita permettendo tra l’altro ai professori di non perdere tempo e di occuparsi di più del caring, la cura, dello studente. Noi lavoriamo su questo e sull’offrire ai ragazzi la capacità di essere intraprendenti». I due figli più grandi di Donadon, tredici e undici anni, frequentano le scuole H-Farm. Cominciamo a parlare degli adolescenti di oggi, dei paletti da mettere o da non mettere all’utilizzo di telefoni e di console, e dell’assenza di tempi morti nelle vite dei ragazzi. Esclama: «Io da piccolo ero un cazzone. Passavo il tempo a cacciare le mosche sul tavolo con un bicchiere». Gli ricordo un’intervista rilasciata a Stefano Lorenzetto all’inizio degli anni Duemila in cui aveva raccontato di essere un «animale» a scuola.

È vero che lei è stato bocciato tre volte?

«È una cosa che fino a qualche anno fa raccontavo più facilmente, ora evito perché se i ragazzi vengono a saperlo…».

Trentasette su sessanta alla maturità, qualche esame alla facoltà di Psicologia…

«Pensavo solo ai computer. Ho cominciato con un Commodore Vic 20 e non ho mai smesso».

Essendo lui un pioniere del web, gli chiedo come giudichi la sciatteria e la violenza verbale che ormai hanno invaso la Rete e i social network. Dice: «È una follia. La nostra generazione – parliamo di quaranta-cinquantenni – non era preparata ad affrontare il mondo della Rete. Urge un re-skilling, anche professionale».

re-che?

«Un aggiornamento sulle capacità professionali. Oggi se finisci fuori dal mercato del lavoro rischi di non rientrarci più perché tutto cambia molto velocemente. La fortuna dell’Italia, se di fortuna si può parlare, è che qui si viaggia a due all’ora. Quindi c’è tempo per recuperare. Solo Milano corre come il resto del mondo. Quel che cerco di fare io è dimostrare che anche qui si può crescere. Quello di trattenere i nostri migliori talenti è un tema grosso. Dato che una qualità della vita come quella italiana è rara, sarebbe bello poter dire: siamo noi il posto dove è più fico fare le cose».

I consigli di Donadon per l’Italia.

«Dovremmo avere una strategia socio-industriale più chiara su quello che vogliamo diventare nei prossimi cinquant’anni».

Mi fa un esempio?

«Dovremmo concentrarci sulle eccellenze del manifatturiero e proiettarle nel mondo anche agganciandoci alla galassia delle start up. E poi forse dovremmo attirare qui tutti gli anziani benestanti del pianeta, perché qui si sta da Dio».

Non pensa che in realtà, anche in Italia, si stia andando troppo velocemente verso la costruzione di vite isolate con persone che dal divano di casa con un telefono in mano possono fare qualunque cosa? Ordinare la spesa, la cena, simulare amicizie…

«Le vengo incontro: dato che siamo il popolo che si accorge prima degli altri che è meglio non chiudersi in una stanza, in Italia si potrebbero creare anche dei paradisi offline».

Invece di un paradiso offshore, un paradiso offline.

«Perché no? Garantendo una qualità altissima di servizi potrebbe essere un modo per attrarre anziani interessanti da tutto il mondo».

Categorie : interviste
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