Gigi Proietti (Doppio Binario 7 – Giugno 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 28 giugno 2018)

UNA CASSA PER ATTREZZI DI SCENA, a rotelle. Una trave di legno, snella. E una faccia che può diventare quel che vuole: un sopracciglio alzato, un muscolo contratto, un sorriso come una maschera greca. E l’attore in pochi secondi si fa traghettatore (Caronte?). La zattera si muove a scatti sui mattoni di tufo. Doppio Binario al Globe Theatre di Roma con Gigi Proietti, 77 anni, mattatore eclettico di palchi sperimentali e di fiction nazional-popolari. Una vita a conciliare il largo e lo stretto, l’alto e il basso, la barzelletta basica e la metrica amletica. Quando lo incontro sta per cominciare gli esercizi di memoria per rappresentare il pensoso Edmund Kean al Festival shakespeariano di Verona, è in scena all’Auditorium con il ghignante Cavalli di battaglia e ha da poco finito di girare la terza serie di Una pallottola nel cuore, fiction Rai che andrà in onda a ottobre. Qualche numero per rendere l’idea di che cosa abbia combinato Proietti in mezzo secolo di attività: più di cinquanta rappresentazioni teatrali, una quarantina di regie a cui si aggiungono quelle di alcune opere liriche, una valanga di fiction per la tv, cinque spot, sedici varietà e film per il cinema di ogni genere. Ha toccato il 50% di share e quindici milioni di telespettatori con Il maresciallo Rocca, è cult nell’interpretazione di Mandrake in Febbre da cavallo e ha dato la voce, tra gli altri, al travolgente Genio della lampada del cartoon Aladdin. Mentre passeggiamo dietro le quinte del Globe, cominciamo a parlare del controllo delle espressioni facciali, della modulazione della voce e della necessità per un attore di teatro di far vedere i propri occhi anche a chi siede in ultima fila. A un certo punto Proietti dice: «Ci si accorge che un politico ha un potere vero, quando comincia a parlare lentamente. E si prende delle pause. Ricorda le pause di Bettino Craxi? Lui, addirittura, quando parlava in pubblico, finita la pausa cercava con gli occhi una persona a cui rivolgersi e quella persona diventava l’antenna per far arrivare il messaggio a tutti gli altri». Proietti mette in relazione più volte il teatro e la politica: «La differenza fondamentale è che l’attore/autore teatrale pone domande, il politico dovrebbe dare risposte concrete, reali. Soprattutto ultimamente, invece, la politica è diventata un’esibizione continua di spot poco concreti. Finita la campagna elettorale i politici dovrebbero vietare a se stessi l’utilizzo delle formule futuribili (“Faremo questo”, “realizzeremo quest’altro”) e di quelle propagandistiche (“Bisogna fare in modo che…”, “è necessario che…”). Facciano». Gli ricordo una sua partecipazione alla campagna referendaria del 1974 per il No, cioè a favore del divorzio. Proietti guardava in camera e diceva una sola parola: no, con mille intonazioni. Racconta: «La campagna era curata da Ugo Gregoretti».

Arte al servizio della politica.

«Era un’iniziativa civile. E fortunatamente non ci chiedevano di andare a spiegare le ragioni di quella battaglia. Non avrei accettato».

Perché?

«Perché io non mi so esprimere».

Si stenta a crederlo.

«Intendo dire “politicamente”. Io non frequento i talkshow anche perché non ho un messaggio da dare alle masse».

A metà Anni Ottanta lei fece anche un video sui nuovi cassonetti della spazzatura di Roma.

«Una scenetta per la tv, mutuata da una barzelletta. Io con una coccia di cocomero in mano, circondato dai cassonetti, che dico: “Aooo, se non mi togliete ‘sti cosi di torno ci butto dentro la buccia del cocomero!».

Lei è romano e vive a Roma, da sempre. La città ha problemi serissimi con la monnezza.

«La macchina burocratica è abnorme. Ammetto che io non farei mai il sindaco della Capitale, ci vuole troppo coraggio. E poi i romani…».

Che cosa è successo ai romani?

«Non li riconosco più. Sempre arrabbiati in mezzo al traffico. E mica sono incazzati perché devono andare in fabbrica alle sei di mattina. Li vedi tutti nervosi a mezzogiorno. Ma ‘ndo’ vanno? ‘Ndo’ corrono?».

Provo a far sbilanciare Proietti sull’inchiesta che ha messo sotto la lente dei magistrati la costruzione dello stadio della Roma. L’attore avvolge se stesso in una nuvola giallo-rossa e commenta: «Non so come sia andata, ma io lo stadio lo vojo. Lo vojo». Torniamo a parlare di politici/ attori. E di Matteo Salvini che gestisce i selfie con i fan come una star hollywoodiana. Proietti: «È il dio della promozione e della propaganda». Provoco: «Salvini spietato ministro trumpista, sovranista, murista». Replica: «Vuole che mi metta qui a mostrare quanto sono democratico? Gridano all’emergenza, per l’invasione islamica e per il terrorismo musulmano. Sbaglio o l’unico atto terroristico per ora lo ha realizzato a Macerata un italiano che ha fatto il saluto romano e si era candidato con la Lega?». Entriamo nell’ufficio di Proietti. Fuori dalla porta, appoggiati a una parete, ci sono elmi e maschere piumate. Accanto alla scrivania c’è un pannello in bianco e nero con un florilegio di smorfie proiettiane. L’attore torna sul rapporto tra performer e pubblico. Spiega: «Guardare il pubblico in platea è un po’ da guitti, in teatro non si dovrebbe fare. Ma è una regola che ho rispettato solo all’inizio della mia carriera».

La sua carriera è cominciata a metà Anni Sessanta.

«Studiavo Giurisprudenza per prendere il famoso “pezzo di carta” e ottenere un lavoro stabile. La sera cantavo nei night o nelle sale da ballo per guadagnare qualche soldo. Col teatro non avevo alcun rapporto. Feci un provino per entrare al Centro Universitario Teatrale e mi presero. Ma se cominciamo a raccontare da qui non finiamo più!».

Le prime esibizioni?

«Piccoli ruoli. Poi con il Gruppo Sperimentale 101 cominciai a recitare pezzi d’avanguardia. Sono andato avanti così una decina d’anni. In quel periodo dopo lo spettacolo c’era il dibattito».

Ampio e approfondito.

«Spesso surreale. Una volta, a Cerignola, dopo la messa in scena di Il dio Kurt, Alberto Moravia autore dello spettacolo venne accusato di rispondere alle domande facendosi suggerire le risposte dal regista Antonio Calenda».

Era vero?

«Ma no. Era semplicemente un po’ sordo. E Calenda gli ripeteva le domande del pubblico. Dopo una rappresentazione di Operetta del polacco Witold Gombrowicz, nel 1969, ci dissero che eravamo “servi del padrone”. In quel periodo capii che non sarebbe stato male uscire da quei meccanismi».

Nel 1970 lei venne chiamato per sostituire Domenico Modugno nel musical Alleluja brava gente, al Sistina.

«Non ero abituato a vedere tutti quegli spettatori. C’erano 1.500 persone. Pensai: “Ma allora la gente è disposta ad andare a teatro!”. Capii che avrei dovuto lavorare su qualcosa che attirasse tante persone e fosse allo stesso tempo sperimentale. Contemporaneamente però continuavo ad andare in scena con Carmelo Bene in La cena delle beffe». Proietti ingolla un sorso di una bevanda arancione. Fa una smorfia: «È teribbile!». Ci infiliamo nel dilemma critico su come sia possibile conciliare i versi di William Shakespeare con la farsa popolaresca. Spiega: «A chi mi chiede come faccio, rispondo: “Basta farlo”». Proietti ci lavora dal 1976 e cioè da quando insieme con Roberto Lerici scrisse A me gli occhi, please: «Grazie a un’idea di Carlo Molfese, portammo lo spettacolo in un teatro tenda. All’inizio temevo che non sarebbe venuta tanta gente». Fu un successo strepitoso, replicato negli anni e per anni. Proietti: «Fu una contaminazione di generi ben riuscita. Mescolammo il sacro dell’avanguardia teatrale col racconto e la canzone ritenuta bassa. Venne fuori un mosaico stranissimo che costituì una vera novità. Lo sa che il titolo inizialmente non era A me gli occhi, please?”.

E quale era?

«Ne avevamo due provvisori. Generi diversi, che alludeva al contenuto e ai negozi dell’epoca con l’insegna “Sali, tabacchi e generi diversi”. Oppure Non c’è Mahler, perché in quegli anni, dopo che Luchino Visconti lo aveva usato in Morte a Venezia non c’era spettacolo d’avanguardia che non avesse dentro un pezzo della Quinta di Gustav Mahler».

Il 1976 è anche l’anno in cui Proietti sbarca nei cinema con Febbre da cavallo. Un film che in realtà diventa di culto solo una decina di anni dopo: «Grazie alle tv locali». Sul rapporto tra Proietti e il cinema si potrebbe scrivere un manualetto. Durante la cerimonia che gli ha assegnato il Nastro d’Argento alla carriera, un mese fa, l’attore si è lamentato del fatto che tutti i giornalisti gli chiedono perché non abbia mai sfondato al cinema. Lo faccio pure io. Ne approfitta per raccontarmi una delle prime scene girate, a metà anni Sessanta sul set di Le piacevoli notti: «Film in costume. Mi chiesero se sapevo andare a cavallo e io, pur non avendone mai visto uno, risposi: “Certo!”. Mi misero in sella e quando la regia diede il ciak, il cavallo si imbizzarrì, si alzò sulle gambe posteriori nitrendo. Io mi aggrappai alla criniera, per fermarlo ho rischiato di mettergli le dita negli occhi. Se fossi caduto… Addio Gigi Proietti». Proietti ogni tanto sfoglia il copione di Edmund Kean che porterà in scena a Verona a inizio luglio. Racconta: «L’ho visto la prima volta recitato da Ben Kingsley, a Londra. Lui aveva appena vinto l’Oscar con Gandhi. Stava lì sul palco, con pantaloni neri e camicia bianca. Mi ricordò il mio A me gli occhi, please. Decisi di comprarne i diritti e di tradurlo insieme con Loredana Scaramella». È un monologo che racconta la storia di Kean, leggendario attore shakespeariano. «È una specie di manuale di recitazione, prevede l’uso di tutte le gamme attoriali, le inclinazioni della voce… Lo portai in scena la prima volta a Taormina nel 1989. Avendo già fatto molte cose comiche temevo che la gente ridesse».

Cose comiche. Lei è anche un barzellettiere indefesso.

«La barzelletta è potente. A volte rischia di mettere in ombra tutto il resto. Ho pensato anche di realizzare uno spettacolo tutto di barzellette».

Verrebbe considerato troppo cheap?

«A me gli steccati tra generi teatrali non piacciono. Vorrei che ci fossero più finanziamenti per il teatro d’avanguardia e considero assurdo il fatto che nei teatri italiani vengano trascurati i classici, ma allo stesso tempo non sopporto chi distingue tra teatro alto e teatro popolare, come se quello popolare fosse per forza basso. Quando ho cominciato a recitare non volevo assolutamente far ridere, però mi è sempre piaciuto provare tutti i generi, per vedere che cosa succedeva mettendoli in scena. E quindi anche le barzellette. Certo la barzelletta fatta esplodere nel salotto dell’intellighenzia è deflagrante».

Ti è successo di raccontarla?

«Ci sono tre reazioni: quello che fa la faccia sdegnata, quello che ride sotto i baffi per non far vedere che si diverte e quello che la barzelletta non la capisce proprio».

Categorie : interviste
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