Caparezza (Doppio Binario – 7 – Luglio 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 7 luglio 2018)

IL PROBLEMA ARRIVA quando per scattare una foto in centro costringiamo l’artista ad aprire lo sportello e a fare qualche passo sul marciapiede. In tre secondi si crea un capannello di selfisti che lo puntano con ingordigia. Dice: «Ho dovuto adattarmi alla popolarità e all’inizio mi scambiavano per snob. Ma per un timido avere gli occhi addosso è una tortura». Un van lungo le strade di Milano con a bordo una foresta di ricci. Doppio Binario amarcord nei luoghi della sua vita meneghina con Michele Salvemini, ovvero Caparezza, quarantaquattro anni e una carriera artistica composta da una valanga di parole srotolate in rima alternata, baciata, interna, con assonanze, in versi sparsi. Caparezza da vent’anni è un assiduo fustigatore di costumi italici, sbertucciatore di vizi e di contraddizioni. Eccolo in Fuori dal tunnel: «Mi piace il cinema / e parecchio / per questo mi chiamano vecchio / è da giovani / spumarsi e laccarsi davanti allo specchio». E in Vieni a ballare in Puglia: «Abbronzatura da paura con la diossina dell’Ilva». Nel suo ultimo disco, Prisoner 709, che sta portando in tour proprio in questi giorni, ha messo sotto la lente se stesso: 7 è il numero delle lettere che compongono il nome Michele, 9 sono le lettere di Caparezza. L’idea è che Michele sia prisoner di Caparezza. Il rapper ha cominciato a pensarci dopo essere stato colpito da acufene, cioè da quel fischio acuto che trapana il cervello e non se ne va: «Mi ha cambiato un po’ la prospettiva. Prima pensavo di avere una missione, la musica. Ora vado avanti giorno per giorno». La hit Ti fa stare bene è contenuta all’interno di quest’album di autoanalisi e i versi finali sono rivelatori: «Snobbo le firme perché faccio musica, non défilé (ti farà stare bene) / Sono l’evaso dal ruolo ingabbiato di artista engagé (ti farà stare bene)». Ci diamo del tu.

Evadi dall’impegno?

«Evado dalla gabbia dell’etichetta di “impegnato”. Mi sento libero di affrontare i temi che preferisco. Tra l’altro oggi esprimere pareri politici in una canzone è difficile».

Perché?

«Se non lo si fa in una certa maniera si rischia di ridurre tutto alla marea di tweet in circolazione».

Non ami cinguettare?

«Lo faccio raramente e solo sul mio lavoro. Il fatto che ognuno con i tweet pensi di essere un giornale con dei lettori… non assolve nessuno. Non serve a niente». Caparezza è di sinistra. Dichiara: «Non parteggerò mai per un partito che non sia dichiaratamente di sinistra. Alle ultime elezioni ho votato Potere al popolo». Di canzoni a sfondo socio-politico ne ha scritte a mazzi. In Eroe, che è la storia di un operaio, dice: «Stipendio dimezzato o vengo licenziato, a qualunque età sono già fuori mercato». In Inno verdano (sfottò del leghismo verde) canta: «Imbraccia il fucil, / prepara il cannòn, /difendi il verdano dai riccioli d’or». E ancora: «… tracciavo il confine / di Rijkaard e Gullit niente figurine». Quando gli chiedo un parere su Matteo Salvini, ministro dell’Interno, sovranista e murista, gli spunta un sorriso: «Dice di avere il rosario in tasca. E per questo pensa di poter fare quel che vuole. È arrivato a criticare il cardinal Ravasi che aveva parafrasato il Vangelo “Ero straniero e non mi avete accolto”. In pratica Salvini ha dissato Gesù Cristo. Ahah». Nel rap «dissare», vuol dire non rispettare, insultare. Caparezza sostiene che la comunicazione politica abbia raggiunto livelli troppo bassi. Cita il Nanni Moretti di Palombella Rossa: «Chi parla male, pensa male. Si può essere politici senza usare il politichese e senza scadere nel Bar Sport?».

Si può?

«Tra il dire una marea di cose che non significano nulla, passo spedito Caparezza decise presto di abbandonare il mondo pubblicitario per dedicarsi a tempo pieno alla musica 87 cioè in politichese, e il far parlare la pancia e basta, oggi ha vinto la seconda opzione. I discorsi di Alcide De Gasperi li ricordiamo? Erano sentiti, comprensibili e garbati. Si dovrebbe tornare a quel modello». Caparezza, nei primi anni Novanta, si trasferì a Milano per studiare all’Accademia di Comunicazione. Dice: «Dormivo in una struttura gestita da un prete, don Alvise, si chiamava Casa del giovane lavoratore. Venivo da Molfetta. Vinsi una borsa di studio. Mio padre era operaio e mia madre maestra, non mi sarei mai potuto permettere quella scuola. Arrivato a Milano, in stazione, beccai un treno di leghisti che inveivano contro i meridionali. Pensai “Buongiorno!”». Con il van portiamo il cantante davanti alla sede dell’Accademia. Sul marciapiede c’è un signore con un’enorme barba bianca che parla al cellulare. Caparezza: «Non ci credo! Quello è Michelangelo Tagliaferri, il mio docente di semiotica». I due si abbracciano. Non si incontrano da anni ma cominciano a parlare come se si fossero visti qualche sera fa. Tagliaferri: «In questo momento regna la menzogna. C’è bisogno di un patto tra noi che diciamo la verità. Un giuramento tra persone che fanno comunicazione». Caparezza: «Hai capito che professore avevo? Venni qui per evitare una brillante carriera da ragioniere. Ero ossessionato dalla creatività. Mi piaceva inventare».

Quando hai cominciato a coltivare la tua indole artistica?

«Da piccolo prendevo i pupazzi di He-Man, li mettevo su un libro piedistallo e facevo finta che cantassero. Scrivevo i pezzi, disegnavo le copertine. Mia madre sostiene che la prima parola che ho detto è stata “chiccolo”».

Chiccolo?

«Sarebbe disco. Ho due immagini alchemiche. Il colore arancione con cui mamma dipingeva non so che cosa e un vinile che gira e produce suoni. Mio padre aveva una piccola discoteca ambulante con cui arrotondava lo stipendio suonando ai matrimoni e alle feste di paese».

Il tuo esordio da rapper?

«All’inizio mi chiamavo Mix, poi Mikimix, poi Passolungo…».

Come Mikimix sei stato a Castrocaro e a Sanremo…

«Ho avuto il privilegio di non avere successo. Se fossi andato bene sarebbe stato difficile scrollarmi di dosso quella storia».

Quale storia?

«Cantavo quel che mi chiedevano. Per lo più scemenze, mentre intorno a me sentivo crescere il rap oltranzista degli Onda Rossa Posse. Io non sono mai stato combat, ma ero attratto da quei contenuti che venivano fuori dai centri sociali».

In quel periodo eri anche conduttore della trasmissione Segnali di fumo su Videomusic. Capelli rasati e parlata svelta. Nel 1997 cantavi E la notte se ne va: «Ed è dolce come panna l’eco della ninna quando vado a nanna».

«Ebbi un tracollo psicologico. Ero angosciato all’idea di avere successo con un pezzo che non mi sentivo addosso».

A molti artisti il successo piace a prescindere da come lo si ottiene.

«Le cosiddette operazioni. Che senso ha fare un disco estivo che parla dell’estate?».

Il senso è venderlo.

«La mia logica è essere coerente con quello che penso. E fottermene del resto».

Come sei passato da Mikimix a Caparezza?

«La svolta ci fu nell’estate del 1998. Ero animatore in un villaggio vacanze nelle Murge. Feci sentire i miei pezzi non pubblicati ad alcuni ragazzi. Si complimentarono. Uno di loro, punk, mi disse: “Dovresti riprovarci cambiando tutto, come fanno i francescani. Datti un’altra chance”. Decisi di tornare al nome con cui mi chiamavano in famiglia da bambino».

Caparezza, cioè testa riccia. Il primo successo: Fuori dal tunnel.

«Lo mandavano ovunque. Non sono uscito di casa per non so quanto tempo. I miei amici mi dicevano: “Ma che combini?”».

E’ vero che per un po’ non hai eseguito Fuori dal tunnel in concerto?

«Non volevo essere di moda».

Snob. Nel pezzo canti: «Immune al pattume/ della TV di costume».

 «Non volevo che la gente venisse a vedere venti canzoni dal vivo sperando che l’ultima fosse Fuori dal tunnel».

Il pubblico come ha reagito?

«All’inizio non bene. Venivano meno persone e ho perso qualche acquirente. Però quelli che hanno continuato a frequentare i miei tour poi sono rimasti e sono cresciuti con i miei dischi. Quando ho sentito che quella canzone non era più necessaria per portare gente ai concerti l’ho rimessa in scaletta. Su quel pezzo sono nate molte leggende metropolitane».

Per esempio?

«Nel video vengo inseguito da un’enorme palla bianca. Si cominciò a dire che rappresentasse la cocaina e che il mio tunnel fosse quello della droga. Beh, io non ho mai preso alcuna sostanza».

Fuori dal tunnel divenne la sigla di Zelig.

«Andai a parlare con Gino e Michele, autori della trasmissione. Preferivo che la utilizzassero loro piuttosto che Bisturi, altra trasmissione che ne voleva fare suo». Procediamo per le vie di Milano. Caparezza indossa una maglietta con la scritta “Captain Beefheart”, che è un artista rock sperimentale anni Settanta. Gli chiedo che cosa pensi di Spotify. Dice che costa troppo poco. E quando gli chiedo se la nuova moda di stampare la musica su vinile sia dovuta alla ricerca di un suono più caldo, replica: «Il vero potere del vinile non è la qualità del suono, che è superiore, ma il tempo che ti devi prendere per ascoltarlo». Passiamo davanti alla “Casa del giovane lavoratore”. Sorride: «Sembra una galera». Ci spostiamo su altri titoli di successo e sul rischio che un pezzo venga frainteso. Racconta: «Vieni a ballare in Puglia fu scambiata per una critica alla regione in cui vivo. O, all’opposto, per una scanzonata taranta. C’è anche chi ne mandò in radio solo il ritornello». Senza le strofe in cui si denunciano le morti sul lavoro e l’inquinamento. Spiega: «Io però ho smesso di farmi problemi sui fraintendimenti, altrimenti dovrei semplificare troppo i testi e non mi divertirei. Vogliamo parlare della coerenza degli artisti?».

Parliamone.

«Sai quanto paga la coerenza nella musica? Zero. Ci sono artisti molto coerenti poco premiati. Io credo di essere apprezzato per il lato artistico più che per la coerenza. E, soprattutto, sono circondato da una marea di artisti incredibilmente incoerenti che vengono continuamente premiati». Caparezza ha rifiutato di fare il giudice nei talent: «Mi sono arrivate un paio di proposte, ma pur venendo da un genere, il rap, che si nutre di competizione, considero assurdo mettere in gara gli artisti. E ancora più assurdo far giudicare un ventenne da una persona adulta. Dovrebbe essere il contrario». Mi elenca quali sono secondo lui i talenti del mondo rap: «Quentin40 si è inventato una destrutturazione del linguaggio interessante. Mi piace Rkomi. Rancone e Mezzosangue sono ottime penne». Lo provoco: «Molti rapper oggi abitano Instagram e si fanno fotografare con griffe da cui vengono pagati». Risponde: «Ho rifiutato molti soldi, anche quando non li avevo».

Chi te li aveva proposti?

«Una casa automobilistica tedesca. E un’azienda di telefonia mobile».

Perché hai rifiutato?

«Non volevo che venisse usata la mia musica per vendere qualcosa. Non ho rimpianti. Se accetti di fare il testimonial lo fai per soldi».

C’è chi sostiene che guadagnare tanto e fare qualche compromesso sia un modo per poi essere liberi di fare qualsiasi scelta. Anche contestare il mercato che ti ha finanziato.

«Le scelte si possono fare anche prima, senza cedere ai compromessi. La storia per cui sconfiggi lo squalo entrando nella sua pancia, non funziona».

Perché?

«Perché se entri nella pancia dello squalo, sei cibo».

Categorie : interviste
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