Massimo Fini (Doppio Binario – 7 – Maggio 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 17 maggio 2018)

A UN CERTO PUNTO si pone il problema del sorriso. Perché Massimo Fini non sa proprio come farne uno. Si sforza, ma niente. Sollecitato dal fotografo Massimo Sestini abbozza una mezza smorfia. Conclude: «è più facile che mi metta a piangere». Clic. Siamo nell’appartamento meneghino del più polemico dei polemisti italiani. Ci restiamo: lui è molto vicino alla cecità e il suo salotto è un magnifico manifesto autobiografico, dove ogni oggetto è un racconto, un pezzetto di vita, un vizio. In disordine sparso: la macchina da scrivere Lettera35; pile di quotidiani ingialliti; una lunga fila di accendini usati e non gettati; un sabot d’acciaio con carte da chemin de fer; la prima pagina del Corriere Lombardo dell’agosto 1961 con l’editoriale d’addio del direttore, suo padre, Benso Fini; un’enorme libreria gonfia, con tre ripiani dedicati a Friedrich Nietzsche; una serie di chine sadomaso del disegnatore Crepax; un album delle figurine del Mondiale Russia 2018; la pergamena con il Premio di Scrittura Indro Montanelli; un vinile di fine Anni 50. La casa editrice Marsilio dopo aver compattato il Finipensiero nel tomo La modernità di un antimoderno, ora ha raccolto i libri più autobiografici nel volumone Confesso che ho vissuto. Settantaquattro anni densi, con parecchi eccessi: ettolitri di whisky, migliaia di sigarette, parecchio sesso e moltissime querelle. Tutto frullato in una giostra di avventure più o meno giornalistiche che hanno un gustoso sapore anarchico. Fini ha attraversato redazioni multicolor: L’Avanti!, Il Giorno, L’Indipendente, L’Europeo, e da anni scrive per il Fatto Quotidiano. Tra i suoi pezzi più celebri c’è un articolo del 2007 che comincia così: «Vorrei essere un talebano…» e prosegue con lui che vorrebbe essere anche un kamikaze islamico, un nazista o un ebreo in un lager, insomma, qualsiasi cosa piuttosto che un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana devastata dal trasformismo, dal cinismo e dalle meschinerie. Fini rivendica la linea. Impugna un bicchierone di vino rosso e spiega: «Il benessere ha stravolto valori pre-politici e pre-ideologici come onestà, dignità e onore». Più avanti dice: «Oggi c’è una diffusa mancanza di senso: non si può vivere inseguendo il sogno di passare da un’utilitaria a un Suv. Il pezzo sul talebano non lo voleva nessuno e me lo pubblicò Vittorio Feltri su Libero anche se in quel momento i nostri rapporti erano piuttosto freddi». Zizzaneggio: «Ora sono peggiorati ulteriormente».

Qualche settimana fa Fini ha criticato Feltri per una stroncatura di Luigi Di Maio e Feltri ha replicato impugnando la clava. Leggo qualche riga feltriana ad alta voce: «A differenza di Fini non sono mai stato assunto dall’Avanti!, organo del partito socialista. Lui si è venduto alla politica, io mi sono lautamente fatto retribuire prestazioni professionali e probabilmente questo particolare eccita l’invidia del mio caro amico e collega». Fini prima ghigna: «Feltri ormai parla solo di denaro». Poi ci ripensa e sbuffa: «Non può dire certe cose, porco cane! Ripristinerei il duello. Feltri ha vissuto per anni all’ombra di Berlusconi. Io non sono mai stato un uomo di partito, non ho mai fatto parte di lobby o di combriccole. Sono sempre stato professionalmente un solitario». Gianni Minoli ha definito Fini «un perdente di successo». Gianfranco Funari lo considerava «un uomo solo». Racconta: «Un collega mi ha descritto come “un mistico senza fede”». Poi torna sui soldi: «Qualche sera fa ero a cena con Alessandro Sallusti e lui ha detto alla mia fidanzata: “Lo sai che Massimo ha rinunciato a parecchi miliardi di lire?”».

E’ vero?

«Non sono mai entrato in un certo giro. Feltri mi ha proposto almeno quattro volte di andare con lui al Giornale, ma non potevo lavorare in un quotidiano di proprietà di Silvio Berlusconi».

Quando c’è stata la prima offerta?

«Nell’estate del 1993. Lui aveva portato L’Indipendente a vendere più di centomila copie. Ed eravamo liberi. In agosto mi invitò a cena. Mi chiese se volevo andare con lui al Giornale. Gli dissi che sarebbe stato un errore personale e professionale. Allora Vittorio alzò il bicchiere e brindò: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. La scena si è ripetuta altre volte. L’ultima il giorno prima che lui firmasse col Giornale». Nella tua biografia, Una vita, racconti che due anni dopo, nel 1995, sul divanetto rosso su cui siamo seduti ora, si accomodò Umberto Bossi che ti voleva far dirigere lo stesso Indipendente.

«Per qualche giorno ho sperimentato il potere. I colleghi mi chiamavano per farsi assumere. Ma poi l’operazione saltò».

Chi altri ha frequentato questo divanetto?

«Negli anni in cui facevo un po’ di vita mondana Susanna Agnelli, Roberto Maroni…».

Un altro leghista. Tu hai avuto una passionaccia per il Carroccio.

«Faccio una premessa. Io sono sempre andato ovunque, per conoscere, scrutare, studiare: sono stato invitato da Rifondazione comunista e ho preso applausi dai missini di Giorgio Almirante quando a un convegno ho detto loro che mi sorprendeva che fossero atlantisti. Il vero dovere nel nostro mestiere è rimanere obiettivi: anche se un movimento ti sta simpatico, devi denunciare le cazzate a cui assisti».

A te è successo?

«Quando Bossi disse che sarebbe andato a prendere i fascisti “casa per casa” feci un editoriale che gli toglieva la pelle. E all’epoca consideravo molto interessanti le idee di Bossi e di Gianfranco Miglio sull’identità dei popoli».

Oggi chi o che cosa ti incuriosisce?

«La riflessione dei Cinque Stelle sul tempo come vero valore della vita».

Beppe Grillo…

«Lo conosco da trent’anni. Dopo aver letto, su consiglio della moglie Parvin, il mio La ragione aveva torto?, mi chiamò per chiedermi qualche dritta per uno spettacolo un po’ politico. Hai presente quando in scena spaccava i pc con un martello da cantiere?».

Era il Grillo anti-moderno.

«Glielo avevo suggerito io. Poi Casaleggio lo fece riavvicinare ai computer e nacque il Movimento Cinque Stelle».

Hai conosciuto anche Gianroberto Casaleggio?

«Sì. Mi chiamavano per fare degli interventi sul blog di Grillo. La prima volta mi ritrovai in una stanza con un tipo un po’ allampanato, aveva degli strani capelli. Mi intervistò. Non avevo capito bene il suo nome e me ne andai chiedendo: “Ma davvero quel signore si chiama Zé Roberto, come il centrocampista del Bayer Leverkusen?”».

Con il figlio Davide hai un buon rapporto?

«Lo dipingono come algido. Ma non lo è. Un anno fa, siamo stati a cena insieme dopo la convention #Sum01, di Ivrea. Con noi c’erano anche Beppe Grillo, Alessandro Di Battista e Marco Travaglio. Finito il pasto Marco partì per Torino. Io mi infilai in un locale a bere con Davide e Alessandro: il primo mi raccontò delle sue immersioni subacquee, il secondo del figlio in arrivo. A Di Battista del governo e dei ministeri non interessa davvero nulla. Sono ragazzi».

Giù un altro sorso di vino. Fini si affaccia al balconcino che dà sui grattacieli di Porta Nuova: «Per un anti-moderno come me è una beffa averli qui davanti». Nel corso dell’intervista i bicchieroni di rosso ingollati diventeranno cinque. Dato che in passato il giornalista ha avuto guai con l’alcol, gli chiedo se sia tutto sotto controllo.

Mi spiega che non tocca superalcolici da decenni e che sgarra solo a Natale quando cerca di introdurre il figlio Matteo alla russaggine di famiglia, a colpi di vodka e caviale. Mentre parla delle sue origini russe Fini, che è nato in provincia di Lecco, si fa romantico: «Mia madre, Zinaide Tubiasz, poteva stare ore a parlare della Grande Madre Russia. I russi sono sognatori, melodrammatici, orgogliosi, malinconici, un po’ napoletani. Di sicuro non hanno come caratteristica il cinismo roman-andreottiano, che è sempre mancato anche a me». Segue aneddoto sul cinismo caciarone dei romani che poi, secondo Fini, è il segreto della loro longevità: «Aveva appena nevicato, quattro fiocchi, ed ero su un autobus capitolino. A un certo punto abbiamo percorso una salitella, arrivati in cima il conducente non se la sentiva di affrontare la discesa innevata e per valutare il terreno è sceso in strada. Da uno dei sedili in coda si è sentito un urlo: “Ah Schettinooooo, e risali va”. I romani sono decisamente più easy dei lombardi».

Lui è un lombardo atipico. Un po’ maledetto. Della Milano contemporanea non ama né i grattacieli, né la scomparsa dei bar con biliardo, dove si socializzava e si giocava anche d’azzardo. Quando gli chiedo quanto sia forte nel gioco del poker, risponde: «C’è chi mi considera il numero uno. Anche perché al tavolo, rispetto agli altri giocatori, sono sempre stato quello che reggeva meglio l’alcol. Ho ancora i quaderni su cui segnavo le partite giocate, le entrate e le uscite di denaro».

Da uno scaffale di una libreria spunta il suo Di(zion)ario erotico, scritto nel 2000. Sorride: «Su di me circolano leggende assortite: che sia misogino, che sia omosessuale, che sia un tombeur des femmes. Falsità, con un pizzico di verità». Indico le tavole di Crepax appese al muro con donne in latex e pose sadomaso. Io: «Tra i disegnatori erotici preferisco Milo Manara». Lui: «Anche io, è più drizzevole». Fini ne approfitta per lamentarsi degli eccessi di carne che oggi le donne mettono in mostra: «Prima erano maestre di seduzione. Ora ti trovi davanti a ragazze che sculettano in tanga e ti fanno cadere la libido. Il “vedo non vedo” è la base». Aggiunge: «L’aggressività delle donne aumenta. Il maschio sta scomparendo». Gli faccio notare che le cronache piene di fidanzate ammazzate e di orchi molestatori mostrano una realtà diversa. Spiega: «Le eccezioni esistono, ma nella generalità le donne ormai sono più aggressive». Sostiene anche che il caso Weinstein abbia aperto una pericolosissima caccia alle streghe: «Ogni tanto vengono a trovarmi dei fan, giovanissimi. Parliamo. Quando ci sono anche delle ragazze, però, li ricevo al bar: non posso rischiare una denuncia perché magari ho detto una parola sbagliata in casa mia».

È vero che qualche anno fa sei stato anche “lettore di culi”?

«Ebbene sì. Tutto nacque da un articolo. Il mensile Photo, a fine Anni 90, mi chiese di scrivere un pezzo illustrato con venti immagini di sederi. Io aggiunsi una didascalia/ ritratto per ogni scatto. Le didascalie piacquero anche alle proprietarie dei sederi che si riconobbero nella descrizione che avevo compilato. Un successo. E a quel punto accaddero due cose».

La prima.

«Proposi all’editore Marsilio di pubblicare un dizionario erotico».

La seconda.

«Una sera mi ritrovai a cena con due amiche poco più che ventenni e con un’avvocatessa sui quaranta. Le due raccontarono alla donna della mia abilità nel capire il carattere di una donna dal suo sedere. Lei non ci credeva. Le spiegai la mia tecnica: un’osservazione da ogni angolazione delle chiappe, prima coperte, poi semi scoperte e infine nude. Mi disse che voleva provare. Nel giro di qualche settimana si sparse la voce».

Fini culologo.

«Per un po’ di tempo molte belle donne romane e milanesi si fecero “leggere” il sedere da me. Il patto era che non ci sarebbe stato alcun rapporto sessuale. Ma il gioco era hard. Pesante. Decisamente non nello spirito #MeToo. Un paradiso per un voyeur come me».

Sei un voyeur reo-confesso?

«Lo ero. Ero anche un lettore vorace. Poi il Dio Beffardo mi ha colpito: vista crollata, passioni mortificate».

Categorie : interviste
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