Emma Marrone (Doppio Binario – 7 – Maggio 2018)

0 commenti

(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 10 maggio 2018)

È un po’ agitata perché è reduce da uno scherzo in tv: Le Iene le hanno fatto affrontare un fidanzato che maltrattava la sua ragazza. Spintoni, urlacci… Dopo la piccola rissa in mezzo alla strada, è venuta all’appuntamento con il Doppio Binario, insieme con Francesca, la sua manager. Racconta: «Non è la prima volta che mi butto in mezzo. Se vedo una donna aggredita intervengo». Siamo nella piazza panoramica del Gianicolo, terrazza sulla Capitale. Emma Marrone, 33 anni, salentina, ugola tonante del pop italiano, look total black, si muove come un’equilibrista navigata sul suo hoverboard. Zzzz… Curva sull’asfalto… zzzz… Evita una buca… zzzz… Gira su se stessa. Dice: «Qui ci vengo spesso da sola, con una birretta. C’è una luce pazzesca». Appena ci sediamo su un muretto, i turisti e i passanti intorno a noi cominciano a scrutarla. Si crea una piccola fila. È subito selfie time. Emma si presta. Poi spiega: «C’è chi esagera. Tu stai chiacchierando per i fatti tuoi e ti arriva una manata sulla schiena di qualcuno che ti abbraccia e scatta una foto. Io comunque non mi sottraggo mai, neanche quando sono appena uscita dalla palestra e mi beccano al supermercato sudata in ciabatte con il mio carrellino della spesa foderato con fantasia scozzese». È un’immagine da casalinga ultra disperata. Le faccio notare quanto sia distante dal luccichio sgargiante di Amici, la trasmissione Mediaset che la lanciò nel 2010. Lei: «Ho una vita più normale del normale. È la mia indole, per niente show-business». Qualche anno fa Emma disse che avrebbe intitolato la sua autobiografia On the road. Storia di una camionista travestita da cantante. Lei è un paradigma della musica senza steccati del Terzo Millennio: salta con disinvoltura dagli studi tv al fianco di Maria De Filippi al palco del Primo Maggio tarantino, quello più engagé, dove i Modena City Ramblers cantano Bella ciao. Dice: «Quando non c’era il boom che c’è oggi in tv, la critica e il mondo della musica consideravano merda noi dei talent. Ho ingoiato parecchi rospi». Ora Emma sta per cominciare un tour nei palazzetti dello sport di tutta Italia con il suo ultimo disco Essere qui. Ci diamo del tu. Le domando come mai, vista la sensibilità battagliera, nei suoi dischi non ci siano mai pezzi politici. Replica che non ne sente il bisogno e che sceglie le canzoni che la coinvolgono emotivamente: «Raccontano molto di me e della mia lotta».

La tua lotta. Nel disco c’è un pezzo, Malelingue, che parla degli hater. Una volta, durante una trasmissione tv, hai affrontato un tuo hater.

«Profili fake, giornalisti poco attenti che non pensano a quanto lavoro ci sia dietro a un progetto… L’odio online è la piaga di questi tempi. I social sono uno strumento/ spazio meraviglioso invaso dagli ignoranti. Si dovrebbe ricominciare dall’educazione».

Online hai ricevuto insulti anche quando hai parlato di quanto sia importante fare prevenzione sui tumori.

«Avendo vissuto una vicenda dolorosa e avendo un seguito notevole tra le donne, mi sembrava opportuno dare un segnale».

La vicenda dolorosa.

«All’inizio del 2009 mi hanno trovato un tumore grande come un’arancia tra l’utero e le ovaie. Operata d’urgenza. La prima volta sono stata sotto i ferri per sette ore. Per paura che ci fosse una contaminazione, hanno tirato fuori un organo alla volta, lo hanno analizzato e poi lo hanno rimesso dentro».

Immagino la paura.

«Io non mi sentivo più io. La mia preoccupazione più grande era per i miei genitori. Sentivo il loro dolore. Li ho visti invecchiare di colpo».

Tu che cosa stavi facendo in quel momento?

«Avevo venticinque anni. Lavoravo e cantavo. Con i M.J.U.R.».

I Mad Jesters Until Rave.

«Era uscito il nostro primo disco, con pezzi originali. Un imprenditore aveva organizzato un tour nei club di tutta la Penisola. Un sogno folle e anche faticoso».

Perché faticoso?

«Per registrare il disco eravamo andati a Torino. Senza una lira. Ci potevamo permettere una sola stanza in un ostello. Io ero l’unica donna ed entravo di nascosto perché le camere erano unisex. La mattina prendevamo il bus 77 e andavamo a registrare nei Dracma Studios. Scoperta la malattia dissi agli altri componenti della band che non potevo andare avanti. Ci sciogliemmo».

Riascolti mai quel disco dei tuoi M.J.U.R.?

«È l’unica cosa che ascolto tra quelle che ho realizzato io».

Potresti cantare un pezzo dei M.J.U.R. in una delle prossime date.

«Sarebbe bello, ma quella è una ferita non ancora guarita. Mi chiedo spesso come sarebbe andata se non mi fossi ammalata, se avessimo fatto il tour. Come sarei oggi? È un pezzo della mia vita non vissuta che mi mancherà sempre. Anche perché non è stata una mia scelta, è la vita che ha scelto per me».

Pochi mesi dopo lo scioglimento del gruppo sei entrata nel cast di Amici.

«Mi sono operata nel marzo 2009. Per molte settimane ho dovuto portare il busto con le stecche. Mio padre era preoccupatissimo e cominciò a cercarmi un impiego stabile come commessa in un negozio. Lo avevo già fatto. Avevo anche servito in alcuni bar. Dissi a mia madre che la mazzata al mio sogno artistico era stata fortissima e che quindi dopo l’estate avrei accettato il lavoro trovato da papà. Mia madre però, di sua iniziativa, decise di chiamare Amici».

Perché?

«Perché quando dovevo andare a registrare il disco a Torino, lei, preoccupatissima, aveva avuto un confronto duro con mia nonna…».

Nonna Uccia, diminutivo di Donata, di cui porti il nome tatuato sull’avambraccio…

«Nonna le disse che non avrebbe dovuto impedirmi di partire. Perché negarmi la possibilità di usare un dono di Dio sarebbe stato un peccato verso il Signore. Quindi mia madre chiamò Amici e loro mi convocarono. Il resto è storia nota».

Già. La vittoria ad Amici, la vittoria al Festival di Sanremo… Mentre ripercorriamo le tappe della sua carriera musicale, Emma indirizza l’hoverboard verso un baretto. Zzzz. Ci sediamo a un tavolo per il caffè. Viene accolta da un fan che chiede timidamente un autografo. Due americani nerboruti assistono alla scena, non capiscono. Lei spiega: «I’m a singer». Poi rivolta a me: «Da qualche anno vivo a Monteverde con la mia manager». Le chiedo che cosa pensi della Capitale: le buche, la sporcizia… Replica: «Roma è la città più bella del mondo, sono i maleducati e gli ignoranti a rovinarla». Prima di fermarsi nella Città Eterna, Emma viveva a Vermicino, frazione a sud di Roma, tristemente nota per la vicenda del piccolo Alfredino Rampi, morto in un pozzo artesiano, nel 1981 in diretta tv. Racconta: «Avevamo messo su una specie di piccola comune, con alcuni amici meridionali fuori sede». Segue breve dibattito sul rapporto tra la vittoria dei Cinque Stelle nel Sud (con la promessa del reddito di cittadinanza) e chi ha accusato i meridionali di fannullonismo assistenzialista. Emma la chiude così: «Fannulloni? Molte persone prima di parlare del Sud si dovrebbero sciacquare la bocca».

Di che partito musicale sei: canti per incidere dischi o per suonare live?

«Faccio questo mestiere per i concerti. Mi risparmierei volentieri tutto il resto».

La tua esibizione più memorabile?

«La prossima. Le mie performance non sono mai uguali, cerco un’evoluzione continua. Sono cresciuta a pane e palco».

Ricordi il tuo primo concerto?

«Da spettatrice? Francesco De Gregori, al porto di Gallipoli. Stavo passeggiando con mio padre. Ho visto la locandina appesa per strada e gli ho detto: “Ehi, lui è il signore che mi fai cantare. Mi ci porti?”».

Tuo padre ti faceva cantare le canzoni di De Gregori?

«Ho cominciato così: un giorno ero nella mia cameretta e stavo cantando le mie preferite: Mina, Patty Pravo… Mio padre mi ha sentita e mi ha chiesto di esibirmi con una sua vecchia band, I Tulipani Neri».

Quanti anni avevi?

«Una decina. La voce era la stessa che ho adesso». Una bambina orco. «Ahahah. Stesso timbro. Basso. Guarda…».

Emma tira fuori una foto in bianco e nero un po’ sgranata. C’è lei undicenne, con una camicia a scacchi e l’aria un po’ imbarazzata, circondata dal gruppo musicale del padre: «Mi vergognavo molto. Ero un po’ sociopatica. Cantavo con le mani in tasca e la testa china, non guardavo mai il pubblico».

Dove vi esibivate?

«Locali, feste di piazza, matrimoni, battesimi…».

Quando hai suonato l’ultima volta con la band paterna?

«Poco prima di essere chiamata ad Amici. Ho fatto tanta tanta gavetta. La tanta gavetta e i guai di salute mi hanno insegnato a fare tutto quello che mi passa per la testa fregandomene di quello che pensano gli altri».

Come recita il tatuaggio che hai sul polso: “Je m’en fous”.

«È un tatuaggio che abbiamo uguale io, mio padre e la mia manager, Francesca».

Potrebbe essere scambiato col motto mussoliniano “Me ne frego”.

«No, no. Si traduce “Me ne fotto”. E ti assicuro che non c’è niente di fascista sul mio corpo. E mai ci sarà».

Categorie : interviste
Leave a comment