Fabio De Luigi (Doppio Binario – 7 – Marzo 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 15 marzo 2018)

A UN CERTO PUNTO PRENDE UNA BOCCIA BLU, si mette di profilo, tira fuori la lingua e fa finta di essere Jesus Quintana il leggendario personaggio de Il grande Lebowski interpretato da John Turturro. Poi si siede, impugna la sfera come se fosse un teschio e simula un monologo shakespeariano: «Bocciare o non bocciare…». Doppio Binario con Fabio De Luigi, 50 anni, attore. Avremmo dovuto zompettare su un campo da baseball (perché De Luigi ha un passato in serie A con mazze e guantoni), ma per difenderci dalle intemperie siamo finiti nel Centro della Federazione Italiana Bocce. Una parte della struttura viene utilizzata dalla nazionale femminile di Sitting Volley, specialità paraolimpica. Appena le ragazze finiscono l’allenamento e si accorgono della presenza di Fabio scatta la caccia al selfie. Lui sbatte gli occhioni azzurri e si presta. Clic. De Luigi è stato mattatore per molti anni della trasmissione Mai dire gol con la Gialappa’s Band, ha dato vita a personaggi surreali (il cantante dinoccolato Olmo, l’aristo-tradizionalista Luigio Guastaldo della Radica, il supereroe della normalità Medioman…) e con le sue imitazioni ha scorticato una pattuglia assortita di vipponi (il bomber Bobo Vieri, il giornalista Mario Giordano, lo scrittore Carlo Lucarelli…). Da qualche anno ha abbandonato sketch e imitazioni per concedersi apparizioni più strutturate in tv (Rischiatutto con Fabio Fazio, Facciamo che ero io con Virginia Raffaele…) e, soprattutto, ruoli cinematografici da protagonista (in questi giorni esce Metti la nonna in freezer, in cui duetta con Miriam Leone). Essendo lui romagnolo, terra rossa, gli chiedo se sia sorpreso dai risultati delle ultime politiche: il tracollo del Pd, il trionfo del M5S, l’affermazione della Lega. De Luigi è sulla linea Napolitano: «Mi sorprende la sorpresa. La débâcle democratica era abbastanza annunciata». Aggiunge: «La sinistra vive un momento complicato in tutta Europa. Da noi non hanno capito la pancia del Paese, ma è anche vero che capire la pancia non vuol dire assecondarla. Altrimenti i politici a che cosa servono?». Si parte. Ci diamo del tu. Fabio lancia il boccino e prova un accostamento. Quando gli faccio notare che tra interviste e social network, dove ha una milionata di follower, non c’è traccia di suoi interventi “politici”, sorride: «Non ho un profilo guru. Non mi metto a dare indicazioni. Se mi viene una battuta, bene, ma non ho tanto da dire all’umanità». Domando: «Stai facendo un elogio del disimpegno?». Replica: «Ho un impegno non esposto. Non mi frega molto di dimostrare che me ne frega qualcosa. E non amo le semplificazioni sulle cose importanti».

Se potessi sussurrare all’orecchio del premier qualche provvedimento per dare una mano allo showbusiness…

«Gli chiederei di aiutare l’industria del cinema ad avere più coraggio».

Spiega meglio.

«Un’industria vera dedica una parte del proprio fatturato alla ricerca. Beh, avendo qualche incentivo si potrebbe investire a fondo perduto su opere più rischiose, per cercare strade creative alternative. Per farlo, oltre allo Stato, servirebbe un accordo tra produttori».

Mario Monicelli una volta ha detto proprio a 7 che in Italia mancano sceneggiatori coraggiosi.

«Io credo che ci siano. Ma scrivono testi su cui nessuno ha il coraggio di investire».

Mentre passiamo dagli accostamenti al pallino ai tentativi (vani) di bocciare con veemenza le sfere sulla pista, De Luigi mi dice che l’elemento rischio è assente anche nell’utilizzo degli attori.

Si usano sempre gli stessi interpreti per gli stessi ruoli?

«Si va sul sicuro».

A te la critica ha rimproverato di indugiare nei ruoli da belloccio impacciato romantico.

«Parliamone. L’anno scorso ho recitato in Questione di Karma, un bel film dove mi sono messo in gioco: non ero né comico, né imbranato. Il film non è andato bene, ma non mi pare di aver letto critiche in cui si diceva: “Hanno provato a fare qualcosa di diverso”. Beh, questo sistema spinge tutti, soprattutto quando si parla di cinema popolare di intrattenimento, a inseguire il mercato, ad andare sul sicuro».

Tu hai fatto molta tv, hai recitato con registi diversissimi tra loro (da Gabriele Salvatores a Neri Parenti passando per Pupi Avati), qual è il ruolo che lasceresti ai posteri, o che faresti vedere ai tuoi figli per dirgli “Guardate papà”…?

«Deve ancora venire quel ruolo».

Questa risposta non vale.

«Allora dico l’ultimo, in Metti la nonna in freezer. In America dicono che un attore “è” quel che ha recitato nell’ultimo film. E’ una visione un po’ estrema ma io vivo un po’ così. E a ogni film è come se mi dovessi sottoporre al giudizio universale. Mi è capitato più volte di abbandonare la sala dove proiettavano la prima di un film di cui ero protagonista. Per l’ansia».

Metti la nonna in freezer è una commedia noir, un’opera prima del duo registico Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi. La nonna in freezer è Barbara Bouchet.

«Grandiosa. Sul set non l’ho incrociata. Ma ho convissuto con il suo cadavere: un manichino congelato che è rimasto nel camper del trucco durante tutte le riprese».

Mentre controlliamo la distanza tra le bocce e il pallino, ci si avvicina Riccardo Milana, il segretario generale della Federazione Bocce. Comincia a spiegare a De Luigi come migliorare la sua performance. La faccia dell’attore mentre vengono elencate le doti atletiche dei bocciatori assomiglia a quella gorillesca che utilizzava per le imitazioni di Bobo Vieri: “Gu”. Ci spostiamo nel ristorante della struttura. Davanti a un piatto di pennette all’arrabbiata De Luigi sfoga un po’ di frustrazioni da tifoso interista e srotola le doti della vita di provincia, a Sant’Arcangelo di Romagna: «Lì ho trovato un equilibrio e me lo tengo». A mezza bocca confessa di non aver mai visto un episodio di Montalbano e di aver maturato un rapporto poco sano con le fiction americane: «Sono un ex fumatore, conosco la dipendenza. Per un po’ ho evitato di vedere serie tv. Ma una sera, mentre stavo girando un film, un amico mi ha passato una pennetta USB con dentro la serie Breaking Bad e… ci sono cascato. Sono diventato tossico anche di The end of the fucking world e di Game of Thrones: aspetto il 2019 per l’arrivo dell’ottava serie». Arrivati al caffè, cominciamo a parlare dei suoi esordi.

Quando hai cominciato a esibirti?

«Da piccolissimo. Esibirmi mi massaggiava l’ego. Ricordo una barzelletta raccontata in classe in piedi sulla sedia alle elementari. E da ragazzino trascorrevo i pomeriggi nella mia cameretta a scrivere racconti comici».

Ne hai conservato qualcuno?

«Probabilmente c’è ancora qualcosa in casa dei miei genitori. A Sant’Arcangelo di Romagna, dove sono cresciuto, si svolge un festival di teatro di ricerca meraviglioso: quindici giorni di spettacoli per le strade. Ho nuotato per anni in quel brodo».

La prima volta davanti a un pubblico?

«Ho coltivato la scrittura comica segretamente fino ai miei ventitré anni. Poi, nel 1990, ho deciso di seguire la mia passione».

Fino ad allora che cosa avevi fatto?

«Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti a Bologna. Volevo fare il grafico pubblicitario. Nel 1990 ho partecipato al concorso per comici La Zanzara d’Oro».

Lo hai vinto?

«Quell’anno c’era anche Antonio Albanese. I primi tre, tra le altre cose avevano garantita la partecipazione al Maurizio Costanzo Show. Io per fortuna sono arrivato quarto».

Perché “per fortuna”? Non apprezzavi Costanzo?

«Non ero pronto».

Come fai a saperlo?

«Alla Zanzara d’Oro vennero a vedermi Gino e Michele, come osservatori del teatro Zelig. Mi proposero di recitare due piccoli pezzi da cinque minuti. Quando poi mi chiesero di passare a una performance lunga di tre quarti d’ora fu un mezzo disastro».

Perché?

«Avevo scritto una roba troppo surreale. E non avevo ancora mai avuto un riscontro di pubblico, quello necessario per capire che cosa funziona e che cosa no. Da quel momento è cominciata la vera gavetta».

Teatri, scantinati…

«Bar, pizzerie… Spesso erano spazi in cui il giorno prima aveva suonato una band che faceva cover. Una volta mi sono esibito in un locale dove c’erano solo due coppie che limonavano. Un’altra in un pub dove, mentre declamavo i miei testi su un soppalco, mi passavano davanti i camerieri con le birre. Io non sono mai stato un comico da cabaret, uno di quelli d’attacco che interagiscono col pubblico e lo sfottono. Io ero uno da quarta parete».

La quarta parete è quella immaginaria di alcune pièce che separa l’attore dal pubblico.

«Esatto. Ho imparato giorno dopo giorno quanto è difficile far ridere un pubblico che cambia ogni sera».

Ti è successo di non far ridere?

«Ho toccato sulla mia pelle il fatto che se fai il cretino e fai ridere, hai fatto il tuo, ma se fai il cretino e non fai ridere, sei un cretino, ti senti un cretino. Non far ridere è una ferita. Umiliante. E in certi locali tu devi proprio domarlo il pubblico. Così cominciai a scrivere anche testi in cui non mi riconoscevo».

Nel periodo in cui hai lavorato con la Gialappa’s band sei stato anche imitatore.

«Mi divertivo a trovare una chiave interpretativa insieme con gli autori con cui scrivevo, Walter Fontana e Paolo Cananzi. Ma non sono mai stato un imitatore. Ho sempre preferito i personaggi di fantasia: Olmo, Medioman…».

Ora non li interpreti più.

«Sono il più grande ammazzatore di personaggi del pianeta: ho sempre avuto il terrore di annoiare il pubblico, e in pratica alla fine di ogni stagione ho messo fine alla vita delle mie creature per crearne altre».

Hai mai avuto problemi con i giornalisti, con i politici o con gli uomini di spettacolo parodiati?

«So che Miguel Bosé e Mario Giordano non gradirono molto. E un po’ di anni fa Mediaset bloccò uno sketch in cui io interpretavo Roberto Calderoli e Neri Marcoré faceva Maurizio Gasparri».

Censura! Il nome di Calderoli è rispuntato qualche giorno fa come possibile Presidente del Senato.

«Ah, allora preparo la parrucca».

Categorie : interviste
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