Achille Occhetto (Doppio Binario – 7 – Marzo 2018)

0 commenti

(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 22 marzo 2018)

DOPPIO BINARIO STATICO, TRA CORRIDOI GONFI DI LIBRI, nell’abitazione romana di Achille Occhetto, 82 anni, ultimo segretario del Pci, ex leader del Pds, uomo della Svolta, nonché conducente baffuto della “gioiosa macchina da guerra” che si andò a schiantare contro l’onda azzurra berlusconiana durante le elezioni del 1994. Alle ultime Politiche il Partito Democratico ha subìto la più cruenta sconfitta della storia del centrosinistra agguantando un modesto 19%. Bussiamo alla porta di Occhetto per cercare di capire che cosa stia succedendo al riformismo italiano. Ci accoglie con la pipa in mano e con indosso una giacca blu, morbida. Ha fissato parte della sua riflessione su un mazzo di fogli A4. Durante l’intervista ogni tanto lo consulta. Dice: «Prima di tutto dobbiamo uscire dalla drammatizzazione volgare e scomposta sulla persona di Renzi. Lui ha pagato i suoi errori con le dimissioni. Non capisco perché catalizzi tutto quest’odio barbarico». Continua: «Di fronte all’eclissi mondiale delle sinistre e a una globalizzazione che ha reso obsolete le politiche tradizionali della socialdemocrazia occorre muoversi nella direzione di un riformismo cosmopolita, transnazionale». Provo a trascinarlo nella melma comunicativa delle beghe italiane: il Movimento Cinque Stelle ha sfondato proponendo il reddito di cittadinanza e la Lega ha sventolato con successo la Flat Tax. Il Pd e la sinistra non hanno saputo trovare formule altrettanto efficaci. Replica: «La sinistra per sua natura non è populista. Non è portata a cercare le soluzioni tipiche di chi accarezza le esigenze della rabbia». Gli faccio notare che a Renzi, con gli 80 euro, è stato rimproverato di elargire mance elettorali di stampo populista. Controbatte: «E infatti alla fine ha perso. Ora hanno vinto i populisti leghisti e pentastellati. Vorrei vederli al governo. Sono certo che nel giro di un anno verrebbero sconfitti». In pratica Occhetto sostiene che la politica fatta di populismo e di comunicazione facilona abbia il fiato corto, soprattutto per chi non ha queste caratteristiche nel suo Dna. Spiega: «Suggerirei alla sinistra di non abbandonare più la serietà solo per ottenere i voti di una stagione». Gli ricordo il confronto tv che lui stesso ebbe con Berlusconi nel 1994. Per molti osservatori quel faccia a faccia condotto da Enrico Mentana segnò la campagna elettorale.

Col senno di poi lo avrebbe preparato meglio?

«No. Non lo considero un momento centrale e influente per il risultato delle elezioni. È proprio da quel 1994 che è cominciata questa ossessione per la comunicazione che io considero uno dei difetti della politica attuale».

Anche i leader del centrosinistra hanno ceduto alle sirene della comunicazione ultra pop. Massimo D’Alema cucinò un risotto in diretta tv…

«Sfumandolo con il vino rosso, invece che con il bianco…».

Giuliano Amato si mise a giocare a tennis in mezzo ai divanetti di Porta a Porta. Lei, già immortalato mentre baciava sua moglie Aureliana Alberici in quel di Capalbio, poi partecipò alla trasmissione Milano – Roma al fianco dell’attrice Claudia Koll.

«Non dico che non si debbano usare i media, anzi. Ma la comunicazione non può costituire la centralità dell’azione politica».

Comunicazione. Berlusconi nel 1994 promise un milione di posti di lavoro…

«Mentre pronunciava quella cifra io pensavo: che posso dire? Lo seguo e ne prometto un milione e mezzo? Realizzai che non avevo alcuna intenzione di fare la figura del cretino sparando cifre a caso. Meglio perdere e restare seri».

Lei perse. Il Pds raggiunse il 20%.

«Nel 1992 avevamo preso il 16%. Ed era da poco stata ammainata la bandiera rossa dal pennone del comunismo planetario. Nel 1994 quindi ci fu addirittura una crescita rispetto alle precedenti politiche. Dirò di più…».

Dica.

«I Progressisti presero più di 12 milioni di voti. Più di quanti ne hanno presi oggi i Cinque Stelle. In quel 1994 non passammo dalla Prima alla Seconda Repubblica, ci immergemmo nella fase populista della politica italiana. Fummo impreparati non tanto a contrastare la comunicazione berlusconiana, quanto ad affrontare la ventata populista che è ancora vivissima. Il paradosso è che il malessere causato dagli ultimi anni di austerity avrebbe dovuto esaltare un’azione di sinistra, invece si è imposto un vento populista e di destra. Sono saltati gli algoritmi della politica del passato e sono stati commessi molti errori da parte dei riformisti e della sinistra».

Gli errori dei riformisti…

«Una vocazione alla governabilità che ha fatto smarrire la centralità delle politiche redistributive, abbandonate o opache, e una subalternità verso il neoliberismo».

Quelli della sinistra…

«L’ossessione per Renzi e la ripicca tutta di apparato. Non è un caso che Liberi e Uguali non abbia preso nemmeno uno dei voti in uscita dal Pd. Sono convinto che se Nicola Fratoianni con Sinistra Italiana si fosse presentato da solo avrebbe preso più del 3,3%. Ora caldeggio la nascita di un riformismo transnazionale: una sinistra variegata, solidale, che non sia una somma rissosa di appetiti. Una rete che sappia usare anche il modello organizzativo/informatico dei 5 Stelle. Serve una convenzione in cui vengano elaborati i nuovi scontri che caratterizzano le società contemporanee e che faccia emergere le nuove forze motrici del rinnovamento».

Quali sarebbero queste «forze motrici»?

«Quelle sollecitate dai grandi problemi trasversali: le disuguaglianze planetarie, l’esplosione demografica da cui scaturiranno migrazioni bibliche e la cura ambientale del pianeta. In un Partito Democratico che seguisse questa strada, invece di quella fatta di sovrapposizioni di apparati e ritorni alla vecchia ditta, potrei dare una mano anche io».

Occhetto in un nuovo centrosinistra?

«Sarebbe un ritorno dopo circa diciotto anni dall’ultimo tesseramento con i democratici di sinistra».

Lei che cosa ha votato alle ultime elezioni?

«Paolo Gentiloni all’uninominale e +Europa al proporzionale». Ci sediamo su un divano grigio dietro al quale, appeso al muro, trionfa un arazzo con tre fenicotteri rosa. Da uno scaffale impolverato fanno capolino i volumi gramsciani dei Quaderni del carcere, sezionati da postit con appunti scritti a penna. Lo provoco facendogli notare che un uomo con la sua storia alle ultime elezioni avrebbe dovuto votare LeU. Mi gela con lo sguardo. Pensare Occhetto nella stessa compagine di Massimo D’Alema è effettivamente un azzardo. I due hanno trascorsi cruenti. “Max” cercò di silurare “Akel” una prima volta durante l’ultimo congresso del Pci nel 1991 e poi nel 1994, dopo la sconfitta alle Politiche e alle Europee, entrò nella sua stanza e gli disse: «Sei tecnicamente obsoleto». Occhetto, qualche mese fa, quando D’Alema bocciò l’ipotesi di una leadership di Pisapia a sinistra, disse: «È il serial killer della politica». Ci spostiamo sugli scenari dei prossimi giorni.

Il Pd dovrebbe appoggiare un governo con i Cinque Stelle?

«Lo pensa solo chi, oltre alla testa di Renzi, vuole anche quella dello stesso Partito Democratico».

Di Maio, durante la campagna elettorale, è stato a Londra per rassicurare il mondo della finanza. Lei nel 1994 fece lo stesso: andò nella City per dire, da ex comunista, che «il mercato è l’unica via».

«Di Maio mi ha copiato. Ma io avevo un programma economico a cui Il Sole 24 Ore aveva dato un voto tondo: dieci».

Il M5S è la nuova Dc?

«Solo per l’aspirazione a essere il partito pigliatutto. La Dc aveva un’ossatura culturale e ideologica che il M5S non ha».

Il M5S non ha i guai giudiziari che avevano molti diccì.

«Stando all’opposizione è facile non avere guai giudiziari». Chiacchierando di tribunali e di onestà Occhetto torna a parlare della ventata populista che in Italia ebbe origine da Mani Pulite. Spiega: «Io non sono mai stato contro Mani Pulite, ma quelle inchieste alla fine non hanno favorito la sinistra, bensì il populismo berlusconiano». Gli ricordo che il 30 aprile 1993 un gruppo di militanti che avevano assistito a un suo comizio in piazza Navona finì sotto l’hotel Raphael a lanciare monetine contro Bettino Craxi. «Erano degli scalmanati. Non demmo noi la spinta per quel gesto. E non fu un bell’episodio. Io tra l’altro, a differenza di Enrico Berlinguer, avevo un buon rapporto con Craxi. Ricordo che dopo la Svolta della Bolognina…».

… quando lei, nel novembre 1989, aprì alla possibilità per il Pci di cambiare nome…

«… Dopo la Svolta, io e Craxi avviammo un dialogo. Ci incontrammo nella sede del Psi, in via del Corso».

Che cosa vi diceste?

«Gli feci una proposta. Dissi: “I nostri popoli si odiano. Dobbiamo creare le condizioni per una fase unitaria. Devi passare all’opposizione”. All’epoca il Psi di Craxi era al governo con la Dc di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani…».

… il celebre Caf…

«…esatto. Craxi mi ascoltava. Scriveva numeri su un foglietto. Mi disse che mettendoci insieme non avremmo avuto la maggioranza. Obiettai che la forza della novità politica e il nuovo riformismo da contrapporre alla Dc, ci avrebbero portato molti voti. Lui allora mi guardò serio e mi disse: “Achille, se io vado un solo giorno all’opposizione, quelli che mi stanno intorno mi fanno fuori immediatamente”. Se non ci fosse stata Tangentopoli prima o poi saremmo arrivati all’unità con i socialisti». Mentre Occhetto mi accompagna alla porta gli chiedo chi potrebbe essere il leader di quel Pd espressione di una nuova sinistra variegata e solidale. Ipotizzo il nome di Carlo Calenda. Sbuffa: «Simpatico. Ha il vantaggio di non essere espressione della vecchia ditta. Altrimenti ci sarebbe Nicola Zingaretti…».

… appena rieletto alla presidenza della Regione Lazio…

«Lo conosco. Ai tempi della Svolta era ben orientato». Lo sguardo di Occhetto si perde per qualche secondo. Dice: «Se penso ai leader dei miei tempi con cui mi confrontavo… Olof Palme, François Mitterrand, Mikhail Gorbachev… Trent’anni fa i politici avevano uno sguardo lungo, cercavano soluzioni ai grandi temi, oggi difficilmente li vedi concentrarsi su una prospettiva che vada oltre le prossime elezioni».

Categorie : interviste
Leave a comment