Pietro Grasso ( 7 – Febbraio 2018)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 15 febbraio 2018)

ARRIVA AL TEATRO PUCCINI DI FIRENZE con la sua scorta un po’ ingombrante. Vestito scuro d’ordinanza e cravatta bordeaux. Attraversa il foyer facendosi strada tra i militanti. Conversazioni lampo, strette di mano. Un artista gli regala una caricatura: lui, sorridente, e il Tricolore. Una signora, che indossa una sciarpona grigia, stronca l’opera: «Sembra Carlo Azeglio Ciampi». Pietro Grasso, 73 anni, ex magistrato, presidente uscente di Palazzo Madama, è il leader di Liberi e Uguali: l’oggetto misterioso della campagna elettorale in corso. È stato catapultato pochi mesi fa nell’arena con i gradi di generalissimo sul petto, ma il physique du rôle è più quello dell’autorevole Papa Federatore: l’uomo che ha il compito, non semplice, di tenere uniti l’Mdp di Pierluigi Bersani e di Roberto Speranza, la Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni e Possibile di Filippo Civati.

Entra in sala. Applausi. Sotto al palco, a sinistra, lo attende una piccola flotta di carrozzine, guidate da un gruppo di disabili. Dicono: «Non vogliamo solidarietà, vogliamo diritti». Li rassicura con un abbraccio nonnesco. Saluta il pubblico: «Compagne, compagni…». Boato di giubilo. Una vecchietta col basco rosso sorride: «È uno de’ nostri». Grasso scandisce le parole senza eccessiva verve. Ogni tanto si prende una minuscola pausa per cercare la formula più efficace con cui esprimere un pensiero che sia ben radicato nel Dna della sinistra italiana. Srotola lo slogan preso in prestito dal laburista Jeremy Corbyn: «Noi siamo per i molti, non per i pochi». Clap, clap, clap. Un ragazzo che ascolta in piedi, batte le mani e dice a mezza bocca: «Magari». Lo raggiungo e gli chiedo che vuole dire con quel “magari”. Spiega: «Magari Grasso diventasse come Corbyn. Sta crescendo, ma la campagna elettorale è breve».

Grasso ha un pubblico/elettorato molto esigente. Lo stimano, ma mentre lo applaudono, lo studiano. Lo pesano. Annuiscono in segno di approvazione soprattutto quando parla di diritti e di ambiente. A un certo punto il leader di LeU spiega: «La parola ecologia ha origine nella parola greca oikos, casa…». Accanto a me un signore pelato con un maglioncino beige, bofonchia: «Non lo so mica se è vero!». Afferra lo smartphone e digita pian piano: «E-t-i-m-o, E-c-o-l-o-g-i-a». Scopre che Grasso ha ragione. Chiedo: «Lo voterà anche perché cita il greco antico?». Replica: «Mi tocca». Perché le tocca? «Mia moglie si presenta alla Camera con LeU, se non fosse per lei voterei Renzi». Dal palco Grasso sta criticando proprio il segretario del Pd, per l’eccessivo uso della parola “io”: «Io, io, io… Noi abbiamo il noi. Non se ne può più del rumore di fondo generato dall’ego dei singoli». Sento una leggera gomitata alla mia destra. Un tipo con un gilet azzurro e la montatura degli occhiali rosso-nera sorridendo sussurra: «Io ho la tessera del Pd in tasca. Sto aspettando sulla riva del fiume che passi il Giglio magico. Torneremo tutti insieme, ma senza Renzi». Nel frattempo Grasso ha cominciato a parlare della difesa del territorio e dei boschi che bruciano. Dalla Curva Carrozzine si alza un urlo: «La Boschi brucia?». Grasso commenta: «Ottima battuta». I giornalisti delle agenzie annusano l’inciampo, si leccano i baffi e mandano in rete la cronaca dell’accaduto. Una volta sceso dal palco Grasso si correggerà: «Ammetto l’errore. Volevo sminare la battuta e ho ottenuto l’effetto contrario. Faccio le mie scuse a Maria Elena Boschi. Chi mi conosce sa che non è mai stato e non sarà mai nel mio stile trasformare la dialettica politica in attacchi personali». È così. Nella campagna elettorale che ha visto il fotomontaggio di Laura Boldrini con la testa mozzata, la cosa più ruvida che Grasso si lascia scappare su Renzi è: «Mercifica i diritti». E su Berlusconi: «Avete fatto il conto di quanto ci guadagna con la Flat Tax?».

Per i più agguerriti di LeU, però, questo suo parlare mite è un difetto. Intercetto una conversazione tra una parlamentare e due militanti. Militante 1: «Grasso non punta il nemico. Non ha un obiettivo polemico». Militante 2: «Gli altri rottamano gli avversari. Lui, invece, non ha uno slogan corrosivo che li stenda». Parlamentare chioccia: «Non ce l’ha perché non considera gli avversari politici dei nemici personali. Nella vita ha combattuto nemici veri: i mafiosi di Cosa Nostra». Militante 2: «Lo dicesse. Faremmo il botto». Parlamentare chioccia: «Non vuole usare come strumento politico il suo passato in magistratura». Grasso, prima di diventare il leader di Liberi e Uguali, oltre che presidente del Senato, è stato uno dei più agguerriti magistrati antimafia: giudice nel Maxiprocesso, capo della Procura di Palermo, e poi Procuratore Nazionale Antimafia.

Da decenni vive in compagnia di una scorta armata, perché ha ricevuto minacce concretissime. Nel libro Liberi tutti ha scritto di aver sempre vissuto questa condizione di pericolo con una buona dose di “fatalismo”. Ora il fato gli ha regalato il palco del teatro Puccini dove cerca di smontare l’immaginario “personalistico” della politica italiana. Tra tutti i leader di questa campagna elettorale Grasso è quello meno padrone del suo partito e delle liste elettorali. Anzi. I venticelli maligni degli avversari lasciano intendere che dietro di lui in realtà ci sia D’Alema. Un vecchietto con gli occhi furbi, appoggiato allo stipite di un’uscita di sicurezza, gracchia: «Pur di danneggiare il leader di LeU Renzi arriverà a fabbricare cartelloni con il volto di Grasso e i baffetti di D’Alema che spuntano da dietro». Come fece la Dc nel 1948? All’epoca il simbolo del Fronte Popolare (Pci + Psi) era Garibaldi: i democristiani prepararono dei manifesti in cui dietro all’immagine dell’eroe dei Due Mondi c’erano i baffoni di Stalin. Il vecchietto: «Proprio così. E infatti Renzi è la Dc».

Finiscono gli interventi. Parte la musica: «…La passione non ha mai compromessi…». È la canzone Dedicato a chi di Lelio Morra, diventata casualmente colonna sonora della campagna grassiana. In platea due signore di Scandicci si mettono a ballare. Il leader, ancora sul palco, accenna un passo di danza dondolante. Chiara Geloni, candidata bersaniana a Montecitorio, gli si avvicina e scatta un selfie. Dalla foresta di teste imbiancate spunta una bambina che si scaraventa verso l’ex magistrato e gli stringe la mano. Il padre: «L’ho portata per darle le giuste radici valoriali: giustizia, uguaglianza, attenzione agli ultimi, sanità e scuola pubblica. È roba di cui parla solo Grasso».

Grasso viene portato davanti alla mandria di telecamere per commentare i fatti di Macerata. Dice: «È un atto di terrorismo di stampo razzista». Al suo fianco c’è sempre Alessio Pasquini, portavoce senatoriale dal 2013. Chiedo come si insegna ai ragazzi a non essere razzisti. Replica: «Facendogli leggere bene la Costituzione: non ci possono essere distinzioni di sesso, di razza, di religione. E raccontandogli l’orrore delle leggi razziali. Qualcuno diceva: la libertà è come l’aria, te ne accorgi solo quando manca». Quel qualcuno è don Luigi Sturzo. È ora di lasciare il Puccini. La scorta si muove compatta. Il leader di LeU si infila dentro a un’auto blindata e dopo trenta minuti è seduto a una tavolata casereccia organizzata dalla Croce Azzurra a Sieci, paesino in riva all’Arno tra Firenze e Pontassieve. Crostini, pennette al ragù, arrosto.

Un giovane libero e uguale distribuisce preservativi con il logo del partito. Tra le persone comuni Grasso sembra molto più a suo agio che tra i dirigenti dei vari partiti che lo sostengono. Passa tra i tavoli come uno sposo. Accarezza un cagnolino. Racconta un aneddoto della sua adolescenza. Va in visita tra le anziane volontarie che hanno preparato da mangiare per duecento persone. Elda, mentre spalma la crema gialla su una torta, commenta: «È anche un bell’uomo». Il caffè è previsto nel bar della Casa del Popolo. Fuori dalla porta a vetri c’è un’insegna: “Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno”. Nicola Fratoianni riconosce la citazione: «È Enrico Berlinguer». E di Berlinguer ci sono foto un po’ ovunque. La mattina dopo Grasso è atteso per la presentazione dei candidati del Lazio in un altro luogo caro al berlinguerismo: il teatro Eliseo di Roma. Qui nel gennaio del 1977 Berlinguer pronunciò il celebre discorso sull’austerità contro «l’individualismo più sfrenato e il consumismo più dissennato», quello in cui diceva che «austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». Il pubblico romano è un po’ smagato. Miguel Gotor, senatore di area bersaniana, indossa una sciarpa bianco-rossa da ultrà con su scritto Liberi e Uguali. Parla fitto con Vincenzo Visco, ex ministro e uomo delle tasse. Voci dalla platea: si festeggia la disponibilità di una sede nel quartiere Garbatella, si commenta l’approdo dell’avvocato Anna Falcone tra le file di LeU, si ipotizza il numero dei possibili eletti: «una quarantina». Entra Grasso. I candidati si ammassano sul palco per la foto di gruppo. Il leader chiede a Gotor la sciarpa. Clic. La mostra a tutti, poi si fa prendere la mano e, come una rock star, la appallottola e la getta in platea. Gotor la segue con lo sguardo mentre atterra tra le poltroncine rosse. Grasso acchiappa l’attenzione dei militanti in sala col suo leitmotiv: «Non siamo qua per dare una spruzzatina di sinistra a un progetto di destra».

Il progetto di destra, ovviamente, sarebbe quello del Pd. Il discorso è abbastanza breve. Grasso si scusa, ma deve scappare in televisione. Scende dal palco. La scorta lo porta verso l’uscita. Visco lo insegue: si accordano per un incontro. Dopo un secondo Grasso è sulle scale, che sono tappezzate di bandiere rosse. Domando: è a suo agio qui in mezzo? Lui: «Certo. Io a casa ho anche la bandiera con l’arcobaleno della pace. C’è da tenerle insieme. Con il Tricolore, ovviamente». Poi a bassa voce: «Ne ho anche una del Palermo, la squadra del cuore». Una candidata gli chiede di fare una foto insieme. Lui si concede, ma non ci sono più reporter: sono tutti per strada intorno alle auto blindate. Grasso e la candidata restano in posa qualche secondo. Lei: «Ci sarà qualcuno che mi fa una foto?». Arriva in soccorso un militante. Clic. Grasso abbraccia sua moglie, Maria Fedele, e se ne va. Prima di entrare in macchina si gira verso gli zoom e si concede una posa giovanilistica: un sorriso e due pollici all’insù.

Categorie : interviste
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