Sergio Caputo (Doppio Binario – 7 – Dicembre 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 21 Dicembre 2017)

UNA CHITARRA NELLA CUSTODIA-ZAINO agganciata sulle spalle e un’altra tenuta con la mano destra, tipo valigia. Un berretto con il simbolo di Batman e la barbona grigia. Sergio Caputo, 63 anni, artista swing e jazz, si muove con piccoli passi svelti negli spazi affollati della stazione Centrale di Milano. Ha un passato roboante nelle classifiche italiane e un presente felice nella trincea della sua musica per appassionati. Per gli smemorati, ecco l’incipit di culto del suo Un sabato italiano: « Il fetido cortile ricomincia a miagolare/ L’umore è quello tipico del sabato invernale/ La radio mi pugnala con il festival dei fiori/ Un angelo al citofono mi dice vieni fuori… ». Quel brano del 1983, secondo Rolling Stone, è al 37° posto dei migliori 100 italiani di sempre. E, riadattato, Caputo lo suona ancora nelle serate live. Quando ci incontriamo mancano poche ore a un doppio concerto al Blue Note, storico locale milanese. Caputo: «Se possibile alle 15 vorrei essere a letto per riposare, ché stasera mi toccano quattro ore di performance. Mi devo autoresuscitare». Doppio Binario, quindi, tra i tapis roulant della stazione e auto blu fornite da Uber. Caputo ha vissuto 12 anni a San Francisco ed è talmente abituato a pagare la corsa online, in stile uberiano, che gli succede spesso di uscire dai taxi senza mettere mano al portafogli, inseguito dai conducenti: « Signo’, ce sarebbe da paga’ ». Ci diamo del tu. Appena saliti in macchina cominciamo a parlare della guerra dei taxi contro Uber. Il cantante commenta ridendo: «È come se Dolce&Gabbana protestassero perché anche Versace vuole vendere vestiti». Di mercato in mercato, viriamo sui guai di quello discografico: «Io mi produco in proprio dagli Anni Novanta. La libertà è bella, ma ha un prezzo». Quale? «In Italia rischi di sparire dalle radio, perché spesso le stesse emittenti fanno cartello e trasmettono solo artisti legati alle loro etichette o a quelle amiche». Uscito dai sentieri mainstream della discografia, per Caputo anche le collaborazioni diventano rocambolesche. Quella con Francesco Baccini – dal 2016 formano insieme gli Swing Brothers – ha addirittura origini oniriche. «Ho sognato che eravamo insieme su un palco. Mi sono svegliato di notte e ho chiesto a mia moglie Cristina se le sembrava un’idea realizzabile. Lei ha mugugnato di sì e si è rimessa a dormire. Non avendo contatti diretti, la mattina dopo l’ho cercato sui social, lui mi ha risposto subito: mi ha raccontato che quando ha lasciato Genova, dove faceva il camallo, ed è venuto a Milano, per un po’ ha dormito in macchina e nell’autoradio aveva sempre una mia cassetta. Gli Swing Brothers sono nati così ». Caputo è corazzato con un pesante strato di understatement: gli chiedo dei suoi successi americani e lui controbatte di non esagerare. Inizia a descrivere le difficoltà incontrate proprio all’arrivo negli Stati Uniti: «In pratica ho dovuto re-imparare a suonare i miei stessi pezzi».

Perché?

«In Italia anche una band messa insieme all’ultimo per un concerto conosceva le mie canzoni, lì no. Non avendo studiato musica e volendo riadattare i pezzi in chiave jazz, ho dovuto trovare la mia strada per gli accordi».

Non hai mai studiato musica?

«Ho cominciato a suonare la chitarra da autodidatta a tredici anni. E ogni volta che mi sono piazzato col capo chino sul pentagramma ho finito per dire “ma chi me lo fa fare?”. Per molti anni, quando mi veniva in testa una melodia, per ricordarmela prendevo un gettone, andavo in una cabina, chiamavo la mia segreteria telefonica e canticchiavo: tatatarata-ta-ta».

Fare musica senza saperla scrivere.

«Qualche anno fa ero venuto a sapere che c’era Dizzy Gillespie in Italia…».

Volevi assoldare il leggendario trombettista jazz come maestro?

«Gli volevo proporre di partecipare a un mio disco. Lo chiamai in hotel, mi disse di raggiungerlo. Giunto in camera sua prese la mia musicassetta, la mise nel walkman. Ascoltando cominciò a schioccare le dita».

Un buon segnale.

«Decisamente. Dopo avermi spiegato il suo tariffario mi diede un appuntamento a Bologna e uno a Barcellona per registrare. Io mi presentai da lui con tutte le partiture delle canzoni che avevo fatto trascrivere. Gliele consegnai e lui mi disse: “Ma tu sai leggere questa roba?”. Risposi di no. E lui: “Neanche io”. Misi da parte gli spartiti e cominciammo a suonare».

Ora quando ti viene in mente una melodia…

«Registro una nota vocale sullo smartphone. Mi è già successo due volte di perdere mesi di appunti a causa dello smarrimento del telefono».

Arriviamo alle Colonne di San Lorenzo, piazza milanese dal sapore romano. Caputo confessa che le sue scorribande serali un tempo partivano da lì. Poi racconta la prima delle tante migrazioni della sua vita: «All’inizio degli Anni Ottanta facevo il pubblicitario. L’agenzia ogni tanto mi mandava a Milano per seguire alcune campagne. Pian piano mi innamorai della città e dopo un po’ mi trasferii. Tra l’altro anche dopo il successo di Un sabato italiano ho continuato a lavorare come creativo per più di un anno».

La leggenda vuole che Sabato italiano tu l’abbia scritta su un block notes, durante una nottata etilica.

«Non è una leggenda. Mi sono svegliato la mattina e il pezzo era lì, un po’ sgangherato ma c’era».

Altra canzone, altra leggenda: Caterina Caselli ti commissionò un pezzo da un giorno all’altro…

«… Susanna, per Adriano Celentano. Tracannai un paio di bocce di whisky e il giorno dopo il pezzo era pronto. Negli Anni 80 l’alcol era un ingrediente frequente…».

In Bimba se sapessi cantavi: «Citrosodina granulare/ bevo per dimenticare il mal di mare/Viscerale che questo mondo mi dà…». Ora bevi meno?

«A trent’anni non pensavo che sarei arrivato a quaranta. A parte l’eroina e l’Lsd non mi sono fatto mancare nulla. Mia moglie dice sempre che è un miracolo che io sia arrivato vivo ai sessanta. Sei anni fa, appena rientrato a Roma dalla California, ho avuto un infarto, e da quel momento sto decisamente più attento».

L’infarto…

«È come se una bestia enorme ti si sedesse sopra e ti premesse con gli artigli sul petto. Quando mi è successo, però, ho preso un’aspirina e ho continuato la giornata come nulla fosse. La sera ero ospite di una trasmissione di Sky e poi sono uscito a bere a Ponte Milvio con Dario Cassini, amico caro e comico». Incosciente. «La mattina dopo mi sono trascinato in ospedale. Il medico che mi ha operato e salvato è diventato un mio grande amico».

Vivere a Roma dopo San Francisco.

«Un disastro. Negli ultimi cinque anni l’ho vista peggiorare sempre di più. Al punto che ce ne siamo andati».

Hai tre figli, dove li vuoi crescere?

«L’ideale sarebbe in Inghilterra».

I difetti di Roma.

«Quando hai dei bambini ti accorgi che per loro non ci sono attività, i parchi sono praticamente abbandonati… È una città meravigliosa, ma persino i ristoranti che una volta erano fiori all’occhiello sono scesi di qualità».

L’autista Uber si ferma dietro a via Bramante, dove Milano diventa Cina. Caputo comincia a elencare i locali che frequentava con modelle e impresari quando viveva da queste parti. Racconta di una rissa al Rolling Stone dove i buttafuori lo scambiarono per un imbucato e picchiarono sia lui sia il suo amico Rino. Srotola i nomi di ristoranti che ha contribuito a rendere famosi. Chiedo: è vero che cucini molto bene? Replica soddisfatto: «Lo ammetto».

Il piatto forte?

«Ho appena sperimentato un maialino con salsa di frutta e aceto balsamico… Ma da un po’ mi applico anche ai fritti: ho una meravigliosa padella di ghisa. Lo sai che non va lavata col sapone? La si pulisce con un panno».

Per chi cucini?

«Per la mia famiglia e per gli amici. Giancarlo Magalli e Max Tortora sono fan delle mie polpette».

Sei pronto per Masterchef

«Scherzo spesso sul fatto che sarebbe meglio se gli chef uscissero dalla tv e tornassero in cucina».

È un discorso che vale anche per i cantanti? Non ami i talent show?

«Quando frequentavo Sanremo avevo ben chiaro che la musica non era il vero fuoco dell’evento e che tutto era costruito per far parlare i media. Allo stesso modo mi sembra che nei talent musicali i veri protagonisti siano i giudici e gli autori tv che li guidano. È pieno di ragazzi molto dotati vocalmente, ma senza una grande storia, senza un grande repertorio».

Il tuo repertorio giovanile…

«A scuola avevo un gruppo che si chiamava Doppia fase, facevamo Santana, Battisti, i Pooh… Ti ho sconvolto?».

Un po’.

«Puoi non amare il genere, ma io penso ancora che sia uno dei più grandi gruppi europei. Hanno portato il pop inglese in Italia». 

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