Davide Dattoli (Doppio Binario – 7 – Novembre 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 23 novembre 2017)

SI MUOVE PER LE STRADE DI MILANO con il car sharing e trascorre almeno due giorni a settimana all’estero. Maglione a righe, jeans, scarpe da ginnastica rosse. Davide Dattoli, dietro l’immagine un po’ nerdacchiona, nasconde la forza quieta della New Economy dal volto sostenibile. Ha ventisette anni e da sei ha dato vita a una rete di spazi di co-working chiamata Talent Garden (Tag). La spiegazione per i profani: «I nostri campus sono luoghi in cui è possibile affittare una scrivania attrezzata, dove facciamo formazione e dove organizziamo incontri ed eventi che mettono in connessione professionisti del mondo digitale». Al momento i Tag di Dattoli sono 18, sparpagliati in tutta Europa, ospitano circa 3.500 persone e ne occupano un’ottantina: «Il fatturato è di una decina di milioni di euro all’anno». Doppio Binario su un barcone che scivola sul Naviglio Grande. Sessanta minuti di navigazione durante i quali l’imprenditore racconta la sua vita, fa un bilancio catastrofico della formazione in Italia, elargisce qualche consiglio ai millennials che si affacciano al mondo del lavoro e collega il modello comunicativo del Movimento Cinque Stelle a quello berlusconiano. Mentre l’altoparlante della chiatta turistica gracchia leggende fluviali e gesta di San Cristoforo, Dattoli comincia a srotolare la filosofia smart della sua impresa: la forza del network, la contaminazione tra le start up e la conseguente naturale accelerazione delle professionalità. Ci diamo del tu. Dice: «Le idee migliori vengono davanti a un caffè. Incontrando persone interessanti e preparate che fanno il tuo mestiere». Obietto che il tutto sembra avvolto da una nuvola narrativa tipica di questi tempi digitali. Fuffa. Sorride: «Invece c’è tanta concretezza». Elenca imprese e app che sono cresciute proprio nei suoi campus, spiega che per ottenere la membership di Tag bisogna avere determinate caratteristiche (per esempio, avere un’esperienza solida nel mondo digitale) e poi chiude con l’esempio che pone fine ai dubbi sul fatto che lui sia sostanzialmente un “affitta uffici” del Terzo Millennio: «Qualche mese fa abbiamo interrotto i rapporti con una grande impresa digitale che si occupa di cibo a domicilio. Avevano cinquanta postazioni nella sede di Milano. Gli abbiamo comunicato che una presenza così ingombrante va contro lo spirito di contaminazione e di networking che è il vero valore dello stare in uno spazio come Tag». Questo valore risultò oscuro anche ai dirigenti dell’amministrazione bresciana a cui Dattoli nel 2011 chiese aiuti e finanziamenti: «Risposero che non c’erano soldi per finanziare un centro sociale, ahahah. Il mio obiettivo oggi è fare di Tag un piccolo faro che illumini le eccellenze e aiuti il mondo digitale e l’innovazione italiana ed europea».

Dove e come sei cresciuto?

«Nel bresciano, tra orti e fortini di legno costruiti sugli alberi. Mio padre era ristoratore».

Hai mai pensato di fare lo chef o di gestire i locali di famiglia?

«Papà è morto quando avevo otto anni. Mia madre ha preso le redini dell’azienda. Da adolescente ho trascorso qualche settimana in cucina e in sala, ma ho capito che non faceva per me. In compenso, appena è comparso sul mercato il primo tablet, ho ideato un menù digitale per i clienti. E mi occupavo della comunicazione del ristorante».

Il primo computer?

«Un portatile alto sei centimetri. A undici-dodici anni ho cominciato a personalizzarmi il pc, smontando e rimontando pezzi».

A scuola eri secchione?

«No, anzi. Andavo malino. Ma ho trascorso tutte le estati del liceo al lavoro: stage in gallerie fotografiche, comunicazione digitale per imprese locali…. Mentre frequentavo l’Università di Castellanza, insieme con un paio di amici, abbiamo creato Viral Farm, una piccola impresa di comunicazione su mobile e su social network».

È vero che hai lavorato pure per il gruppo editoriale Condé Nast?

«Un annetto. Tra il 2011 e il 2012. Erano nostri clienti e mi chiesero di collaborare full time. Lì tra l’altro ho conosciuto Diletta, la mia ragazza. Poi ho lasciato Condé Nast e l’università perché nel frattempo era nato il primo Talent Garden a Brescia».

Non sei laureato.

«No, ma con Tag organizzo corsi di formazione per il mondo digitale. Il 98% dei partecipanti trova un lavoro in tempi brevi. Il futuro è questo: corsi brevi, intensi, per lavori che durano dai tre ai cinque anni».

Il sistema universitario italiano non funziona esattamente così.

«Perché è pensato per formare a lavori che durano una vita. Lavori che non esistono più. Il corso universitario di tre anni, più la specializzazione, ha un senso se devi fare il medico, altrimenti è meglio pensare a una formazione breve ma continua, frequente e mirata. Diciamo che in Italia dovremmo riorganizzare anche il rapporto tra università e mondo del lavoro. È inutile sfornare 20mila avvocati, quando le intelligenze artificiali già sanno scrivere il 90% dei pareri legali con margini di errori ridotti. Oggi servono più programmatori che avvocati».

È previsto che le intelligenze artificiali contribuiranno alla perdita di milioni di posti di lavoro.

«In realtà oggi non possiamo prevedere se i posti di lavoro persi verranno sostituiti con lavori in altri settori. La cosa preoccupante è che i più grandi pensatori americani del digitale siano tutti concentrati su soluzioni come il reddito di cittadinanza».

Che cosa consiglieresti a un genitore che deve immaginare un percorso formativo per i propri figli nel Terzo Millennio?

«La scuola generalista italiana è molto buona. Ma io già al liceo direi che sarebbe bene spedire i ragazzi a fare un’esperienza all’estero».

Tu l’hai fatta?

«No. Ed è un piccolo rimpianto. Mi piacerebbe essere bilingue. Invece il mio inglese non è particolarmente buono. Basta appena per sviluppare Tag a livello europeo».

Stiamo per approdare alla banchina. I turisti ammassati intorno alle bancarelle sui navigli seguono la nostra lenta manovra d’attracco. Quando Dattoli mi dice di essere un teorico del work-life balance, il sano equilibrio tra lavoro e vita privata, cominciamo a parlare delle sue abitudini quotidiane. Scopro che fa pochissimo sport: «Al massimo un po’ di nuoto e un po’ di yoga. Facciamo corsi gratuiti per chi frequenta i campus». Ama il cibo orientale, in particolare il nepalese. Non possiede un televisore: «Guardo solo qualche serie su Netflix». Non compra i quotidiani in edicola e al massimo gli dà un’occhiata sul tablet: «Malgrado il primo Tag sia nato grazie alla collaborazione con il Giornale di Brescia e io sia stato consulente de Il Sole 24 Ore ».

Che cosa facevi per Il Sole?

«La comunicazione sul digitale e sui social media».

Un po’ di tempo fa hai pronosticato la scomparsa della figura dei social media manager.

«Cinque-sei anni fa era un ruolo ricercato e stimolante. Oggi è un mestiere quasi banale, anche perché tutti hanno gli strumenti per farlo e pensano di essere capaci».

Non è così?

«No. Quelli bravi sono ancora pochi: gestire le community, evitare le esplosioni di insulti e saperle gestire… Basta vedere la differenza enorme che c’è tra il Movimento Cinque Stelle e gli altri partiti nell’affrontare la presenza on line».

I Cinque Stelle sono bravi?

«Sono professionali. Gli altri mettono lo stagista meno dotato e gli dicono di arrangiarsi».

Il metodo Cinque Stelle.

«Parliamo di tecnica. Non di contenuti politici, di cui non mi occupo. Quando i Cinque Stelle vogliono diffondere una notizia o un contenuto mettono in moto una strategia concentrica di propagazione: un gruppo di account forti ritwitta o riposta il contenuto che viene a sua volta ritwittato e ripostato da un grande numero di piccoli account più o meno reali. In poco tempo quel contenuto viene diffuso in maniera virale. Entra in contatto con i giornalisti dei media tradizionali che frequentano i social network e così sbarca anche in tv e sui giornali».

Gli altri partiti non si muovono così?

«No. Gli altri hanno due o tre grossi account e spesso non c’è coerenza tra il messaggio veicolato on line e quello lanciato sui media tradizionali».

È vero che spesso anche le gaffe o gli strafalcioni sono voluti?

«Sì. Spesso fanno parte di strategie di allargamento. Li ha usati anche Trump durante le ultime presidenziali. Aveva un team corposo di persone che faceva analisi e propagazione…».

Cioè?

«Studiavano che cosa si volevano sentir dire gli americani e facevano partire la diffusione di quel contenuto, pensato a volte anche per micro target. Prima di Trump anche Obama aveva usato questa tecnica. Ed è l’arma mediatica in più del Movimento Cinque Stelle».

Analisi e propagazione non rischiano di essere strumenti populistici.

«Sì, il messaggio populistico si diffonde con grande facilità attraverso i social network, ma poi, in virtù del fatto che i cittadini controllano le promesse dei politici, è più difficile gestire le aspettative: se hai vinto le elezioni sparando cazzate irrealizzabili, gli stessi social network ti si possono rivoltare contro. Tornando ai Cinque Stelle, Gianroberto Casaleggio…».

…padre fondatore del Movimento…

«… In pratica ha creato a tavolino un partito con il 30% dei consensi, con una capacità tecnica incredibile di diffondere il messaggio centralizzandone la gestione. Ha immaginato per il M5S un processo che è esattamente quello usato dalle imprese per affrontare il mercato».

Silvio Berlusconi aveva fatto qualcosa di simile nel 1994 con Forza Italia?

«Esattamente. La tecnica comunicativa dei Cinque Stelle è assolutamente berlusconiana, ma il Cavaliere l’aveva messa in pratica ventitré anni fa con mezzi decisamente diversi. Oggi tutti i partiti dovrebbero reimmaginare la loro comunicazione e pensare che non c’è più differenza tra online e offline: l’organizzazione strategica diventa il perno fondamentale!».

Categorie : interviste
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