Max Pezzali (Doppio Binario – 7 – Novembre 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 9 novembre 2017)

UN BAR ALLA PERIFERIA DI PAVIA. Motociclette cromate, giubbotti di pelle teschiati, barbe lunghe molto poco hipster. Doppio Binario su Harley-Davidson con Max Pezzali, cantante rock-melodico e “poeta della provincia” (copyright dei Manetti Bros, registi). Lui sta per compiere cinquant’anni: gli occhi a palla azzurrissimi sono gli stessi di quando marchiò i primi anni Novanta col pezzo Come mai. Ha venduto milioni di dischi e duettato con star assortite, ma ha mantenuto uno spiccatissimo spirito nerd. Appena vede il nuovo flash hi-tech del fotografo Massimo Sestini gongola: «Oh, ora la giornata prende un’altra piega».

Trasuda autoironia. Gli chiedo se il nuovo disco, Le canzoni alla radio, sia un modo per festeggiare il suo mezzo secolo. Replica: «Compiuti i cinquanta ti fanno incidere qualche pezzo inedito per non lasciarti da solo a casa o su una panchina a guardare i lavori di un cantiere». Smanettando con una sigaretta elettronica blu che ha la forma di un becco d’anatra, prosegue: «Quando mio padre raggiunse quest’età io già lo consideravo anziano». Domando se questa passione per le Harley-Davidson non rischi di diventare ridicola per uomini non più giovani. Risponde ridendo: «Quella che prima era contestazione ora è conservazione! Il rock e le borchie tra qualche anno saranno accessori per pensionati». Ci diamo del tu. Si parte. Sono seduto sul sellino posteriore. La moto di Max non è ammortizzata. E ringhia. Dice: «Le Harley mi sono sempre piaciute perché sono moto sbagliate per le nostre strade. Imperfette. Evocano i grandi spazi americani». Persino la sua band storica, gli 883, prende il nome dal modello di una Harley. Racconta: «Per scaramanzia non ho mai comprato una 883. La prenderò con il Tfr e la appenderò al muro, a fine carriera». Cominciamo a parlare delle canzoni appena incise: le sonorità sono decisamente pezzaliane. Conferma: « My old school. In un paio di casi ho recuperato melodie che avevo registrato anni fa e conservato nelle cartelle del pc. Gli anni Ottanta ormai tornano di moda ogni sei mesi». Gli chiedo se ha voglia di festeggiare ognuna delle cinque decadi della sua vita raccontando una scena madre. Acconsente.

I tuoi primi dieci anni?

«La Pavia delle contestazioni universitarie. Si respirava pericolo quotidiano. Eppure i miei genitori mi mandavano a scuola da solo».

Una sentenza della Cassazione voleva imporre alle mamme e ai papà di andare a prendere i figli anche alle medie.

«Sono contrario. A me avevano insegnato a comprare il biglietto con una monetina da cinquanta lire. E l’unica raccomandazione era: “Se vedi fumo per strada stai attento, sono lacrimogeni. Cambia direzione”. La scena madre di quegli anni mi vede correre verso il negozio di fiori di mio padre mentre impazzano gli scontri tra estrema destra ed estrema sinistra con in mezzo la Celere».

Dai dieci ai venti.

«I primi amori. I bar. La leggerezza. Il sogno americano. Gli anni Ottanta, insomma».

I paninari, i Duran Duran…

«No, io ero nerd. E fan di Bruce Springsteen. Nel 1985…».

Ci fu il leggendario concerto del Boss a San Siro.

«Ero lì. Ma non c’ero».

In che senso?

«Andai con la mia fidanzatina. Avevo un biglietto e speravo di trovarne un altro, ma non avevo abbastanza soldi».

Non mi dire che…

«Eh sì. Sarei potuto entrare lasciandola fuori, invece… Ce ne andammo insieme».

Un eroe romantico.

«Mentre mi allontanavo da San Siro vidi una pattuglia acrobatica sfrecciare tra le nuvole. Springsteen attaccò con Born in the Usa e… mi misi a piangere. Vedevo l’evento più importante della mia vita passarmi davanti e sfuggirmi dalle mani. C’ero, ma non potevo partecipare alla storia».

Una beffa amorosa.

«Lì ho capito quanto è difficile prendere una decisione. E quanto è facile prendere quella sbagliata. Ora ammetto che non parlo volentieri con la galassia degli springsteeniani: alla fine di ogni discorso si finisce sempre per raccontare i dettagli del concerto di San Siro e mi tocca ripensare alla cazzata che feci allora».

Tra i tuoi venti e i trenta arriva il successo. I tuoi genitori da te che cosa si aspettavano?

«Il posto fisso. Mi iscrissi a Scienze Politiche. Mi schiantai contro l’esame di Statistica. Partii per il servizio civile e una volta congedato cominciai a suonare».

Con Mauro Repetto. La nascita degli 883.

«Avevamo una tastiera e una batteria elettronica. Per me fare musica voleva dire usare quei gadget e prendere tempo prima di decidere che cosa fare da grande. Non avendo ancora deciso… faccio ancora musica».

Gli 883 sbancano con due album tra il 1992 e il 1993: Hanno ucciso l’Uomo Ragno e Nord sud ovest est.

«Ogni volta che arrivava un dato sulle vendite io e Mauro ci guardavamo convinti che ci fosse dietro qualche truffa e che la casa discografica lavorasse per spingerci in classifica. I giornali parlavano di noi come di un fenomeno stagionale. E noi ci sentivamo decisamente precari».

Oggi molti ragazzi dopo un paio di mesi in un talent show si sentono arrivati.

«È un’altra antropologia. Da giudice di The Voice ho sempre cercato di mettere in guardia i ragazzi sulla pericolosità delle illusioni. E non vuol dire non pensare in grande, ma essere coscienti che si deve lottare ogni giorno per restare al top. Io sono cresciuto con mia madre, di tradizione contadina, che mi diceva di stare attento, perché è proprio quando sei felice che rischia di arrivare la gelata, o la grandine».

I campi scorrono ai lati della strada. Max ha un’andatura da crociera. Solida e sorniona. Racconta di aver capito che per lui la musica stava diventando qualcosa di più del puro divertimento solo quando Mauro, il socio ballerino con la chioma fluente, lasciò gli 883 nel 1994. Dice che il decennio successivo, quello tra i trenta e i quarant’anni, è quello della presa di coscienza del successo, che si materializzò nell’immagine di Piazza Duomo a Milano gonfia di ragazzi, centomila, per un suo concerto estivo del 1998. Spiega: «Le prime canzoni le ho cantate in apnea. Avevo davanti una marea di persone e pensavo: e ora che cacchio gli dico a tutta questa gente?».

Rallentiamo per affrontare una rotonda. Approdiamo agli ultimi dieci anni: 2007-2017.

Compiuti i tuoi quaranta si sparge la voce che sei gravemente malato.

«Ero dimagrito. Qualcuno mi fotografò in camice durante una di quelle visite in ospedale che si fanno in incognito per andare a trovare un ragazzo segnalato da un fan club. E clic: il tam tam mediatico mi diede per spacciato, ahahah».

Nel 2008 diventi padre.

«Di Hilo».

Che nome è?

«È il nome di un esploratore polinesiano che si avventurò per un’ignota destinazione oceanica e che sbarcò alle Hawaii».

Tu e la madre di Hilo non state più insieme. Sei un padre presente?

«Cerco di esserlo. Anche se lui vive a Roma e io sono tornato a Pavia».

La scena dei tuoi quaranta-cinquant’anni?

«È il decennio della caduta e della resurrezione. Quindi ho due immagini in testa».

Descrivile.

«La prima: io con il mio staff in un ristorante sanremese. Siamo nel 2011. Sono in gara al Festival con Il mio secondo tempo. Arriva la notizia che non sarò in finale. Mi hanno buttato fuori. Mi sono sentito obsoleto, privo di senso della contemporaneità. Siamo partiti quella stessa notte per Milano, trovando al volo un hotel che ci ospitasse. L’anno successivo, Pier Paolo Peroni…».

… manager e produttore discografico…

«…ebbe un’idea geniale. Prendendo spunto da una serata Mtv durante la quale mi ero ritrovato a cantare pezzi antichi con rapper contemporanei, mi propose di fare un disco di duetti con artisti rap. Andò benissimo».

Hai mai pensato di smettere?

«Sono sempre lì che aspetto il momento dell’obsolescenza definitiva. Ma in realtà io scriverei canzoni anche se non avessi qualcuno che me le pubblica».

Perché hai un’esigenza artistica o perché pensi di avere qualcosa da dire?

«Ho un’esigenza artigianale. Il craft, il mestieraccio. A me piace la confezione della canzone. L’aspetto ludico del fare musica è preponderante: un nuovo gadget elettronico da sperimentare, una nuova interfaccia da usare…».

Nel 2004 hai creato un photo-blog. In pratica Instagram prima che nascesse Instagram.

«Quando poi mettere online le foto è diventata una moda massificata, mi sono disamorato. Come tutti i nerd, amo la tecnologia quando è gestita da un’élite d’avanguardia».

Sei fuori dai social network?

«Li uso come veicoli per il mio lavoro».

Hai mai ricevuto aggressioni online?

«No, per ora no».

Si dice che in Rete ormai prevalga l’atteggiamento da bar: ognuno dice quello che gli pare.

«Non è così. Non è vero che al bar puoi dire quello che vuoi. Se insulti qualcuno come avviene in Rete, ti arriva una testata sul naso. Sui social network si è portati a estremizzare le posizioni proprio perché non c’è un vero contraddittorio. I bar sono luoghi di mediazione, ci si vede, ci si incontra…».

L’umanità salvata dai bar?

«L’umanità salvata dalla propria fisicità. La comunicazione non può essere solo scritta o verbale. Il corpo è fondamentale anche per capire le reazioni degli altri alle nostre azioni».

Categorie : interviste
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