Antonio Manzini (Doppio Binario – 7 – Settembre 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 28 settembre 2017)

UN PICCOLO COLPO DI ACCELERATORE. Una breve frenata. L’inversione a U per venire meglio nell’inquadratura. Poi la domanda: «Se mentre sorrido al teleobiettivo passa un autobus e mi asfalta, il fotografo continua a scattare?». Doppio Binario in scooter per le vie della Capitale con Antonio Manzini, reuccio del noir italiano e creatore del personaggio Rocco Schiavone: il vicequestore burbero e trafficone, romanaccio e trapiantato ad Aosta, che in tv ha il volto dell’attore Marco Giallini. Manzini è nato e cresciuto a Roma e si è trasferito nella campagna viterbese sette anni fa. Look un po’ rétro e una passione per i cani: ne ha tre, e di quelli che ci passano accanto srotola con disinvoltura razza e caratteristiche. Durante tutta l’intervista tiene in mano un cilindretto nero che sputacchia nuvolette profumate: «Dovrebbe essere una sigaretta elettronica, in realtà è come fare dei suffumigi alla menta». L’appuntamento è di fronte alla sede della Rai. Lui è reduce da una serie di riunioni con i produttori della fiction ispirata ai suoi libri. Si lamenta per l’inutilità di questi incontri: «C’è Skype, che bisogno c’è di fare tutta ‘stastrada?». Manzini non è ancora stato sul set dove imperversano i suoi personaggi. Domando: quali episodi stanno girando? «Quelli tratti da 7-7-2007 e da Pulvis et umbra». Esclamo: «Ma Pulvis et umbra è appena sbarcato in libreria!». Replica: «Neanche avevo finito di scriverlo che già lavoravo alla sceneggiatura». Quando gli dico che la sua narrativa mi sembra molto cinematografica, mi corregge: «Ha più a che fare col teatro. Ho recitato per venticinque anni. Nei romanzi è rimasto qualcosa». Che cosa? «La necessità di indicare esattamente i luoghi in cui si svolge l’azione, la descrizione dei profumi, un certo tipo di personaggi». A chi gli chiede se i poliziotti buffi che abitano la questura di Aosta siano ispirati a quelli inventati da Andrea Camilleri per la corte del commissario Montalbano, Manzini risponde che il fool, il buffone, è un personaggio fondamentale dell’opera shakespeariana. L’ironia per alleggerire la tragedia. Dice: «L’ironia è l’unico elemento che non ritrovo nella trasposizione televisiva di Schiavone. Però mi piace l’uso narrativo della fotografia che è una rarità in televisione e apprezzo che ci siano tempi lenti e riflessivi. Nelle fiction un po’ edulcorate di Rai1 spesso si incontra la paura ostinata di raccontare i personaggi. Rocco Schiavone va in onda su Rai2 e non credo sia un caso».

Le piace come Marco Giallini interpreta il suo vice questore?

«Una prova attoriale profonda, non di facciata».

Si confronta spesso con Giallini?

«Siamo amici. Durante le prime riprese ad Aosta mi chiamava e mi diceva solo due parole: “Mortacci tua”. Soffriva parecchio il freddo. Mi pare che tra i libri e le fiction si stia celebrando un matrimonio abbastanza fedele».

Non avrebbe preferito uno stile tipo Romanzo criminale?

«No, no, per carità. Detesto le robe sparate, le pallottole che schizzano dappertutto. Ne ho scritte tante per tanto tempo per la tv e mi rompono le palle: sono finte e poco verosimili. Quando vedo impugnare una pistola sottosopra mi dà i nervi e cambio canale».

Lei è un divoratore di fiction americane?

«Mi piacciono quelle in cui si vedono i personaggi, i loro mali e i pertugi in cui si infilano».

True detective o Game of Thrones?

«True detective è bellissimo. Game of Thrones è un fantasy e conosco a memoria gli episodi: è scritto drammaturgicamente molto bene. I telespettatori sono portati a cambiare continuamente sentimenti nei confronti dei personaggi».

Il personaggio preferito?

«Khal Drogo».

Un re troglodita e sanguinario.

«Un coglione, ma lo amavo. In questo caso per una somiglianza: Drogo è uguale a Osvaldo, ex attaccante giallorosso. Un altro di quelli che appena ha messo piede a Roma ha fallito. Roma è un buco nero. Anche cinematograficamente».

Scherza?

«No. Da parecchio tempo anche i grandi registi che vengono a Roma girano le peggiori pellicole della loro carriera. Woody Allen, lo 007 di Sam Mendes…». Rallentiamo. Manzini mi invita a dare un’occhiata per strada: aiuole abbandonate, macchine in doppia fila, motorini sui marciapiedi.

La Roma di Virginia Raggi…

«Dobbiamo essere sinceri: la Giunta non c’entra. Roma è una merda da almeno vent’anni».

Il problema di Roma?

«Oltre ai trasporti pubblici, alla monnezza e ai vigili che si danno malati a Capodanno e non vengono castigati? I romani».

Non c’è scampo.

«Ai romani non gliene frega niente di dove vivono. Per loro non esiste il bene comune. Gli unici interessi tutelati sono quelli dei palazzinari, del Vaticano e dei malavitosi. La gente è incattivita. Masse di turisti ovunque, mostre inutili con tre disegni di Picasso spacciate per grandi retrospettive… A Milano invece hanno fatto passi da gigante. È una città meravigliosa anche grazie al senso di cittadinanza di chi ci abita».

Manzini si trasferirebbe a Milano?

«Sì, se non ci fosse quel clima becero».

La sua Roma.

«Piazza della Chiesa Nuova con l’odore del pane appena fatto e i bar della Garbatella dove mi fermavo ad ascoltare le conversazioni tra ex carcerati».

La sua infanzia.

«Vivevo all’Eur. Ho frequentato un liceo di Spinaceto».

Periferia Sud. Adolescenza di studio matto e disperatissimo?

«No, leggevo Stephen King e mio padre, pittore, inorridiva guardando le copertine sgargianti. La mia fuga dallo squallore adolescenziale erano i Six Days Later, la band di cui ero batterista che si sciolse prima di una fantomatica trasferta londinese».

Università?

«Ho dato sei esami a Giurisprudenza. E sono passato all’Accademia di Arte drammatica».

Il suo maestro era Andrea Camilleri.

«Una volta per mettere in scena uno spettacolo ci convinse a ristrutturare uno spazio sgarrupatissimo e a farne un piccolo teatro. La mattina a pittare, il pomeriggio a provare».

Riusciva a campare di solo teatro?

«A stento. Poi ho cominciato a fare televisione. Ne ho fatta tanta tanta. Tante cose brutte e pochissime belle».

È stato attore nelle serie Linda e il brigadiere, Una donna per amico 3… Ogni volta che lei parla dei suoi trascorsi televisivi come attore e sceneggiatore spuntano giudizi ruvidissimi.

«Raramente in tivù si incontrano persone con cui avere scambi veri. Ho avuto spesso la sensazione di trovarmi in un film surrealista di Luis Buñuel».

È vero che Camilleri le diede da leggere il manoscritto di La forma dell’acqua, il primissimo Montalbano?

«Sì, disse: “Siccome i miei amici sono morti, leggilo tu”. Avevo ventotto anni».

Lei fa leggere a Camilleri i suoi romanzi prima di pubblicarli?

«No. La prima regola della vita è “non rompere i coglioni”. Al massimo sottopongo le prime stesure ai parenti: mia moglie, i miei genitori…».

Lei quando ha cominciato a scrivere romanzi?

«Tardi. Scrivo da sempre, ma per il teatro. Un giorno Martina Donati, allora ufficio stampa della Fazi Editore lesse un mio monologo, lo diede a Massimiliano Governi, che era editor e insieme mi dissero che dovevo farne un romanzo. Sangue marcio è nato così».

Manzini osserva la bicicletta pieghevole del fotografo Massimo Sestini. Pensa ad alta voce: «Invece di venire in macchina a Roma e usare lo scooter che tengo a casa di un amico sulla Cassia, potrei prendere il treno a Orte e portarmi dietro una bici così». Suggerisco: «Così in treno potrebbe scrivere». Replica: «Invidio quelli che riescono a scrivere ovunque, io non ce la faccio».

Dove e quando scrive?

«In casa, in campagna. La mattina, dopo aver fatto un po’ di ginnastica».

Quanto ci mette a scrivere un romanzo della serie di Rocco Schiavone?

«Un anno circa. Comprese le decine di volte che lo rileggo prima di pubblicarlo. Leggo quel che scrivo anche ad alta voce».

Perché?

«Per capire se c’è ritmo, se una frase suona bene, se è troppo tronca o sbrodolata».

È vero che nella sua prima versione Rocco Schiavone era molto diverso e che l’ha cambiato su pressione di sua moglie?

«Lei diceva che così com’era non lo si poteva pubblicare».

Com’era?

«Nelle prime pagine ammazzava di botte un tizio con la complicità di altri due agenti. E aveva due mignotte che lavoravano per lui. Era lercissimo. Troppo».

Maurizio Gasparri e altri parlamentari di area cattolica hanno protestato perché la Rai ha portato in tv il suo vicequestore, un poliziotto che si fa le canne.

«Hanno fatto una super pubblicità alla fiction. Certo mi sarei aspettato proteste e denunce perché Rocco ruba e ha un’etica da strada decisamente discutibile. Ma evidentemente per loro è più grave fumare marijuana».

Rocco Schiavone ha una classifica dei vari livelli di rotture di coglioni che gli cadono addosso: i bar senza gelati Algida, andare a messa, votare, i casi di omicidio… A quale livello di rottura di coglioni si è sottoposto con questa intervista?

«Alto. Parlare di me è sempre una grandissima rottura di palle»

Categorie : interviste
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