Giulia Michelini (Doppio Binario – 7 – Agosto 2017)

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(Intervista pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 31 agosto 2017)

MINI JEANS SBRINDELLATI, flip flop ai piedi, selvaggeria diffusa. Dopo tre secondi che parliamo mi dà un cazzotto sulla spalla: «E lo so, sono fatta così, sono un po’ manesca». Doppio Binario a vela con Giulia Michelini, 31 anni, attrice elfica. Ci diamo del tu. Prima di salire sul piccolo catamarano con cui solcheremo le ondine del lago di Bracciano, stiamo seduti una mezz’ora intorno a un tavolaccio di legno. Davanti a noi ci sono i segni del prosciugamento del lago che fornisce acqua alla città di Roma. Michelini sospira: «Acqua e migranti. Per i prossimi venti anni ci dovremmo concentrare su questi temi». Gesticola vorticosamente. Ammassa una mole mostruosa di parole con cadenza romana in pochissimi secondi. Domando: «Hai sempre parlato a questa velocità?». Replica: «Sempre. E faccio fatica a stare vicina a quelli lenti». Giulia ha un figlio di dodici anni che ha partorito quando ne aveva diciannove. Si chiama Giulio Cosimo. Mentre noi chiacchieriamo lui prepara le vele, monta il timone e arrotola le cime. Michelini: «Quando gli ho chiesto se voleva recitare una piccola parte nella fiction Rosy Abate, di cui sono protagonista, e lui mi ha risposto che non poteva perché doveva prepararsi per una regata mi sono inorgoglita fino alle lacrime».

Rosy Abate è stata per otto stagioni il personaggio principale della fiction Squadra Antimafia. Ora, in autunno, andrà in onda lo spin off che prende il nome dal personaggio. Michelini periodicamente annuncia che non interpreterà più la perfida mafiosa e ogni anno poi… ci ricasca. Glielo rinfaccio. Ride. Poi seria: «Sarei ipocrita se dicessi che la componente economica non influisce sulla scelta di continuare a interpretare Rosy. Ma c’è anche un fattore psicologico: capita che tu stia ferma per alcuni mesi… avere quella conferma è importante». Matteo Nicolucci, tecnico della Compagnia della Vela Roma, che ci ospita, srotola gli ultimi suggerimenti. Si parte. Vento leggero, in poppa. L’attrice gioca a fare l’impacciata, ma governa la barca con abilità. Quando le ricordo che per ottenere il ruolo di Bianca, la coatta di In Treatment, ha vinto un ballottaggio con la bravissima Silvia D’Amico, mi dice che non lo sapeva. È sbigottita e sminuisce questo piccolo successo: «Le variabili per cui vieni scelta sono mille. La bravura spesso non c’entra».

Hai detto: «In Treatment mi ha fatto scoprire i miei limiti».

«È così. Io ero abituata a imparare una paginetta di copione per volta. Lì dovevo memorizzare venti minuti di dialoghi. Tutto molto stimolante, ma in certi momenti sarei voluta scappare via. Mi chiedevo: “Perché mi sto sottoponendo a tutto questo?”. Come durante l’ultima tournée teatrale».

Sei stata una delle protagoniste di Due partite, lo spettacolo scritto da Cristina Comencini.

«L’esordio sul palco e il contatto vivo col pubblico in platea è molto emozionante. Ma ho pianto per 90 repliche, interpretando la figlia di una madre suicida. Tutti mi dicevano che sbagliavo: perché il teatro è finzione e quindi “che ti piangi!”. E lì ho pensato che non so se sono capace di gestire quelle emozioni».

Sei sicura di voler essere così sincera? Gli attori generalmente ostentano doti, non difetti.

«Sono sicura. Lo so da parecchio: non sono una che va ai provini col coltello tra i denti. Non mi piace sgomitare. E soprattutto non mi piace fingere. Mi dicono: se vuoi fare l’attrice anche nella vita devi interpretare la diva».

È lo star-system, baby.

«Esatto. Mi dicono pure che da questo dipende il fatto che io non abbia successi stratosferici».

Potrebbe anche essere un alibi. Della serie: non prendo l’Oscar perché ho un caratteraccio.

«Lo è, lo è. Ma alla luce di una recente esperienza, diciamo orientale, sono sempre più convinta che la vita vera non sia sui red carpet di Venezia, ma altrove».

Spiegati meglio.

«Ci sarà un perché se, pur essendo fatti d’aria, siamo qui a sbatterci rinchiusi dentro a un corpo di pietra». Giulia mi vede perplesso. Dà una botta al timone. Stramba. Sorride: «Lo so che quando dico queste cose sembro pazza. So anche che se vuoi lavorare e stare al passo con il mondo del cinema devi accettare certe regole. Ma spero che tra dieci anni la mia esigenza di buttar fuori quello che penso in maniera artistica avrà trovato altre strade».

Per esempio?

«Con mia sorella Paola stiamo lavorando a un mockumentary».

Un film con lo stile del documentario.

«La storia di una ragazza sfigatissima e precarissima. Una riflessione su quanto siamo marci, sul pianeta trascurato e su come viviamo con gli occhi chiusi. Mia sorella è una di quelle attrici che lo star-system ha tenuto chiusa in un cassetto».

Hai un po’ di senso di colpa nei suoi confronti?

«Probabile ma è un discorso complesso da affrontare. Lei è anche una grandissima scrittrice, ha grandi idee».

Giulia si esibisce in numeri circensi appesa a un trapezio e sospesa tra il vento e l’acqua. Mentre manovra racconta del suo biennio tra i 17 e i 18 anni, quando si trovò a gestire l’interruzione della carriera da ginnasta, l’esame di maturità, l’inizio del percorso da attrice e la decisione di tenere il figlio in arrivo. «Una gigantesca onda emotiva. La vita mi ha stirata, stropicciata, compressa e ricompressa nel giro di pochissimo tempo. Ora sto cercando di riordinare tutti i pezzi e individuare i miei contorni».

Hai esordito sui grandi schermi con Ricordati di me di Gabriele Muccino e stai per tornare su un set cinematografico proprio con Muccino.

«Dopo quindici anni. È un film corale: L’isola che non c’è. Storia di una famigliona complessa».

Con chi duetterai?

«Ci sono Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi, Stefania Sandrelli…».

Frequenti molti attori fuori dal set?

«Nessuno. E in linea di massima non ho molti amici. Sto spesso con i ragazzi della Compagnia della Vela Roma o con quelli del Circolo Velico Ventotene. Al massimo vedo tre o quattro amici storici, del tempo del liceo».

C’è un regista con cui sogni di lavorare?

«Se te lo dico rischio di essere banale».

Rischia.

«Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e Daniele Ciprì».

Daniele Ciprì…

«Uno dei pochi con un occhio davvero diverso sul mondo. Tra i problemi del cinema italiano c’è proprio questo: si vedono sempre le stesse cose, fatte dalle stesse persone. Tanto che persino le opere prime spesso fanno sbadigliare. Si osa poco. Si rischia pochissimo. E chi rischia è costretto ad autoprodursi, come è successo a Gabriele Mainetti».

Sei fan di qualche serie tv americana?

«Sono immersa nel mondo Netflix. Mia sorella mi ha introdotta ai docu sul veganesimo, io divoro fiction».

Breaking Bad…

«Più Glow, che è una dark comedy ambientata negli anni 80. O Happy Valley, Broadchurch… A me piacciono le cose che non piacciono. Anche i film lenti senza parole, dove passano emozioni senza che vengano pronunciate».

Questa è una posa da cinephile.

«No, giuro».

Approdiamo. Giulio ci accoglie sorridente. Andiamo verso il bar. L’attrice urla: «È l’ora della birraaaaa». Da quando ci siamo incontrati né lei né il figlio hanno toccato un telefono cellulare. Glielo faccio notare. «Lui non ce l’ha. Io lo uso il meno possibile».

Sei sui social network?

«Solo Instagram. Non sopporto l’invadenza di Twitter e di Facebook: la finta intimità con persone che non hai mai incontrato, quel giudicare tutto e tutti pensando di conoscere il mondo senza mai essere usciti dal proprio appartamento, la necessità di avere tanti follower persi no per trovare lavoro…».

Sei mai stata stroncata da critiche sui social network?

«Sì, sì. Dopo In Treatment mi hanno massacrata. Ma la notte ho dormito tranquilla».

I social sono il luogo dove si informano molte persone.

«Lì si trovano spesso informazioni filtrate, superficiali, titoli e riassuntini che andrebbero approfonditi. In realtà credo che ormai la maggior parte della gente sia fieramente disinformata. Al massimo si bevono quel che passa il tg e vivono tranquillamente».

Sei leggermente polemica.

«Lo sono col mio stesso mondo. Mi chiedo: pensiamo davvero che gli ascolti tv crollerebbero se invece della decima replica di una fiction popolare il servizio pubblico mandasse in onda delle inchieste oneste? Non credo. Credo nell’intelligenza delle persone ad adattarsi ai prodotti di qualità. Uff… Sto contravvenendo ai consigli che mi hanno dato: sei un’attrice, non parlare di attualità».

Attualità. Migliaia di migranti premono alle porte dell’Europa. Sei murista o accogliente?

«Il mondo è di tutti e penso che ci dovremmo mischiare più possibile».

Categorie : interviste
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