Ascanio Celestini (Doppio Binario – 7 – Giugno 2017)

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(Intervista pubblicata per 7 – Corriere della Sera il 15 giugno 2017)

Dovevamo arrivare davanti al teatro del suo esordio da solista guidando il furgoncino da tournée, ma è rotto. Non parte. E allora agguantiamo i monopattini dei figli e facciamo il giro delle case in cui ha vissuto: «Non è ‘sto gran viaggio, eh. Sono a poche centinaia di metri una dall’altra». Siamo a Morena, borgata spalmata alle porte di Roma Sud. Doppio Binario a rotelle con Ascanio Celestini, 45 anni, maestro di parole e gran cerimoniere di tradizioni orali. Jeans, camiciola sgualcita e sandali ai piedi. Eloquio svelto con cadenza romanesca. Prima di partire stiamo una quarantina di minuti in giardino: «Quella è la finocchiella, lì c’è il mirto, abbiamo anche la pianta delle bacche di Goji… ‘Nsanno de gnente». Ogni tanto veniamo interrotti dalla secondogenita, soprannominata Briscola, che viene a rubare un pistacchio. Il figlio più grande, invece, sta studiando le incisioni rupestri della Val Camonica per una ricerca scolastica: «Gli ho spiegato che è meglio la Treccani per ragazzi di Wikipedia». Viriamo sul futuro tutto digitale che accoglierà le prossime generazioni: «Mi fa impressione che attraverso la Rete si pensi di essere al centro dell’universo, di poter sapere tutto. Non ci si rende conto che in realtà si ignora come sia fatto veramente il mondo. Poi c’è quella solitudine delle stanzette da cui si clicca, che è l’illusione di far parte di grandi comunità che non sono reali. E questo dà dipendenza». L’occhio di Celestini è da sempre puntato sulle storie degli esseri umani più comuni: storie reali, rielaborate e masticate, apparentemente non significative, che spesso intrecciano la storia ufficiale e le danno nuova luce. Storie di operai, di precari, di migranti e di viandanti srotolate in un flusso rapido di parole. Anche il suo ultimo spettacolo, Pueblo, di cui proporrà uno «studio» al Pistoia Teatro Festival (tra il 18 e il 25 giugno) è gonfio di questi personaggi: una barbona che non chiede l’elemosina, uno zingaro di otto anni, un facchino africano, una barista… Usciamo di casa. Due pedate sul monopattino e siamo di fronte a una siepe verde. Sembra un muro.

Celestini, il suo teatro è molto politico.

«L’intento non è questo. Io racconto belle storie. Storie che piacciono a me. Racconto anche barzellette e non credo che siano meno nobili di alcune opere di William Shakespeare o di Samuel Beckett».

Lei racconta soprattutto le avventure/disavventure degli ultimi e degli emarginati.

«Se devo pensare a una missione del mio teatro, credo che sia quella di mostrare l’uomo, l’essere umano. E nella debolezza degli uomini c’è qualcosa di amaro che è bello e giusto raccontare».

Negli anni Duemila, le debolezze spesso vengono rimosse: sui social network sono tutti felici e giulivi.

«L’ambizione di essere tutti ricchi, belli e sani è legittima e viene da lontano. Certo, ha ragione Alex Zanotelli quando dice: “Fatevi pure una casa grande e lussuosa, però tenete le porte aperte”. L’Italia è comunque un Paese ricco rispetto a gran parte del pianeta: tenga le porte aperte». I monopattini arrancano sull’asfalto pieno di buche. Arriviamo di fronte alla casa dei genitori. L’attore indica la finestra della sua prima cameretta: «È quella con il lenzuolo rosso appeso alla finestra». Lì accanto c’è un bar con la saracinesca abbassata. «Stanno chiudendo tutti. Non ce la fanno». Quando gli chiedo come mai il malessere sociale di cui parla non sfoci in qualche protesta visibile, piazza una citazione famigliare: «Mio nonno diceva che finché ci sarà l’acqua calda per farsi una doccia dopo il lavoro, non ci sarà la rivoluzione. I disagi ci sono però e vanno ascoltati». Comincia a raccontare dei giovani operai meridionali emigrati a Torino che nel luglio 1962 esplosero in una protesta violenta. Il parallelo coi migranti africani che sbarcano in Italia è immediato.

Siamo diventati meno accoglienti?

«Da ragazzo vedevo i film sul razzismo degli Anni 50 negli Usa e pensavo: “Che assurdità! Ma come ragionano?”. Ora ho realizzato che noi non eravamo razzisti perché gli africani in Italia non c’erano. Appena sono arrivati…».

Siamo razzisti?

«Negli atteggiamenti. E poi c’è un problema sociale che ha bisogno di molto tempo per essere risolto».

Quale?

«Al semaforo tu puoi scegliere se concedere una monetina a chi ti pulisce il vetro o scendere dall’auto e dargli un calcio nelle palle. Ma sei sempre tu a decidere e in ogni caso, qualunque cosa tu faccia, dopo rientrerai nella tua casa calda e lui tornerà sotto a un ponte».

In un bar o in un talk show qualcuno le direbbe: «Perché non se li prende lei in casa questi immigrati?».

«Risponderei: perché io sono un attore, pago le tasse e mi aspetto che le persone che si occupano di immigrazione lo facciano in modo professionale. Invece sento molti dire: aiutiamoli a casa loro».

Non è la soluzione giusta?

«La loro casa sta bruciando, come li puoi aiutare a casa loro? La maggior parte dei migranti sono come quei disperati che si buttavano dalle Torri, l’11 settembre. Non potevano restare nei loro uffici e si lanciavano nel vuoto. Potendoli salvare, a qualcuno sarebbe venuto in mente di dire “ne possiamo acchiappare al volo solo cinque perché abbiamo gli ospedali pieni, gli altri, per cortesia, restino nei loro uffici in fiamme?” Solo l’idea che noi siamo altro, che siamo diversi, ci può far accettare un simile ragionamento». L’appartamento dove Celestini ha vissuto nei suoi primi anni da attore è minuscolo: 35 metri quadri. Da fuori si vedono solo gli infissi in alluminio.

Un ragazzino accompagnato dalla madre spunta zigzagando dall’angolo della strada: è in equilibrio precario su un hoverboard, uno di quei monopattini elettrici a due ruote. Massimo Sestini, fotografo spericolato, propone all’attore uno scatto sull’attrezzo futuristico. Celestini accetta e dopo tre secondi vola di schiena sull’asfalto. Penso: “Oddio, mi s’è rotto l’intervistato”. Si rialza illeso. Mentre veniamo inondati di immagini e costruiamo realtà sempre più virtuali, Celestini affida il suo teatro alla parola. La parola nuda, spesso nemmeno scritta. Ha studiato antropologia, ha esordito in Toscana con un gruppo di teatranti di strada e poi è approdato in scena. Le sue scenografie sono essenziali: «Quella dello spettacolo Laika è fatta principalmente da cassette di plastica raccolte nei cassonetti».

Come nasce uno spettacolo di Ascanio Celestini?

«Con delle interviste. Parlo con le persone, registro, prendo appunti».

E poi mette in scena i dialoghi?

«No. Rielaboro le conversazioni. Mi chiudo nel mio studio e comincio a improvvisare. Posso stare una giornata intera a chiacchierare, da solo».

È una specie di flusso narrativo.

«Cerco immagini non scontate. Ogni tanto ripeto alcune frasi, ma per dare ritmo, non per creare tormentoni rassicuranti. Le faccio un esempio…».

Prego.

«Ero in camerino per un altro spettacolo e avevo un po’ di tempo libero. Mi sono messo a pensare a un pezzo che dovevo realizzare intitolato Io cammino in fila indiana. Ho cominciato a improvvisare: “Non posso dire che Io cammino in fila indiana, perché non sarei l’unico e allora devo dire Noi camminiamo in fila indiana… allora per correttezza dovrei dire così, però io non sono il rappresentante della fila indiana, non posso parlare per tutti, per cui per correttezza dovrei dire che Io insieme a molti altri cammino in fila indiana, questo è più corretto, però non so se siamo molti, qualcuno di più qualcuno di meno, Io e altri camminiamo in fila indiana e io sono il numero 23724. Da dove m’è venuto in mente? Era il mio vecchio codice Pin del bancomat che ricordavo perché era 23-7-24” Sono andato avanti per ore…».

E alla fine ha portato in scena questa improvvisazione?

«Ho preso appunti. Ogni tanto registro me stesso. Ma non imparo un testo a memoria. Agli attori che vogliono interpretare un mio spettacolo, dico di improvvisare più possibile. E, se ne esiste uno, di cambiare il testo continuamente. Spesso è proprio nel momento in cui si fa un errore che succedono le cose migliori». Siamo di nuovo di fronte all’abitazione di Celestini. È un piccolo cantiere. Ci sono alcuni lavori da completare. I figli stanno guardando un cartone animato, in inglese: “Il più grande frequenta un istituto bilingue di Grottaferrata”. L’attore indica un villone enorme con tetti orientaleggianti dall’altra parte della strada. Spiega: «È dei Casamonica». Chiedo: «La celebre famiglia rom che gestisce affari poco limpidi?». Annuisce.

Lei è stato accostato più volte al M5S: a un anno dall’insediamento che cosa pensa della Giunta Raggi?

«Non sono stato abbastanza a Roma per giudicarla. Ma posso dire che recentemente ho ascoltato una frase di Grillo che non mi è piaciuta».

Quale frase?

«Diceva che i 5 Stelle devono fare quel che vogliono gli elettori dello stesso movimento. Credo che il M5S, come gli altri partiti, debba contribuire al bene del Paese».

Lei è grillino?

«In realtà non lo sono mai stato. Ora mi capita di ricevere anche qualche insulto quando dico o scrivo qualcosa che può sembrare una critica al M5S».

Un esempio?

«M’è capitato di pubblicare una vignetta con una definizione che diede Gramsci del Partito Fascista e che ricordava molto il rischio di una deriva populista dei 5 Stelle. Era satira. E la satira fa bene soprattutto quando è dura».

È partito il tiro al bersaglio contro di lei?

«Mi hanno subito attaccato: Celestini, quello pagato dalla tv di Stato. L’anarchico da salotto. Ecco, un rischio che vedo nitido all’orizzonte è quello dell’affermarsi, diffuso anche tra i giornalisti, di nuovi tiranni: parlano, dichiarano, ma non ascoltano. Non costruiscono un dialogo».

Categorie : interviste
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