Alessandro Preziosi (Doppio Binario – 7 – Giugno 2017)

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(Intervista pubblicata il 29 giugno 2017 per 7- Corriere della Sera)

C’è un falso piano. Lui sale sui pedali per accelerare, un piede scivola via, barcolla e sbanda, per poco non cade. Fa un sospiro di sollievo. Si ferma: «Stavo per farmi male». Racconta: «Lo sai che la prima volta che sono salito in bicicletta mi sono schiantato sul cofano di una macchina?». Doppio Binario a pedali con Alessandro Preziosi, 44 anni, attore, regista, produttore teatrale. Ci diamo del tu. Gli aggettivi più frequenti che gli vengono attribuiti dalle signore a cui comunico che lo sto per incontrare sono: “Gran gnocco” e “Fico della madonna”. Occhi blu con forma gattesca, mise un po’ stropicciata, barbetta imbiancata. Sta interpretando un Vincent van Gogh maledettissimo e in crisi d’ispirazione nella pièce teatrale L’odore assordante del bianco, scritta dal talentuoso Stefano Massini. Preziosi ironizza su sé stesso: «La fama? Mi scambiano continuamente per Adriano Giannini». In bicicletta si diverte come un ragazzino: scatta zigzagando, piega e sgomma. A un certo punto sfoggia un insospettabile fiatone. Provoco: «Pensavo che fossi più in forma». Replica: «Mi sto allenando. Mangio verdure e frutta. Bevo meno vino. Frequento il corso dei cinque ritmi». I cinque ritmi? «Si balla per due ore e mezza. Musica liquida, lirica, pop. È meditazione dinamica. Qui a Villa Borghese ci vengo a correre ogni tanto. L’ultima volta l’ho fatto ascoltando in loop Tu non mi basti mai di Lucio Dalla. E sempre qui ho insegnato a mia figlia ad andare in bicicletta». Sorride: «Le ho insegnato anche ad allacciarsi le scarpe. Hai capito che papà?». Preziosi è bi-padre: ha avuto il più grande, Andrea 21 anni, da Rossella Zito, e la piccola, Elena 10, da Vittoria Puccini. Le madri sono tutte e due ex. «Riconoscono che sono un buon genitore». Cominciamo a parlare di quando è nato il primogenito. Alessandro studiava Giurisprudenza, ma lottava per fare il giornalista o l’attore: «I miei genitori mi dicevano: “L’attore? Hai ventidue anni e un figlio, ma dove vai?”».

Non ti hanno incoraggiato?

«No. Dopo la laurea in Legge mi trasferii a Milano. Feci circolare il mio curriculum per scrivere su qualche quotidiano. Poi lessi un volantino che annunciava prove aperte per l’Accademia dei Filodrammatici. Mi presero».

Nel frattempo ti era nato un figlio.

«Andavo a trovarlo a Salerno. Ho bruciato molte tappe della crescita. E questo forse ha influito sul mio difficile rapporto con il diventare adulto».

Ricordi la tua prima esibizione?

«Trappola per topi al Teatro Cilea di Napoli, in uno spettacolo di beneficienza con i Lions. Una sensazione di libertà assoluta. La prima performance che considero seria, però, fu la lettura della Livella durante le prove di un Amleto con Kim Rossi Stuart. Lì capii che la mia napoletanità, fatta di racconto e di condivisione, era una fortuna. Io sono sempre in ascolto delle storie altrui: che siano quelle di un pescatore, di un autista o di Paolo Villaggio che con un whisky in mano all’alba, seduto al bar Funicolare di Capri, parla del suo rapporto con Massimo Troisi e con Gian Maria Volonté».

Bevevi whisky all’alba con Paolo Villaggio?

«Mi è capitato di incontrarlo da ragazzino quando per divertimento facevo lo showman nei locali capresi. All’epoca io bevevo latte».

Quando ti sei sentito veramente un attore?

«Nel 1998. Quando mi diedero la parte di Laerte nell’Amleto. Da quel momento mi sono sempre dato la possibilità di scegliere. E non ho rimpianti».

Non ti è mai capitato di rinunciare a qualche ruolo e col senno di poi, di pentirti per quella rinuncia?

«Beh, effettivamente aver detto “no” a Paolo Sorrentino per la parte che poi ha affidato a Jude Law nella serie The Young Pope… Ahahah, scherzo, eh».

Sei un divoratore di serie tv?

«No. Zero».

Niente House of Cards, Game of Thrones, Breaking Bad…?

«Niente di niente. Ho un decoder satellitare che devo attaccare e riattaccare di continuo. Quindi lo evito. E poi mi fa paura la dipendenza».

Temi di entrare nel tunnel delle serie e di non uscirne più?

«Ho un passato da fondista delle multisale: entravo alle 16 e uscivo a mezzanotte. Mi è capitato di farlo anche recentemente. Sai che quando mi ritrovo al cinema e vedo i manifesti dei film penso: “Ma a me piace di più fare l’attore o lo spettatore?”».

Che cosa ti rispondi?

«Che le opere degli altri si sedimentano per molto tempo nella mia testa, le mie le dimentico velocemente».

Una sedimentazione recente?

«Il sindaco del Rione Sanità di Eduardo De Filippo, rivisto in dvd». Ci fermiamo in un baretto del Flaminio. Un estratto di frutta e un caffè senza zucchero. C’è un po’ di spazzatura accanto a una panchina. Domando: tu sei figlio di un ex sindaco diccì di Avellino, che cosa pensi dell’amministrazione Raggi? L’attore svicola citando van Gogh. Dice che i giudizi sulla Capitale sono confusi come quando i colori si mischiano troppo sulla tavolozza e viene fuori qualcosa di indefinito. Lo interrogo sull’amministrazione della Cultura in Italia. Preziosi parte con un complimento al ministro, ma poi si lascia sfuggire che Dario Franceschini per lui non è votabile. Chiedo conferma: hai detto che non è votabile? Replica con gag: «Ho detto “non votabile”? Intendevo “non potabile”, non tagliabile, non sostituibile». Spiega: «Ho partecipato all’ultima Leopolda renziana. Penso che Franceschini abbia fatto davvero molto per il cinema, ma dovrebbe lottare per far crescere di più il FUS». Il Fondo Unico per lo spettacolo. «Mancano 250 milioni, che per lo Stato sono poca cosa e che invece risolleverebbero le sorti del settore. E poi ci sono i teatri lirici…».

Che cos’hai contro i teatri lirici?

«Nulla. Mi piacerebbe che i teatri di prosa ricevessero altrettante risorse. Vorrei che tutti avessero di più. La politica si riempie la bocca di cultura, ma poi tratta il mondo del teatro come un figlio trascurabile».

Lo Stato è un padre disattento?

«Uno di quelli che ti promette ogni giorno di portarti nella giostra più bella del mondo, ma poi rimanda continuamente il momento. Il rischio è che i figli una volta cresciuti se ne vadano altrove». Siamo sulla ciclabile, a pochi metri dal Tevere. Per raggiungere il fiume ci affacciamo in un circolo di Legambiente… Spunta un ragazzo e abbraccia l’attore: «Alessa’, amo preso ’n gestione ‘sto spazio, inauguramo stasera. Ce devi esse’». Invito declinato: «Ho le prove, sarò fuori Roma, sarà per la prossima volta». Preziosi oltre a essere un attore teatrale che frequenta il Festival di Spoleto, è anche una star tv ultra pop. La celebrità viene dai tempi in cui vestiva i panni del Conte Ristori nella fiction Elisa di Rivombrosa. Il Conte aveva una storia con la protagonista Elisa, interpretata da Vittoria Puccini. Gli faccio notare che la sua relazione con Vittoria, e quell’intreccio tra fiction e realtà, erano degni di un romanzo di Bret Easton Ellis. Si infila nella conversazione il serafico fotografo Massimo Sestini: «La prima foto insieme fuori dal set gliel’ho fatta io». Preziosi racconta: «Il rapporto tra me e Vittoria nasceva da una meravigliosa e solida amicizia. Fu anche un periodo folle. Grazie al Conte Ristori mi diedero quattro Telegatti in una volta sola. La sera della vittoria fu rocambolesca, tra locali milanesi e party con Vasco Rossi».

Com’è il tuo rapporto con la critica?

«Sarebbe bello se i critici vedessero gli spettacoli».

Non lo fanno?

«Non tutti».

La critica che ti ha fatto più male?

«Una volta Franco Cordelli mi diede un 6,5. A me, che sono stato rimandato una decina di volte sembrava un bel voto, invece mi dissero che era una stroncatura. Tempo dopo l’ho incontrato e mi ha detto: “Sei un ottimo attore. Ma devi evitare di dirigerti da solo”».

Oggi le critiche arrivano anche on line.

«Non frequento i social. Ho provato a iscrivermi a Instagram e mi sono fermato al quarto tentativo di verifica dell’account. Sono un po’ vigliacchetto».

In che senso?

«Quando vedo la violenza dei commenti e dei litigi on line, penso: per fortuna che non sto lì in mezzo!».

Stiamo per arrivare a Ponte Milvio. Affrontiamo un’ultima salitella. La pedalata si fa più macchinosa. Domando: «C’è qualcuno che consideri il tuo maestro?». Spara: «Napoli, la mia città». Mi guarda, mi vede scettico. Continua: «Non è facile individuare il maestro di una vita. Partiamo dalla prima ispirazione: Freddie Mercury».

Il leader dei Queen.

«Ero davanti alla tv. Scorrevano le immagini del suo concerto di Wembley nel 1986. Migliaia di persone in delirio. Avevo 13 anni. Mi resi conto che volevo fare qualcosa che coinvolgesse la gente in quel modo».

Un obiettivo minimal.

«Già. La sana condivisione cristiana delle emozioni. E poi la vanità, l’egocentrismo, la determinazione».

Torniamo al maestro.

«Antonio Calenda per le basi della cultura teatrale. E Antonio Frazzi che mi ha diretto nel mio lavoro più necessario».

Quale sarebbe?

«Per amore del mio popolo. La storia di Don Peppe Diana ucciso dalla camorra a Casal di Principe».

L’insegnamento di Frazzi?

«La delicatezza».

Per fare l’attore occorre delicatezza?

«Bisogna maneggiare con cura se stessi, i testi e i colleghi. Anche perché gli attori sono spesso o incoscienti al limite della stupidità o fragili, quasi problematici».

E tu…?

«Io ho entrambe le caratteristiche». Ride e chiude: «O nessuna delle due».

Categorie : interviste
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