Diego Piacentini (Doppio Binario – 7 – Maggio 2017)
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(intervista pubblicata il 15 maggio 2017 su 7 – Corriere della Sera.)
Osserva la mia carta d’identità tutta sbrindellata, come se fosse un reperto archeologico di tempi barbari. Esclama: «Ma davvero lei va in giro con quell’affare?». Dico: «Solo il 5% degli italiani possiede la versione elettronica». Replica fiducioso: «Il team che dirigo fa solo da supporto su questo progetto. Ma vedrà che alla fine del mio mandato la percentuale salirà al 30».
Diego Piacentini, 56 anni, è Mister Digitale, cioè l’uomo che dovrebbe catapultare la Pubblica Amministrazione italiana in un futuro tecnologico e automatizzato. Il suo mandato scade nell’agosto 2018. È sbarcato nella Capitale poco più di un anno fa, su invito di Matteo Renzi. Piacentini ha un passato da mega manager di Apple e di Amazon. Per lo Stato italiano lavora gratis. Mi mostra un biglietto da visita super smart, con chiocciole, faccine, e senza numeri di telefono: «Ce lo siamo autofinanziati. Non fosse mai che qualcuno abbia da ridire». Con Piacentini, Doppio Binario a tappe: aereo, taxi e soprattutto tapis roulant. Mentre scivoliamo sul nastro di metallo che porta dai parcheggi all’Aeroporto di Fiumicino, parliamo del futuro hi-tech del pianeta. Ipotizzo: «Ci muoveremo sempre di meno. Le intelligenze artificiali scipperanno il lavoro a milioni di cittadini. Vivremo chiusi in casa lobotomizzati davanti a un tablet». Sorride: «Quando si parla di rivoluzioni tecnologiche c’è la tendenza a sopravvalutare l’impatto negativo nel breve periodo e a sottovalutare l’impatto positivo nel lungo».
Il viaggio inizia nella sede del suo gruppo di lavoro, il Team Digitale, a pochi passi dal Ministero dell’Economia. Qui una ventina di trentenni smanetta dalla mattina alla sera. Me li presenta citando le aziende estere o le università di provenienza. Ce n’è uno stravaccato su una chaise long rossa. Indicando una cortese signora, dice: «Lei è il residuo della PA». Cioè l’unica della banda a provenire dalla Pubblica Amministrazione. «Sia chiaro, è davvero brava». Si parte. Arrivati al check-in Piacentini sfodera un doppio passaporto: italiano e americano. Scherzo: «Maccarone, m’hai provocato…». Mi guarda perplesso. Gli chiedo di terminare la citazione. Dice: «Non la sto seguendo» Spiego: «È Alberto Sordi nel film Un americano a Roma». Andando avanti nella conversazione Piacentini confessa di sapere a malapena chi sia Gianroberto Casaleggio: «Sono poco esposto all’attualità politica». Quando mi sente nominare Stefano Accorsi, domanda: «Che cosa fa nella vita?». Ne approfitto e maramaldeggio. Sa che cosa è Ala? «Quella dei pennuti?». No, no. Ala, il gruppo parlamentare di Denis Verdini che sostiene il governo. «Forse sbaglio, ma io guardo la Cnn. E non ne ho mai sentito parlare». Non sbaglia.
Come
è stato l’impatto con Roma?
«Sono un milanese che ha girato il mondo e ha vissuto diciassette anni a
Seattle… Mi sono costruito una vita che permette di ottimizzare al cento per
cento la mia attività».
Cioè?
«Dormo in hotel. Il primo meeting è tra le 7.30 e le 8. Esco dal lavoro a ora
di cena. Spesso anche dopo. Quando posso, all’alba, verso le 6, vado in
palestra o corro un’oretta per le vie del centro storico: trovo incredibile che
non ci sia nessuno per strada».
È promosso sul campo: da “Americano a Roma” a marziano di Ennio Flaiano.
«Abbiamo una chat del Team in cui raccogliamo aneddoti sulla PA».
Follie dei palazzi romani?
«A Palazzo Chigi si fuma nei bagni. I poliziotti in piazza fumano. Se lo
immagina un poliziotto della Casa Bianca che fuma per strada?».
Da Amazon alla Pubblica Amministrazione italiana.
«Guardi che nella PA ci sono professionalità fantastiche e grandi lavoratori.
Il dipartimento tecnologico della Corte dei Conti è decisamente
all’avanguardia».
Scherza?
«Sono serio. Poi certo… Ci sono database nazionali che non parlano tra loro,
dobbiamo fare un lavoro profondo, anche sull’approccio culturale nei confronti
del digitale: ho incontrato funzionari che si occupano di bandi di gara che
avevano il divieto di usare Internet. Nel 2017. Ahahah».
Arriviamo al gate per l’imbarco. Piacentini viaggia con trolley e zainetto. Tira
fuori lo smartphone. Clic. «Vede? Faccio sempre un monitoraggio della velocità
della rete Internet dei luoghi in cui mi trovo». Clic. Sullo schermo scorrono
le foto. C’è lui con un salmone in mano, accanto a un ragazzo. «È Niccolò, mio
figlio più grande, ha 25 anni. Mi ha introdotto al mondo della pesca. Andrea,
il secondogenito, ne ha 21 e in questo momento sta finendo il suo Semester at
Sea».
Che cos’è? «Il giro del mondo in nave: 600 studenti, 80 insegnanti,
una quarantina di corsi. Viaggiare, esporsi a valori diversi è importante. Io
l’ho fatto a diciassette anni».
In che modo?
«Ho trascorso un anno negli Stati Uniti, a Olympia nello Stato di
Washington. A cavallo tra il 1977 e il 1978. Avevo diciassette anni. John
Travolta, Star Wars, Starsky e Hutch… Mentre ero lì, a Roma le Br rapirono e uccisero
Aldo Moro. La mia famiglia americana mi disse: “Se non vuoi tornare in Italia
ti teniamo qui”».
Lei è tornato. Ha studiato alla Bocconi.
«Sono il primo laureato della mia famiglia. Mio padre si trasferì in lambretta
dalla provincia di Brescia a Milano: partì come magùt, muratore, e divenne
contabile. La mia è una tipica storia italiana».
Il primo impiego?
«Alla Fiat. Nel 1987 entrai alla Apple. Steve Jobs se ne era appena andato.
Dopo qualche anno, visto il lento declino dell’azienda, anche io pensai di
cambiare. Avevo ricevuto un’offerta dalla Olivetti. È stata mia moglie Monica a
convincermi a restare. Poi è tornato Steve Jobs ed è cambiato tutto».
Steve Jobs…
«Aveva una capacità maniacale di focalizzarsi sugli obiettivi. La sua gestione
del personale era decisamente tranchant».
Un esempio?
«Una volta mi voleva convincere a licenziare il direttore europeo del marketing
perché lo considerava noioso. A un manager che aveva toppato il quarto
intervento di fila nella stessa riunione disse: “Quante persone ci sono nel tuo
team, senza contare te, a partire da domani?”».
Una specie di mostro.
«Era un genio».
È vero che c’è stato un litigio tra di voi quando lei ha annunciato il suo
passaggio ad Amazon?
«Dopo venti minuti che parlavamo Steve ha capito che avevo già deciso. Ha
cambiato tono e mi ha detto: “Sei talmente stupido che mi viene il sospetto che
abbia fatto male a tenerti”».
Perché ha accettato di passare da Cupertino a Seattle?
«Mi ha convinto Jeff Bezos. Durante l’estate del 1999 sono andato a trovare la
mia “mamma” americana, quella da cui avevo vissuto nel 1977. Sapevo che si era
aperta una posizione come capo di Amazon in Europa. E dato che ero vicino a
Seattle, ne ho approfittato per incontrare Bezos».
La prima sensazione?
«Lui era curioso. Ricettivo. Jeff ha sviluppato di persona i primi algoritmi di
raccolta pacchi nei magazzini. Conosceva ogni dettaglio operativo del business.
Mi assegnò la responsabilità di tutto l’International».
Lei si è trasferito subito a Seattle?
«Sì. E appena la famiglia mi ha raggiunto, Jeff e la moglie sono venuti a casa
nostra, armati di martello e avvitatore: ci hanno costruito un door
desk».
Che cos’è?
«All’epoca, per risparmiare, nella sede di Amazon le scrivanie erano fatte con
le porte. Quello di Jeff è stato un gesto grazioso per ringraziarmi della
scelta».
Jeff Bezos…
«Un’invenzione al giorno. Una sperimentazione continua. Dentro Amazon viene
premiato anche l’errore, purché sia fatto nel tentativo di innovare».
Lei descrive un paradiso, ma di Amazon si dice che sia un luogo con ritmi di
lavoro inumani. Un inferno.
«Il lavoro nei magazzini è molto duro, è vero. Tra l’altro i manager ogni anno
devono fare turni in magazzino e al customer service. Io ho trascorso tre
Natali tra pacchi e scaffali: eravamo in ritardo con le consegne e Jeff ha
chiesto a tutti di dare una mano. Dopodiché il magazzino di Piacenza è
visitabile. Chi vuole può controllare le condizioni di lavoro».
Ci sono state polemiche anche sul suo approdo a Palazzo Chigi: si è parlato
di un gigantesco conflitto d’interessi, di fughe da Amazon a causa delle
difficoltà sul mercato cinese…
«Ahahah. Nulla di tutto ciò. Le azioni di Amazon in mio possesso hanno
un’incidenza ridicola. Sono venuto a Roma perché mi ha chiamato il premier,
Renzi, e perché credo che sia giusto restituire al Paese qualcosa».
La sua missione sarà un successo se…
«Se portiamo a termine i progetti in corso in sette grandi città. Se
sviluppiamo identità e i pagamenti digitali. Se avviamo in maniera solida
l’anagrafe nazionale. L’innovazione tecnologica ha bisogno di tempo per essere
messa in pratica. Va protetta dalle esigenze di consenso immediato della
politica».
La politica italiana è pronta per la rivoluzione digitale?
«Nei prossimi anni ci sarà una mutazione genetica tra i politici: meno avvocati
e più computer scientists. Per governare gli effetti delle nuove
tecnologie è necessario conoscere le tecnologie».
Linate. Sbarcati dall’aereo andiamo ai taxi. Clic. Piacentini mi fa vedere un’ultima foto sul suo smartphone: i figli in maglia nerazzurra. Che cosa pensa delle “milanesi” in mano ai cinesi? «È un fatto intrigante e affascinante. Ogni partita verrà vista da centinaia di milioni di persone». Non tutti i tifosi sono contenti. «C’è chi dice che così il calcio non sia più quello di una volta. È un lamento antico. In realtà niente è più come una volta. Ci evolviamo».