Martina Caironi – maggio 2018 (7 – Corriere della Sera)

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(Intervista Doppio Binario pubblicata su 7 – Corriere della Sera il 5 maggio 2017).
Appuntamento ai giardini Margherita di Bologna. Doppio Binario a rotelle. Lei sui pattini e io sullo skate. Prima di partire stiamo mezz’ora su una panchina, all’ombra. L’intervista stava per saltare a causa di un dolore al nervo sciatico, poi mi è arrivato questo sms: «La facciamo. Questa settimana voglio spingere». Martina Caironi, 27 anni, è una star dell’atletica paralimpica: portabandiera azzurra a Rio 2016, ori e argenti, record mondiali. Fa 100 metri in 14 secondi e 61 centesimi. È la donna più veloce del pianeta nella categoria T42,cioè tra quelle con un’amputazione agli arti inferiori sopra al ginocchio.Le manca mezza gamba sinistra.A un certo punto mentre parliamo,dice: «Dato che mi fa un po’male…». Si piega su se stessa,toglie un tappetto all’altezza dello stinco, si sente uno sfiato.Stacca la protesi, si sfila la cuffia di silicone che avvolge il moncone per proteggerlo e copre la coscia con le sue calze nere. Poi mette la protesi in equilibrio e ci si appoggia con un gomito come se fosse un comodino. La rana azzurra disegnata sull’adesivo appiccicato alla gamba sintetica sorride ai passanti sbigottiti. Lei: «Non ho affrontato sempre con questa disinvoltura gli sguardi degli altri. All’inizio,quando giravo con le stampelle e tutti mi scrutavano,avrei voluto sprofondare». Martina ha occhi azzurrissimi, trecce bionde con sfumature tra il celeste e il viola. Parla svelto e intercala con gergo parecchio giovanile: «Che sbatti… Mi si è accollato… Strascialli…». Ci diamo del tu. Quando vede un bambino traballare su uno di quei monopattini elettrici con lucette colorate,esclama: «Ma che senso ha usare quegli affari? Si facesse una bella corsa».È tempo di pattinare. L’operazione di rimontaggio della protesi è fulminea. Martina elenca le doti della sua gamba metallica hi tech: «Se la metti a testa in giù ti dice quanta batteria è rimasta». Il piede artificiale ha le unghie smaltate di rosso. Prende lo smartphone: «Da qui posso cambiare le modalità d’uso. Clic. Ecco, ora passo da camminata a pattinaggio». Si rende conto del mio stupore: «Le protesi così tecnologiche purtroppo non vengono fornite a tutti dalla sanità pubblica. Ci sono ingiustizie assurde».
Fammi un esempio.
«Hai diritto a una gamba elettronica se hai avuto un incidente sul lavoro. Ma se sei un ragazzo che è andato a sbattere in motorino, ti consegnano un bel ginocchio meccanico,che è molto più difficile da usare. In Austria e in Germania non è così. Dare ai cittadini il top delle protesi vuol dire risparmiargli molte umiliazioni e aiutare il loro reinserimento nella società».
Parli da paladina della disabilità.
«Spero di arrivare in una posizione in cui avrò un po’ di potere decisionale».
Vuoi scippare la poltrona a Luca Pancalli, presidente del Comitato Paralimpico?
«No,no. Mi piace come lavora Luca. Spero anche io di poter fare qualcosa di concreto».
Vuoi fare politica?
«Potrei. Non lo escludo».
In alternativa…
«Non mi dispiacerebbe fare la giornalista sportiva. Ma di quelle un po’incazzate, d’inchiesta, che contribuiscono a cambiare il mondo».
Stai studiando…
«Ci provo. Ma ho talmente tante cose da gestire. Sono iscritta a Lingue,mercati e culture dell’Asia».
Quanti esami ti mancano?
«Cinque. Se controlli, nelle interviste che ho dato tre anni fa…gli esami da fare erano sempre cinque. Della serie: provaci ancora Marti!».
L’asfalto è irregolare. Le ruote dei pattini e dello skate ogni tanto si incagliano. Martina ha un’energia sorprendente. È auto-ironica e sdrammatizza tutto lo sdrammatizzabile. La sua vita è cambiata nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 2007. Glielo faccio notare. Scherza: «Notte emblematica. Tra i vivi e i morti? Restiamo tra i vivi, dai».
Che cosa ricordi dell’incidente?
«Mio fratello era venuto a prendermi in motorino a una festa. Un macchinone è entrato nella nostra corsia.Ho visto dei fari fortissimi».
Poi lo schianto.
«L’auto mi ha schiacciato la gamba. In ambulanza ero sotto choc».
Hai un racconto fatto da altri su quel che è successo nelle ore successive?
«So che i miei genitori sono riusciti a chiamare un medico in Austria, specializzato in amputazioni di guerra. Lui ha fatto la differenza: mi ha regalato una camminata più fluida».
Sei stata qualche giorno in coma farmacologico. Il risveglio.
«Vedevo tutto appannato. Ero intubata. Mi si è avvicinata una persona, all’inizio non capivo chi fosse. Era mio fratello con la barba lunga di qualche giorno. Riconobbi la voce: “Marti, ti devo dire una cosa. Hanno dovuto amputare mezza gamba”. Esclamai un “Nooo”, soffocato. Dopo non ricordo più nulla. In quel periodo facevo incubi assurdi, dei veri trip, probabilmente aiutata dai medicinali: la morte, i fari, l’incidente. Una psicologa voleva che glieli raccontassi e io mi rifiutavo. Mi faceva male qualsiasi movimento. Il dolore era insopportabile. La gamba veniva attaccata a una macchina che succhiava via il sangue sporco, i punti tiravano… Di notte mi cacciavo il cuscino in bocca e lo mordevo. E piangevo. Diciamo che passato tutto questo mi sono sentita invincibile. Il resto della vita diventa piuttosto semplice».
Anche affrontare il mondo esterno da disabile?
«È stato un adattamento graduale. Sono stata aiutata da un gruppo di amici che mi ha avvolta. Mi portavano in giro,mi facevano sentire la solita Marti. All’inizio,quando portavo una protesi meccanica che assomigliava a una gamba, indossavo pantaloni lunghi e larghi. Dopo l’Erasmus in Spagna ho cominciato a mettere vestiti e minigonne. La cosa più complicata è stata accettare il mio limite e abituarmi a chiedere aiuto».
Ricordi i primi passi fatti con una gamba artificiale?
«Ero nel centro protesi di Budrio,nel bolognese. Per iniziare ti devi fidare».
Quando hai cominciato a correre?
«Nel 2010.Facendo su e giù per i corridoi di Budrio vedevo le foto degli atleti appese alle pareti. Decisi di leggere il libro di Oscar Pistorius. Lo incontrai pure,al festival Bergamo Scienza nel 2008».
Tu hai conosciuto anche Alex Zanardi.
«È uno di quelli che starei ad ascoltare per ore senza mai annoiarmi. Non è mai retorico. È quello che cerco di fare pure io».
Il tuo esordio in pista?
«Ci ho messo un po’. Nei primi due anni non potevo forzare: avevo ancora un chiodo nel femore. Appena è stato possibile, ho provato la protesi da corsa. Passare dalla camminata alla corsa è davvero difficile: è come chiedere a un poppante che gattona di indossare i pattini».
Sarà, ma tu hai piazzato subito un record dopo l’altro.
«Non c’era grande concorrenza nella mia categoria. Non correvo,saltellavo. In questi anni mi sono fatta un po’da sola. Sono stata pioniera».
Il tuo palmarès: due ori olimpici, tre ori ai mondiali, due ori agli europei. Gli argenti non li cito nemmeno.
«L’ultimo oro alle Olimpiadi di Rio ho rischiato di perderlo».
Come?
«Sui 100 metri. Arrivati al sessantesimo ho sentito la protesi che si staccava».
Gulp. Scherzi?
«No, può succedere. Nei giorni precedenti avevo avuto la sensazione che la protesi mi stesse un po’larga e ne avevo fatta preparare una più stretta. Ma poi la mattina durante la semifinale avevo fatto il record paralimpico in sciallezza».
In scial… che?
«Tranquillamente. Senza troppo sforzo. Invece,durante la finale… Nightmare. L’incubo».
Nei video di YouTube si vede la tedesca Vanessa Low che quasi ti recupera.
«Lei è forte. Ha le protesi a entrambe le gambe. E sui 100 è migliorata moltissimo»
Siete amiche?
«Da quando ho cominciato a vincere è diventata un po’ meno cordiale».
Con che ritmi ti alleni?
«Io spingerei ogni giorno in pista,ma poi rischio di spaccarmi. Non posso esagerare».
Usi sempre le stesse protesi?
«Quella elettronica per camminare ce l’ho da tre anni. Cambio ogni tanto quella per correre. È in fibra di carbonio.Le performance migliorano continuamente. Una volta al mese devo fare un tagliando, perché la gamba può dimagrire o ingrassare: se necessario si fa un calco nuovo e si modifica la parte superiore».
Quella che usi per camminare ha un aspetto robotico.
«Qualche anno fa mi hanno chiesto: preferisci l’estetica o la funzionalità? Non ho avuto dubbi,la funzionalità».
Quanto può costare una protesi così hi tech?
«Può arrivare a centomila euro».
Roba da ricchi.
«Io ho una sponsorizzazione,sono ambasciatrice dell’impresa che la produce. È per questo che dico che bisogna lottare perché tutti possano accedere alle migliori tecnologie. Se non è un diritto questo…».
Tu che entrate hai? Come campi?
«Essendo andata a medaglia, il Comitato Paralimpico mi dà uno stipendio. Poi ho un contributo integrativo dal Gruppo Sportivo delle Fiamme Gialle».
La Guardia di Finanza ti fornisce allenatori e staff tecnico?
«Se mi trasferissi a Roma e andassi a vivere in caserma mi garantirebbero tutto l’occorrente: impianti, fisioterapisti… Ma non avrei la mia vita: a Bologna condivido un appartamento con altre 4-5 persone,ci sono sempre un paio di studenti Erasmus,c’è un bel via vai. E amo andare a convegni, incontri culturali, concerti reggae, festival…».
Martina prende la sua borsa, tira fuori un cucchiaio: «Questo è per il festival della zuppa. Ci vado appena abbiamo finito l’intervista». Dicevamo, gli allenatori… «I miei lo fanno tutti per passione, non sono pagati. E rispettano quella che è la componente più importante della mia vita».
E cioè?
«La festa».
Come è stata la festa dopo l’oro di Rio 2016?
«La sera della gara abbastanza formale in Casa Italia.C’erano anche i miei genitori. Ci siamo un po’ ubriacati. Verso le tre di notte una dirigente della Federazione mi voleva riportare a casa,ma sono riuscita a svicolare. La notte successiva abbiamo festeggiato nel Villaggio Olimpico con gli atleti sudamericani a bordo piscina. Abbiamo fatto l’alba bevendo le birre fornite dai tedeschi, che nel frattempo erano andati a dormire».
Dobbiamo fare una foto in discesa. Martina prende velocità, i pattini scivolano rapidi. Alla fine della stradina compare un gruppo di ragazzi. Lei allarga le braccia e, ridendo, urla: «Prendetemiiiiii».
Dato che va spesso a parlare di disabilità nelle scuole, chiedo: qual è il quesito più spiazzante che ti ha fatto un bambino?
«Un piccoletto che aveva una malformazione alla testa mi ha domandato se sono felice».
Che cosa hai risposto?
«Certo che sì ».

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