Roberto Speranza (Sette – aprile 2017)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 7 aprile 2017).
Roberto Speranza, 38 anni, due figli, è uno dei fondatori del Movimento Democratico e Progressista, formazione gauchista nata dalla scissione dal Piddì della costola anti-renziana. Lui non ama il termine rottamazione. Raramente alza la voce. E durante la presentazione del simbolo dei demo-progressisti, “Articolo Uno”, ha srotolato la propria ricetta comunicativa: meno arroganza, più umiltà. Tra gli appellativi più comuni attribuiti a Speranza ci sono serioso e/o giovane-vecchio. Glielo faccio notare. Spiega: «È vero, ho modi cortesi e non urlo. Dipende anche dal fatto che i lucani sono meridionali atipici, di montagna. Una parte della mia famiglia, poi, è inglese». Di quale parte dell’Inghilterra? «Farnborough, 50 chilometri a Sud di Londra. Ci trascorro un mese all’anno, da quando ero bambino». Il suo inglese è migliore di quello di Renzi? «Ahah. Mi pare un obiettivo raggiungibile in modo agile».
Speranza. Nel cognome una virtù teologale, nei nomi di battesimo un destino tutto politico: oltre a Roberto, ci sono anche Sandro e Raul. Racconta: «Mio padre, socialista lombardiano, mi ha spiegato che quando sono nato pensò: se ci dovesse essere una rivoluzione in Italia mio figlio si deve chiamare come uno dei Castro. Mia mamma, invece, era innamorata di Sandro Pertini. Sono nato pochi mesi dopo la sua elezione alla Presidenza della Repubblica. Oltre al nome, mi ha trasmesso la fissazione: ho conservato un tema di terza media in cui scrivo che il mio mito è proprio Pertini».
L’intervista si svolge nel suo ufficio della Camera dei Deputati. Appena cominciamo a parlare dell’identità politica del Mdp, si abbandona a una considerazione dai toni alati: «La sinistra che cos’è? È provare a guardare i problemi del mondo con gli occhi dei più deboli e pensare che in questo modo si costruisca una società migliore per tutti».
Lo trascino nella pozzanghera delle beghe di partito. Lei, Pierluigi Bersani ed Enrico Rossi uscendo dal Pd avete indebolito qualsiasi candidatura alla segreteria alternativa a quella di Renzi.
«Per come sono state indette, le primarie del Pd sono la ricerca da parte di Renzi di avere un plebiscito-rivincita, in sedicesimo, dopo la sconfitta del 4 dicembre, non potevamo partecipare».
Lei, prima della scissione, era il candidato alternativo a Renzi.
«Sì, ma poi abbiamo capito che lui non aveva interesse a riconquistare il popolo della sinistra. Non si è dimesso per salvare la sua comunità, come fecero anni fa Walter Veltroni e Pierluigi Bersani. Si è dimesso per ricandidarsi».
Mi pare legittimo.
«Basta prendere atto che oggi il Pd non è più il Pd, ma il Pdr, il Partito di Renzi, un partito di centro».
Renzi rivendica la natura di sinistra delle sue riforme: le unioni civili, la legge sul caporalato, i miliardi stanziati per la povertà…
«Renzi aveva ragione anche quando diceva che era disposto a perdere voti per salvare qualche vita nel Mediterraneo. Ma la linea sull’immigrazione è cambiata: si sono messi su un terreno di competizione con le forze sovraniste. E se giochi con Salvini a chi ha la ruspa più grande, vincerà sempre Salvini. In ogni caso al netto dei singoli provvedimenti l’impronta di fondo dei mille giorni di governo Renzi non è stata quella di chi guarda il mondo con gli occhi dei deboli».
L’impronta…
«Dare l’idea di essere più amico di Marchionne che degli operai…Togliere la tassa sulla prima casa anche ai miliardari…Così si è creata una ferita».
Lei dov’era quando è stata abolita l’Imu?
«Ho fatto battaglia parlamentare dura e presentato emendamenti».
È rimasto nel Pd, durante tutto il periodo del governo Renzi.
«Nel 2015 mi sono dimesso dalla Presidenza del più grande gruppo parlamentare della storia repubblicana, per difendere le mie idee sulla legge elettorale».
La differenza fondamentale tra Pd e Mdp…
«Noi vogliamo ridare una casa politica agli elettori di centrosinistra. Il problema della sinistra oggi è mondiale. Le parole più forti sulle disuguaglianze sono di Papa Francesco. Anche perché negli ultimi venti anni la sinistra nel mondo è apparsa al fianco dei vincenti, di quelli che hanno avuto le carte migliori e ce l’hanno fatta. Renzi si è mosso in continuità con questa tendenza. Noi vogliamo tornare a parlare agli sconfitti, a quelli che hanno visto entrare nella propria carne le spine della globalizzazione».
Orlando, candidato alternativo a Renzi, dice cose molto simili. È possibile che Mdp in futuro si allei con il Pd?
«Dipende dalle proposte politiche. Il Pd non è il nemico. Il mio nemico è la destra. Ma se il Pd continua a essere Pdr e a sostenere il Jobs Act e la cosiddetta “buona scuola”…diventa tutto complicato».
Molti suoi antichi compagni di viaggio sono rimasti con Renzi.
«Ho condiviso con Maurizio Martina un lunghissimo pezzo di strada. Da capogruppo alla Camera mi sono battuto perché divenisse ministro».
Siete stati entrambi segretari regionali del Pd. Lei della Basilicata, lui della Lombardia.
«Prima ancora eravamo stati contemporaneamente segretari della sinistra giovanile».
Gemelli diversi.
«Lui è stato folgorato sulla via di Damasco. Anzi di Rignano. Io no».
Lei quando ha cominciato a fare politica?
«Da ragazzo, a scuola. Ero rappresentante d’istituto nel mio liceo, a Potenza».
Università?
«Mi sono trasferito nella Capitale anche per assecondare la fede calcistica giallo-rossa. La Luiss a Roma. Scienze Politiche, laurea su Carlo Rosselli».
…teorico del socialismo liberale…
«Una volta laureato la Luiss cominciò a mandare in giro il mio curriculum. Venni preso alla Barilla. Settore risorse umane. Ma dopo qualche mese a Parma…mi dimisi».
Perché?
«Un gruppo di amici mi convinse a tornare a Potenza per fare il segretario regionale della sinistra giovanile. Senza indennità. Può immaginare come la presero i miei genitori».
Il suo primo comizio?
«Risale proprio a quel periodo. Mi assegnarono l’apertura della campagna per le Europee, in una piazza strapiena di Potenza. Mi tremavano le gambe. Quello stesso anno venni eletto consigliere comunale».
Nel 2009, mentre Renzi diventava sindaco di Firenze…
«…io venivo eletto segretario regionale del Pd. Il candidato forte dei bersaniani era un altro. Mi chiamò Filippo Penati, che era capo della segreteria politica di Bersani, e mi disse che avrei dovuto rinunciare alla candidatura. Mi rifiutai e riuscii a ribaltare anche il voto degli iscritti, che avevano scelto il candidato di Dario Franceschini».
È vero che pur avendo già lasciato il Pd lei e Nico Stumpo siete ancora stipendiati dai democratici.
«No. È un problema risolto da giorni. Superato».
A cena col nemico?
«Dave Cameron: ha fatto una battaglia coraggiosa sull’Europa. E l’ha persa».
Ha un clan di amici?
«Ho amici antichi. Il gruppo storico di Potenza ha anche un soprannome, i mifrì, perché molti di noi si comprarono un motorino che si chiamava Free».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Non andare a vedere la finale dei mondiali del 2006».
Quella vinta dall’Italia.
«Mi sono rifatto andando a vedere Italia – Spagna, due a zero, a Parigi».
È vero che lei è abbonato in tribuna Tevere e tutte le domeniche va allo stadio per vedere la Roma?
«Sì. Ci vado con mio figlio Michele Simon».
Il secondo nome viene dal lato inglese della famiglia?
«No, è stata una proposta di mia moglie Rosangela, che lavora nella cooperazione internazionale e ha scoperto di essere incinta mentre era in Sud America. Simon viene da Simon Bolivar».
El Libertador. È vero anche che sta con sua moglie praticamente da sempre?
«Da quando io avevo sedici anni e lei quattordici. Ma ci siamo sposati solo l’anno scorso, a Gerusalemme, la mia città preferita».
Lei che cosa guarda in tivvù?
«Soprattutto sport».
Il film preferito?
«Ne dico un paio: C’era una volta in America e Blues Brothers».
La canzone?
«Da londinese dovrei citare i Beatles. Ma dieci giorni fa sono stato a vedere il concerto dei Baustelle. Dico la loro Gli spietati».
Il libro?
«Il ritratto di Dorian Grey. E tra i libri politici Una scelta di vita di Giorgio Amendola».
Conosce l’articolo 99 della Costituzione?
«No».
È quello che parla del Cnel. I confini della Siria?
«Libano, Turchia, Iraq…».
Sa quanto costa un pacco di pannolini?
«L’ultimo pacco l’ho comprato un paio di anni fa, in offerta, a sei euro».

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Categorie : interviste
Commenti
Salvatore 4 Gennaio 2018

Il posto è meraviglioso, l’ho sarebbe ancora, se rimane tale.

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